«Che cosa succede dopo la morte?». Questa è forse la domanda più angosciante che l’uomo si è da sempre posto, e che continua a porsi. Le risposte che si è dato sono innumerevoli. C’è chi pensa che non succeda proprio niente, ma la grande maggioranza della gente crede (o piuttosto spera) che vi sia una vita dopo la morte, che la propria personalità non svanisca nel nulla, e che dall’alto dei cieli si possa vedere come procede la vita di figli e nipoti.
La speranza che vi sia qualcosa dopo la morte nasconde anche un bisogno di giustizia: che gli onesti e i buoni vengano premiati e, soprattutto, che i cattivi vengano puniti.
Tutte le religioni lo prevedono, seppure in modi diversi, riconducibili a due sistemi: da un lato il giudizio universale con relativo premio o castigo eterno; dall’altro la reincarnazione.
È assurdo chiedersi quale sia il sistema migliore, o, peggio ancora, quale sia quello «vero». Nella storia dell’uomo sono da sempre presenti queste due visioni, che soddisfano entrambe l’esigenza di giustizia: nel sistema cattolico il male viene punito con l’Inferno, nell’altro viene espiato nel corso di numerose vite.
La credenza nella reincarnazione ha una storia antica, ci credevano Pitagora e Platone, e circolava nei primi secoli del cristianesimo fino a quando, nel 553, fu condannata come eretica.
I catari credevano nella reincarnazione e a me sembra inequivocabile che ci credesse anche Dante. Vari passaggi che presentano difficoltà di interpretazione e illogicità sono a mio parere risolvibili solo
ricorrendo al concetto di reincarnazione. Nel video ne analizzo uno, il più significativo anche perché si trova nel penultimo canto del poema.
Si potrebbe obiettare che Dante parla a chiare lettere di resurrezione. Ma anche i catari credevano nella resurrezione. Non in quella dei corpi materiali, naturalmente. I catari ritenevano che con la resurrezione tutti gli spiriti avrebbero avuto un corpo glorioso, detto «veste», ma anche – e la cosa suona strana – il loro «trono» e la loro «corona».
Questa terminologia così particolare – e usata esclusivamente dai catari – è presente nella Commedia: e questa è una delle tante prove piuttosto inconfutabili del catarismo di Dante.
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