Questo numero esamina uno degli aspetti più importanti per conoscere meglio questa cultura musicale. Una sorta di chiave di volta che è rappresentata dal termine gòddou (con varianti minime locali, nella pronuncia e nella grafia). Si tratta di un termine intraducibile letteralmente. Un sostantivo polisemantico, un concetto dai molti significati di cui tutti coloro che lo conoscono hanno un'idea propria di cosa si tratti. Molte declinazioni di una probabile idea originaria, una trasposizione simbolica di un aspetto profondo e alle origini di questa cultura. Ci accompagna in questo breve ma intenso viaggio conoscitivo Mario Teghillo, clarinettista e fisarmonicista. Eccellente musicista e straordinario interprete di questa tradizione musicale dimostra di conoscere perfettamente la propria cultura. Dotato di grande forza comunicativa riesce a spiegare e interpretare complessi aspetti di questo mondo sonoro con immediatezza e lucidità. Sarebbero sufficienti le sue parole. Amico e maestro, continua a essere per me importante riferimento.
Traduzione della registrazione:
Il gòddou, il ghëddo in piemontese, gòddou al nostro modo, è il modo che ha uno di interpretare una suonata. Come tu la interpreti, come la senti, come la vivi tu dentro la musica.
E' la stessa cosa che grosso modo potrebbe avere la poesia.
La sensibilità è la cosa più importante, sta alla base, la sensibilità di una persona. D'altronde io penso che se una persona ha la sensibilità di suonare e di avere il gòddou ha anche una sensibilità di comportarsi anche bene nella vita, cioè è una persona... io la penso così. Mi spiego, non è una persona maleducata e sa trattare il prossimo con il riguardo che ci va, come ci si aspetta. E lì bisogna essere sensibili alle altre persone e poi tu hai la fortuna di trasmetterla musicalmente e chi ha la fortuna di trasmetterla cantando, col canto.
Io non mi vergogno a dire che ho sentito gente suonare e mi sono trovato quasi a piangere ma non che piangevo per compatirli ma perché suonavano talmente bene che a me scappava da piangere. Provi sensazioni che sono straordinarie. La vivi, vivi proprio quel momento lì, la musica, la musica che viene eseguita e sei partecipe. Questo invoglia a suonare, ti invoglia a suonare e ti invoglia a imparare, ad ascoltare. Ci sono tante cose.
A me interessano persone che sono capaci a legare tutte le suonate che facciamo, tutte dalla prima all'ultima, anche se non la sanno, loro però la vivono e te la trasmettono e trasportano, tirano, tirano proprio. Ecco, questo è il gòddou, per me è così.
Ognuno ha il suo gòddou... è vero che ci sono regole, le regole ci sono perché non puoi andare fuori tempo, però ognuno ha il suo sentimento a suonare eh?
Altrimenti diventerebbe solo una questione metodica, come imparano tanti solo a suonare, e così non ha nessun senso, suoni ma non sei a posto, secondo me. Ognuno deve mettere il sentimento a suonare.
Il gòddou è una roba... ho ce l'hai o non ce l'hai, niente da fare. O lo impari ma lo impari se hai la passione e senti suonare qualcuno che ce l'ha e allora impari il gòddou. Se no, o ce l'hai per conto tuo o non ce l'hai.
Le mie variazioni, le cose che mi vengono in testa e arrivo sempre giusto e però, non sbaglio, arrivi giusto. E' lì il gòddou, il gòddou è il... il cuore. È il cuore che fa il gòddou, il sentimento, il sentimento. Per suonare ci va... chi ha il gòddou è perché ha sentimento. A me è capitato di andare a suonare su da Piero Mucëtt con la fisarmonica e io non sono bravo a suonare la fisarmonica, io non sono un fisarmonicista, lui l'ha sempre suonata... l'ho fatto piangere. Perché, d'accordo che ha già una certa età, però si è sentito suonare una roba... una roba che l'ha preso nel cuore. Perché io e lui facilmente abbiamo la stessa patologia, abbiamo il cuore sensibile alla musica nello stesso modo. Si è sentito... ma non solo lui, anche Lidia [la moglie, ndr.] ha pianto. Sono stati presi un po' emotivamente. Mi è persino dispiaciuto, non voglio far piangere i vecchi. Ma il gòddou è questo.
Testimonianza di: Mario Teghillo (1955), Viù, frazione Versino, 04/08/2011 e 14/06/2013
Questo concetto, sensoriale e cognitivo, non coinvolge solo il sapere musicale ma l'intera società. Una sorta di rappresentazione, sotto forma di suono organizzato, dell'idea stessa di società, di umanità, in ogni suo aspetto. Simbolo, cifra di una possibilità esistenziale che attraverso una particolare predisposizione o un determinato apprendimento “al sentimento” permette di accedere a una dimensione altra che trasmette, rivela, conoscenza per mezzo dei sensi. Non solo un modo di essere e vivere ma anche forma di comunicazione in quanto, tale specificità culturale, può essere trasmessa con il canto, con la musica strumentale Avviene un trasferimento, un contatto culturalmente indotto che può condurre fino alla commozione, al pianto. Ciò che si comunica e si “trasferisce” è essenzialmente sentimento e lo si fa sotto forma di suono, una specifica struttura di suono. Una peculiarità che conduce a stati al di fuori dell'ordinario e produce in chi li sperimenta sensazioni straordinarie. Trasporta in una sorta di consapevolezza che amplia orizzonti nella percezione del qui e ora, del momento esistenziale, dell'attimo che si fa eterno. Una facoltà, una forza che è stimolo a conoscere, esplorare possibilità altre aumentando capacità percettive, ampliando panorami interni, disvelando prospettive. Chi possiede tale specificità ha la capacità di “sentire” gli altri e di tenerli uniti per mezzo della musica, di “legare”, di condurre in un percorso temporale trasmettendo significato, ed è possibile che ciò avvenga anche con la prassi dell'improvvisazione musicale, con la creatività. Avviene una sorta di trasposizione in cui i soggetti si fanno suono e in tale nuova forma sperimentano un'intensa condivisione in una dimensione metafisica dal profondo significato sociale e culturale. Si tratta indubbiamente di un concetto sinestetico in cui il sentire, il vedere, il tatto si contaminano. Vi è corrispondenza tra il suono prodotto, la musica, il singolo musicista e il gruppo. Un rapporto di analogia, risonanze. E' anche concetto estetico indice della buona riuscita, della corretta esecuzione musicale, che implica determinate strutture, norme, emissioni sonore. In questa tradizione musicale ci sono regole formali precise che riguardano tanto l'aspetto prettamente musicale quanto l'aspetto sociale. Non tutti dispongono di questa peculiarità, è indole personale, ha qualcosa di magico, di sciamanico. Si può comunque apprendere con l'osservazione di chi la possiede ma ciò è possibile solo attraverso la sensibilità, il sentimento come condizione necessaria. Non si tratta quindi di virtuosismo e tecnicismo musicale ma di attitudine. Il goddou è qualcosa di antico, di atavico. Un termine che è concetto e che potrebbe celare il segno di antiche strutture rituali finalizzate alla cura delle persone, intese nel proprio insieme di corpo e pensiero. Riti nei quali la musica frequentemente apportava un importante contributo e nei quali si tendeva, per la buona riuscita, a raggiungere determinati stati di coscienza che stimolano la sfera emotiva, il sentimento. Un concetto, questo, che è probabilmente all'origine del gruppo sociale in cui l'empatia ne rappresenta la base fondante in quanto permette di “sentire” l'altro, gli altri e riconoscersi attraverso. Un rapporto dunque emozionale di partecipazione in cui si veicolano valori culturali.
L'etimologia è sconosciuta. Vi sono affinità e molte traduzioni con i termini: garbo, grazia, modo. Infatti chi ha goddou è in qualche modo gentile, è sensibile agli altri, prova empatia e si è visto come questa peculiarità sia fondamentalmente una struttura culturale. In questo senso è interessante notare che “garbo”, benché dall'etimologia incerta, possa derivare dall'arabo qālib, modello, forma ma anche dal gotico garws o garvus, ornamento, adorno. Entrambe le possibilità potrebbero trovare riscontri. Vi è inoltre un'affinità di suono e significato col francese guède, dal longobardo waizda o waid (erba colorante) che è il nome di una pianta che in italiano è conosciuta come “guado”, la Isatis tinctoria, della famiglia delle brassicaceae o cruciferae. Pianta utilizzata fin dall'antichità per la produzione di un colorante blu-indaco. Colore che ha dipinto corpi di antichi guerrieri, vesti di signori, abiti delle feste, arazzi e quadri. Con un salto semantico dalla bellezza e prestigio del colore e del colorato si potrebbe arrivare all'eleganza della gentilezza, all'incanto, alla forza e al potere morale. D'altronde si tratta di un termine polisemantico e sinestetico che si muove e tramanda il proprio significato attraverso i sensi e il cui scopo ultimo potrebbe essere quello di mantenere unita la società innalzando il livello di coscienza.
Didascalia della foto:
Fotografia: Flavio Giacchero.
Tradūcere (1993)
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