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Edizione 2018

Adil OLLURI - Premio internazionale

ANTOLOGIA ADIL OLLURI - Testo albanese

Lingua albanese (Kosovo) - "Premio Ostana scritture in Lingua Madre" edizione 2018

Adil OLLURI - Premio internazionale
italiano

Nato a Krojmir nel 1984 (Repubblica del Kosovo) è scrittore in prosa, critico letterario e redattore della più antica rivista letteraria del Kosovo, Jeta e Re (La vita nuova). Fa parte del Club degli Scrittori del Kosovo, del quale è stato anche uno dei fondatori e attualmente è ricercatore di letteratura presso l’Istituto Albanologico di Prishtina.

Ha partecipato a diversi seminari letterari e ha pubblicato suoi lavori su riviste scientifiche e letterarie, nonché su quotidiani del Kosovo e dell’Albania. È autore di due saggi: Trilogjia postmoderne (La trilogia postmoderna, 2011) e Romani postmodern shqiptar (Il romanzo albanese postmoderno, 2011) con cui ha vinto nel 2012 il Premio nazionale di letteratura in Kosovo.

Nel 2013 ha pubblicato a Prishtina il libro di racconti brevi Shumë rrugë dhe një rënie (Molte strade e una caduta) tradotto in italiano da Iris Gjomemo-Hajdari e pubblicato in Italia dalla casa editrice Ensemble di Roma con il titolo La fiera dei sogni (2016), suo primo libro tradotto in italiano.

Del 2016 è il suo primo romanzo Bartësi i shpirtrave të përzënë (Il portatore delle anime esiliate), e in quello stesso anno ha presentato le sue opere alla "Fiera del Libro di Francoforte" e a "Più libri, più liberi", annuale Fiera italiana della media e piccola editoria a Roma. Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in inglese, ceco, tedesco, sloveno, bulgaro, esperanto e in lingua rom”.

Motivazione

Per le sue ricerche in ambito letterario (soprattutto per le tematiche riguardanti il postmodernismo letterario albanese, oggetto di due suoi saggi) e per l’originalità della sue opere in prosa (racconto breve e romanzo), apprezzate anche dalla critica accademica e dai media, Adil Olluri è oggi riconosciuto come il più interessante rappresentante della nuova generazione di scrittori del Kosovo.

La sua opera affronta e propone, con un linguaggio essenziale e diretto, le tematiche sociali, a volte scomode, che traggono origine dalla storia recente e drammatica vissuta dal popolo kosovaro.


ANTOLOGIA - TESTO italiano

Lettera di un soldato straniero

da “La fiera dei sogni” (2016)

traduzione di Iris Gjomeno-Hajdari

Cara donna,

Prima di tutto, ti chiedo perdono per la mia superficialità e per la mancanza di cortesia di quando quel giorno non ti ho chiesto come ti chiamavi, ecco perché in questa lettera non posso rivolgermi a te dandoti un nome. Malgrado io non sappia con quale nome ti potranno chiamare gli altri, non sono mai riuscito a dimenticare il tuo volto pallido e opaco, mentre sicuramente a nasconderti da qualche parte in montagna. Non posso scordare quei occhi azzurri dai quali scorrevano fiotti di lacrime ogni volta che incrociavano il mio sguardo, occhi che sembravano rimpicciolirsi o smarrirsi del tutto ogni volta che si imbattevano nei miei. A dire il vero, da quel giorno non ho più visto occhi dai quali traspaia un simile dolore, nonostante io sia stato vicino alle sofferenze e alle ansie di diverse donne. Eppure nei loro occhi si riusciva a scorgere ancora una certa luce, mentre nei tuoi occhi, mia cara dal nome sconosciuto, era difficile catturare anche il più flebile raggio di luce che possono avere gli occhi femminili. Ho la sensazione che quei occhi si sono rabbuiati e non hanno potuto vedere altro al di fuori di quelle quattro mura. I tuoi occhi erano pronti a guardare la violenza, e poi addirittura anche la morte che, in quelle ore, aspettavano da un momento all’altro come un fatto del tutto naturale. I tuoi occhi erano in attesa di un qualcosa, alla quale non si poteva scampare soprattutto se di fronte a un maschio armato e in uniforme, il quale parlava in serbo, lingua della quale, tu, mia cara dal nome ignoto, non conoscevi una parola. Non posso tralasciare il biancore maculato dei tuoi capelli non lavati e ricoperti di chiazze di fango il quale aveva sommerso la fronte e la tua guancia sinistra. Ma ciò che non posso dimenticare più di ogni cosa è il tuo terrore nei miei confronti, il tuo tremore ogni volta che mi aggiravo in quella stanza angusta, con una finestra minuscola dalla quale i raggi del sole tiepido di quell’inizio di maggio avevano molta difficoltà a penetrare.

Sì, sì, è proprio così! Rammento bene quei giorni. Erano i primi di maggio, il sole non bruciava, pioveva ogni tanto ma non ci si poteva lamentare che facesse freddo. Era primavera inoltrata, dove al posto dei fiori sbocciavano le rovine delle case, al posto del profumo della rugiada mattutina, le nostre anime si erano intorpidite a causa dell’odore del sangue e delle anime dei corpi morti e rimasti insepolti per giorni interi. Erano giorni estivi e noi avevamo rinverdito la natura con il fumo e le fiamme delle nostre armi. Perciò, mia gentile donna sconosciuta, erano giorni di follia, era drammatica quell’ora quando, non il destino, bensì un gruppo di soldati ai miei ordini ti condusse nella mia stanza.

Non riesco a immaginare cosa ti passava per la mente, cosa hai potuto sognare nelle prime ore di quel giorno, prima che ti portassero da me. Forse sognavi di scappare insieme al tuo amato o a tuo marito da quell’inferno, dove la morte a colpi di fucile, gli scoppi delle bombe e i coltelli dei miei soldati erano così frequenti e naturali; dove uccidere un uomo o violentare una donna che parlava la lingua tanto odiata era normale come prendere un tè o un caffè la mattina. Forse eri ancora nubile e avrai voluto insieme ai tuoi genitori, fratelli o sorelle metterti in salvo da quel luogo che nel frattempo era diventato più terrificante dell’inferno stesso, con cui usava spaventarci il nostro chierico dalla lunga barba, il quale malediva l’inferno che non conosceva, e benediva invece questo che poteva vederlo così visibile ai suoi occhi. Forse avrai pensato a qualcosa di bello, a qualcosa che poteva risuonare più grandevole. Come faccio a saperlo?! Forse io, nelle ore di quel pomeriggio, avevo un solo pensiero che mi tormentava per ore intere. Immaginavo me stesso mentre passeggiavo per le vie della città con la mia amata, Milena, con la quale ci eravamo conosciuti un anno prima, proprio il giorno in cui lei aveva sostenuto l’ultimo esame. In quella mattinata, mi apparve il suo sorriso, il quale mi mancava terribilmente in quei giorni così bui. Mi mancano le sue parole, piene di vita e di dolcezza, che poi non ho mai più sentito. Ah mia cara donna dal nome ignoto, ho odiato così tanto quel giorno, le prime ore di quel mattino, al punto che me la sono preso con me stesso e con l’uniforme che indossavo, poiché in quei momenti mi vedevo costretto a correre con un fucile in mano nei villaggi e tra i vicoli del tuo paesino, al posto di stare con la mia amata e festeggiare l’anniversario del nostro amore.

Con Milena ci siamo lasciati subito dopo la fine della guerra, esattamente un mese dopo la mia dimissione dall’ospedale, dove rimasi ricoverato per settimane intere a causa di una lunga operazione andata male, ragion per cui mi vidi costretto a farmi amputare la gamba sinistra. All’inizio ero disperato, ma oggi capisco pienamente la mia amata dell’epoca. Sicuramente non se la è sentita di stare insieme ad un ex soldato fallito, il quale oltre ad avere perso una gamba, aveva altresì causato una perdita al nostro nobile paese a cui veniva amputato una parte, sebbene senza volerlo.

Ah, mia cara sconosciuta, mi sento così male che in quei momenti non sono riuscito a spiegarti perché quel giorno fosse importante per me. Non c’era modo che io ti spiegassi dato che nemmeno io, rispetto ai miei soldati, conoscevo qualche parola della tua lingua, e tu piangevi solamente, senza emettere alcun suono dalla bocca. E io a volte mi sedevo su un tavolo accanto alla porta, altre volte giravo in quella stanza stretta, i cui muri erano così impregnati di muffa, come se fosse una camera infernale e ripugnante.

All’orrore di quella stanza si aggiungeva il tuo pianto terribilmente commovente, ogni volta che ti guardavo dritto negli occhi oppure ogni volta che mi avvicinavo non più di mezzo metro da te.

Quanto più ti osservavo e quanto più mi avvicinavo, tanto più ai miei occhi apparivi come la mia amata di Belgrado. Un secondo dopo l’altro, un minuto dopo l’altro, i capelli, il volto, la fronte e i tuoi occhi mi riportavano a Milena, e questa somiglianza si accentuava sempre di più da un istante all’altro. Non so se era frutto dell’immaginazione o se era un caso che a un anno esatto dall’incontro con la mia amata si manifestava davanti a me proprio la sua gemella, e poi in quali circostanze avveniva tutto ciò... E tu, come bottino di guerra che io dovevo stuprare come tutte le altre, in quella stanza ammuffita che serviva solo a questo. Per essere un bottino di guerra, era qusi d’obbligo stuprarti, ma ecco che non ci riuscivo a fare una cosa del genere. Ogni volta che ti accarezzavo i capelli, oltre alle tue lacrime che mi toccavano profondamente l’anima, mi compariva davanti anche il volto sorridente di Milena, bella e delicata com’era, mentre mi aspettava vicino al boulevard con la sua borsa azzurra stracolma di libri. Per questo, e solo per questo non potevo sfiorarti e quando ti ho stretto la mano, tu hai emesso un grido lancinante, che mi squarciò il cuore. Non ebbi più il coraggio di trattenerti in quella stanza misera e ti rilasciai. Tutti i miei soldati si stupirono e si chiedevano dove ti stessi mandando, mentre piangevi, solo piangevi, e io tacevo. Forse eri certa che stavi andando verso una morte irreversibile. Forse, avresti voluto morire prima di conoscere ciò che ti aspettava.

I soldati, che io avrei ucciso personalmente se avessero osato toccarti, non mi hanno chiesto o forse non hanno avuto il coraggio di domandarmi nulla. Io afferrandoti per mano presi la strada verso il tuo villaggio e ti lasciai a riddosso di un colle, dove bruscamente si interrompeva la linea tra i nostri soldati e i vostri, tra i quali ci sarà stato anche tuo fratello. Ai piedi di questo colle si trovava un piccolo anfratto, dietro al quale, con i binocoli ho visto alcune casette. Appena vidi questo, tolsi subito i binocoli e ti lasciai la mano. Ti feci segno di andare, ma tu eri incredula, molto spaventata, mi guardavi paralizzata e con diffidenza. Può essere che hai pensato che volevo ucciderti alle spalle oppure che si trattava di una trappola.

Mentre ti vedevo scappare da me meravigliandoti del fatto che ti avevo risparmiato quelle violenze, che invece infliggevo alle altre donne, o almeno come mai non ti avevo chiesto come ti chiamassi, all’improvviso due proiettili mi colpirono, uno al ginocchio e l’altro alla costola. I due colpi mi fecero accasciare a terra lasciandomi senza vita in quella riva verdeggianta, dove l’erba fresca si colorò di rosso del mio sangue.

Mia cara donna sconosciuta, forse ti è indifferente che io ti stia scrivendo e che la lettera di un soldato straniero non ti capiterà mai tra le mani.

Può essere che anche tu abbia trovato la morte in quel terrore, dove la morte ci inseguiva ovunque noi andassimo. Allora fuggivamo alla morte, ma ora non posso più scappare, essa mi ha raggiunto.



Trieste, gli Sloveni: attorno al 1912

Dove ha inizio il mare. In verità dove il mare di tanto in tanto si tramuta in fiume. Dove l’Isonzo e il Timavo seguono veloci il proprio corso di acque dolci per fondersi con l’Adriatico, delineando una linea chiara e maestosa tra la luminosa trasparenza grigio-azzurra che diviene frangente di colori torbidi di terra dei fiumi sotterranei e sacri, e la massa verde scura del Mediterraneo. Dove dal sottosuolo e dalle montagne convergono gli umori della natura per fondersi con il limite ultimo della propria esistenza. Questo corso di acque dolci che segna il passaggio dalla pesca lagunare dei pescatori graesani e chioggioti a quella antica slovena delle reti, delle malajde, sospese tra le coste rocciose da San Giovanni e Duino attraverso Sistiana, Aurisina, S. Croce e Grignano e sino a Contovello, Barcola e Trieste.

Questo è ciò che si vede dal ciglione carsico: dove s’incontrano il Carso e il Mediterraneo, dove il timo, la salvia, la ginestra, i pàstini, questi vigneti terrazzati, murati con la pietra gialla del masegno, e il profumo salmastro dell’acqua sanno tramutarsi in pietra, quercia, ginepro, sommacco e pino nero. Dove l’uomo ha ibridamente scelto di essere nel contempo pescatore e contadino per porre le basi della propria sopravvivenza proprio in questi luoghi. E costruirsi un rapporto con la città attraverso i commerci dei frutti della terra e del mare, una città che stava sviluppandosi con innesti di urbe e di campagna, dove non esiste una precisa linea di demarcazione tra gli usi buoni e quelli cattivi, perché è stata questa discesa dall’entroterra verso la città a definire, nei secoli, ogni singolo individuo.

Questo stretto di mare come incontro tra due mondi, dove il fiume riesce a calmarsi quando si fonde con il mare. La forza viva degli antichi citri, le sorgenti di acqua dolce che sboccano dalla costa sottomarina, è capace di mutare la poca profondità di un mare morto in una imprevedibile sequenza di un braccio del Mediterraneo, un cerchio di passaggio, nel quale si riconosce la radice slovena del litorale: è questo ciò che si vede dal giardino terrazzato su quella riva di Barcola, quando ti ritrovi a discorrere con a sinistra la città di Trieste e a seguire quella di Capodistria che delimitano il golfo. Sotto un albero di fichi e in una lieve ombreggiatura di ortensie rosa. A destra, invece, si staglia limpido il passaggio delle acque dolci – la fine e l’inizio di un mondo diverso, il mondo dalle coste sabbiose, dalle pianure sconfinate, dalle cadenze e dalle usanze latine. E in mezzo il flusso della città nel golfo: Tergeste caput mundi.

Questa Tergeste definita e descritta nella sua totalità e nella sua interezza dalla letteratura che ne ha saputo esporre tutte le peculiarità e le specificità caratteriali: per Italo Svevo nichilista, per Claudio Magris segnata dai microcosmi, per Fulvio Tomizza lacerata dalla presenza della frontiera, per Srečko Kosovel luminosa e aperta, per Boris Pahor città anche amara, per Dragotin Kette segnata dalla trascendenza e dalla scoperta del Mediterraneo, per Miroslav Košuta Trieste triste, vulgo Terst, per James Joyce caratterizzata dalla sua lingua franca, questo dialetto istro-veneto, e dalle osterie, per Umberto Saba ancorata all’individuale serena disperazione, dall’identità autenticamente spuria, per Mauro Covacich, dall’umore talvolta vinoso e dal cervello frizzante. Una Trieste che ha ispirato anche Charles Nodier, Stendhal, Winkelmann, Burton, Andrić, lasciando una traccia indelebile, anche se taluni autori vi hanno soggiornato soltanto per brevi periodi.

Quando ci s’incammina fino alla fine del Molo San Carlo e si guarda la città da lontano, ne emerge la sua molteplicità: l’architettura austro-ungarica, i resti romani, l’entroterra sloveno, l’esodo istriano del secondo Dopoguerra, l’elemento nazionale (e anche quello nazionalistico) italiano. Questa molteplicità è compresa anche in quella rosa dei venti in cima al molo: e viene definita Stadt der Winde da Veit Heinichen, naturalizzato triestino, forse l’ultimo a definire Trieste come capitale mondiale della letteratura. La bora da nord-est, lo scirocco da sud e il maestrale. E poi quel neverin delle buriane, terrore dei naviganti. I venti come le lingue che si riconoscono tra loro perlopiù solo da lontano perché non si sanno ascoltare. Trieste, capitale del caffè, del sale, mercato del pesce, capitale della Mitteleuropa, capitale di acute tensioni e scontri di carattere etnico, nazionale, ideologico, emblema del mondo prima e dopo la Grande guerra, e anche di quello prima e dopo il 1945. Luogo dove da secoli sono presenti numerose varianti delle religioni monoteiste, e nel contempo città dalle origini e dalla vocazione spiccatamente laiche. Città di Edoardo Weiss, allievo di Freud. Espressione delle nevrosi di Italo Svevo, Umberto Saba, del compositore Marij Kogoj. E luogo in cui Franco Basaglia negli anni Settanta del Novecento ha attuato la rivoluzione nel campo della psichiatria contemporanea, ponendo al centro l’uomo e non le sue malattie, cercando di sfidarlo a uscire dal suo stato psicotico con l’apertura nei confronti della società e del mondo attraverso l’espressione artistica.

In letteratura Trieste si è costruita un sistema autoreferenziale che si fonda sulla visione mitica dell’identità nazionale, evidentemente non unitaria, e che cede alle lacerazioni e alle psicosi, sintomi par excellence della società moderna.

Questa è la Trieste di Boris Pahor.

(tratto dalla versione italiana della monografia di Tatjana Rojc: Boris Pahor.Così ho vissuto. Biografia di un secolo, Milano, Bompiani 2013)


Letra e një ushtari të huaj

në "Shumë rrugë  dhe një rënie" (2013).

E dashura grua,

Së pari të lus të më falësh për padijën dhe mungesën e mirësjelljes time që nuk të kam pyetur atë ditë si quhesh, dhe kjo më bën të hendikepuar, meqë në këtë letër do t’iu isha drejtuar me emër e mbiemër. Edhe pse nuk e di se si të thërrasin, asnjëherë nuk kam mundur ta harroj fëtyrën tënde të zbehur e të pluhurosur, me siguri duke ikur a duke u fshehur në ndonjë skutë mali. Nuk mund t’i harroj ata sy të tu bojëqielli, që derdhnin rrëke lotësh sa herë më shikonin mua, saqë më dukej se ata zvogëloheshin ose humbisnin fare sa herë që ndesheshin me të mitë. Ta them të drejtën prej asaj dite, nuk kam parë më aso sy që jepnin vetëm pikëllim, sado që kam qenë i pranishëm edhe në shumë vuajtje e ankthe të femrave të tjera. Por, jo, megjithatë në sytë e tyre kishte një lloj drite, por në sytë e tu, e dashura e panjohur, nuk më vëreje as më të voglin shkëlqim që mund ta kenë sytë e një femre. Më dukej se ata u errësuan dhe nuk e shihnin më botën përtej katër mureve dhe u bën gati ta shihnin përdhunimin, e më pastaj ndoshta edhe vdekjen, që e prisnin nga çasti në çast, si diçka thuajse të natyrshme në ato orë, së cilës nuk mund të ikësh kur je përballë një mashkulli të armatosur e të uniformuar, i cili e flet gjuhën serbe, të cilës, ti e dashura e panjohur, nuk ia dije asnjë fjalë. Nuk mund ta harroj bardhësinë e ndotur të flokut tënd, të palarë e të bërë dyll nga njolla balte, që kishin zhytur ballin dhe faqen tënde të majtë. Dhe mbi të gjitha, nuk mund ta harroj frikën tënde ndaj meje, të dridhurat e tua sa herë që sillesha nëpër atë dhomë të ngushtë, që kishte vetëm një dritare të vogël, përmes së cilës mezi depërtonte ndonjë rreze drite e atij dielli jo edhe aq të ngrohtë të atij fillim maji.

Po, po, ashtu është. Bash mirë më kujtohen ato ditë. Ishte fillim maji, kur diell kishte, por nxehtë nuk ishte, kur herë pas here shi binte, por nuk mund të ankoheshe se bënte ftohtë. Ishte mesi i pranverës, kur në vend të luleve kishim mbjellë rrënoja shtëpish, kur në vend se ta ndienim aromën e vesës së mëngjesit, shpirtrat tanë ishin mpirë me aromën e gjakut dhe të shpirtrave të vdekur e të pavarrosur me ditë të tëra. Ishin ditë behari dhe ne e kishim gjelbëruar natyrën me tymin dhe flakën e armëve tona. Pra, e nderuara e panjohur, ishin të çmendura ato ditë, ishte e marrosur ajo orë, kur jo fati, por ushtarët që unë i kisha nën udhëheqje të sollën në dhomën time.

Nuk mund ta imagjinoj se çfarë ke pasur në mendje, çfarë ke ëndërruar në orët e para të asaj dite, para se të të sillnin te unë. Ndoshta ke dashur që së bashku me të dashurin a burrin tënd të ikësh nga kjo llahtari, ku vdekja nga plumbi i pushkës, shpërthimet e granatave dhe thikat e ushtarëve të mi ishte bërë një përditshmëri më së e zakonshme, ku ta vrisje një burrë a ta përdhunoje një grua që fliste gjuhën e urryer, ishte një akt jashtëzakonisht normal e gjakftohtë, po aq sa mund të ketë qenë pirja e një çaji a një kafeje mëngjesi. Ndoshta ke qenë beqare dhe ke dashur që së bashku me prindërit, vëllezërit apo motrat e tua të shpëtosh nga ai vend, që atëbotë ishte bërë më i tmerrshëm sesa ferri, me të cilin na frikësonte kleriku ynë mjekërgjatë, i cili e mallkonte atë që nuk dihej se në ç’vend ndodhej, por e bekonte këtë që mund ta shihte me sytë e tij. Ndoshta ke menduar diçka më të bukur, më të këndshme për ta dëgjuar veshi i njeriut. Ku ta di unë!? Ndërsa, unë në ato orë të asaj paradite kam pasur vetëm një mendim që më sillej me orë të tëra nëpër kokë. E kam përfytyruar veten duke u shëtitur bulevardeve të qytetit tim dorë për dore me të dashurën time, Milenën, me të cilën u patëm njohur qysh para një viti, dhe atë m’u në ditën kur ajo e kishte dhënë provimin e fundit të vitit të dytë të studimeve në universitet. Gjatë agut të asaj dite më është fanitur buzëqeshja e saj, që më ka munguar aq shumë në ato ditë katrahure. Më mungonin fjalët e saj, plot jetë e ëmbëlsi, që nuk i dëgjova më asnjëherë. Sa shumë e urreja atë ditë në ato orë mëngjesi, e panjohura ime e nderuar, sa ia mora inati vetes dhe uniformës që bartja, sepse në vend që në ato çaste të isha me të duke e festuar njëvjetorin e lidhjes sonë, unë duhej të vrapoja me automatik në krah nëpër fshatra e rrugica të ngushta të vendit tënd. Me Milenën u ndamë menjëherë pas përfundimit të luftës, më saktësisht një muaj ditë pas daljes sime nga spitali, ku qëndrova me javë të tëra për shkak të një operimi të gjatë e të pasuksesshëm, si rezultat i të cilit më duhej të amputoja këmbën e majtë. Në fillim u ndjeva i dëshpëruar me këtë ndarje, por sot e kuptoj plotësisht të dashurën time të atëhershme. Me siguri nuk ka dashur të jetë më bashkë me një ish-luftëtar të dështuar, i cili përpos që e humbi këmbën e tij, i shkaktoj humbje edhe shtetit tonë hyjnor, duke mos qenë i zoti të vëjë ligj dhe rend në pjesën që kërkonte shkëputje.

Ah, e panjohura ime, sa ndihem keq që nuk kam mundur të ta shpjegojë në ato çaste se pse ajo ditë kishte rëndësi aq të madhe për mua. Assesi nuk mundja, se as unë, për dallim prej ushtarëve të tjerë të mi, nuk e dija asnjë fjalë të gjuhës tënde, e ti vetëm qaje, duke mos nxjerrë tingull tjetër nga goja. Unë herë rrija ulur mbi një tavolinë karshi derës, e herë sillesha rreth e rreth asaj dhome të ngushtë, muret e së cilës ishin aq të zhytura, e aq shumë jepnin aromë myku, thuajse ishte një kthinë skëterre e neveritshme, e bërë enkas për minj dhe fëlliqësira të ndryshme.

Lemerisë së asaj dhome i shtohej vaji yt tmerrësisht shpirtprekës, sa herë të shikoja drejt në sy ose sa herë që unë të afrohesha jo më shumë se gjysmë metër pranë.

Sa më shumë që të sodisja dhe sa më shumë që të afrohesha, në sytë e mi ngjaje me të dashurën time beogradase. Sekondë pas sekonde e minutë pas minute, flokët e tu, fytyra e jote, balli yt e sytë e tu ma kujtonin Milenën time, dhe kjo ngjashmëri rritej në sytë e mi nga çasti në çast. Nuk e di a kam pasur vetëm përfytyrime imagjinative në atë moment apo ka qenë rastësi fati që në njëvjetorin e lidhjes me të dashurën time të më shfaqej kipci i saj, dhe atë në çfarë rrethane se... Si robëreshë lufte, të cilën do të duhej ta shkërdheja si të gjithë të tjerat, dhe atë në një dhomë të mykosur, që nuk e përdornim për asgjë tjetër. Si një robëreshë e tillë, ishte pothuajse e obligueshme ta shkërdheja, por ja që nuk mundja. Sa herë që provoja të t’i prekja flokët, përpos lotit tënd që ma ligështonte shpirtin, më shpërfaqej para sysh edhe fëtyra buzagaz e Milenës, ashtu e bukur dhe e brishtë, siç ishte, duke më pritur skaj bulevardit me çantën e saj të kaltër dhe librat e saj universitarë. Për këtë dhe vetëm për këtë nuk mund të të prekja dhe kur ta shtrëngova dorën, ti e lëshove një zë tmerrësisht të përvajshëm, që më preku thellësisht. Nuk pata më kurajë të të mbaja aty brenda dhe të nxora nga ajo dhomë e mjerë. Të gjithë ushtarët e mi më shikun me habi dhe hamendësoheshin se ku po të dërgoja, ndërsa ti qaje e vetëm qaje, e unë nuk e thoje asnjë fjalë. Ndoshta, ishe i sigurt se po shkoje pakthyeshëm drejt vdekjes. Ndoshta, më parë do të dëshiroje të vdisje sesa ta përjetoje atë që e prisje.

Ushtarët, të cilët do të isha në gjendje që t’i vrisja që të gjithë, po ta merrja vesh që të kanë prekur me dorë, nuk më pyetën a nuk guxuan të më pyesin asgjë dhe unë duke të tërhequr ty për dore, mora rrugën drejt fshatit tënd dhe të dërgova rrëzë një bjeshke, te një bregore, ku prerazi ndahej vija mes tanëve, dhe ushtarëve tuaj, që ndonjëri mund të ketë qenë edhe vëllai yt. Në fund të kësaj bregore ishte një përroskë e vogël, prapa së cilës, përmes dylbive të mia, pashë ca shtëpiza najloni. Dhe, sapo i pashë këto pamje, hoqa dylbitë nga sytë dhe ta lëshova dorën dhe të dhashë shenjë që të ikësh, por ti nuk besoje, frikësoheshe, më shikoje me dyshim dhe si e mpirë. Ndoshta edhe ke menduar që do të vrisja pas shpine apo se ky do të ishte vetëm një mashtrim i imi.

Duke të shikuar se si ikje fluturimthi nga unë dhe duke e vrarë mendjen se pse nuk munda ta tregoj arsyen pse nuk të dhunova, sikurse femrat e tjera, ose së paku si nuk ta mësova së paku emrin, meqë aq shumë i përngjaje Milenës sime, papritmas më goditën dy plumba, njëri mbi gju dhe tjetri nën brinjë, të cilët më rrëzuan përdhe dhe më lanë për të vdekur në atë breg të blerueshëm, ku bari i njomë u skuq me gjakun tim. Nuk e kam ndier veten për të gjallë për një kohë të gjatë, deri kur e pashë veten në një nga sallat e operacionit në spital.

E nderuara ime e panjohur, ndoshta ty nuk do të bëjë aspak përshtypje fakti që unë po të shkruaj dhe kjo letër e një ushtari të huaj nuk do të bie asnjëherë në dorë. Ndoshta edhe je vrarë në atë kohë tmerri, kur vdekja na ndiqte pas ngado që shkonim e ngado që shihnim.


Trst: okoli leta 1912

Tam, kjer se začenja morje. Pravzaprav tam, kjer se morje od časa do časa prelevi v reko. Kjer Soča in Timava pospešita svoj sladkovodni izliv v Jadran in se zariše jasna, veličastna črta med sivozeleno svetlo prosojnostjo, ki se na trenutke prelije v kalno rjavino podtalnic in svetih voda, in temnozeleno gmoto Mediterana. Kjer izpod zemlje in z gora hrumi razpoloženje narave in se vali v poslednjo skrajnost svojega bivanja. Ta sladkovodni tok, ki utemeljuje sestop od lagunskega, peščenega čožotskega ribištva v slovenski ribolov, zajet v malajdo školjčnih obal od Štivana in Devina preko Sesljana, Nabrežine, Križa in vse do Kontovela, Barkovelj, Grljana in Trsta. To je, kar lahko gledaš s kraškega roba: kjer se srečata Kras in Mediteran, kjer se timijan, žajbelj, brnistra, paštni, obzidani z laporjem, in vonj po mornici prelijejo v kamen, hrast, brinje, rej in bore. Kjer je človek hibridno izbiral dvojno vlogo ribiča in kmeta za to, da je utemeljeval svoje preživetje v teh krajih, prav tu. In si s prodajanjem sadov morja in zemlje zgradil odnos z mestom, ki je nastajalo kot križanec med podeželjem in mestom, kjer ni dejanske ločnice med navadami in razvadami, ker je sestop iz zaledja proti mestu skozi stoletja opredeljeval in definiral vsakega posameznika.

Preliv voda kot stičišče dveh svetov, kjer se reka umiri, ko se spoji z morjem. Živa sladkovodnost podvodnih izvirov, starih brojev, ki spreminja plitkost mrtvega morja v sekvenco nepredvidenega rokava Sredozemlja, prehodni ris, v katerem se prepoznava slovensko obmorje: to je, kar vidiš s terasastega vrta na barkovljanski rebri, ko sedeš k pogovoru, na levi strani pa Trst in za njim Koper, ki zamejujeta Tržaški zaliv. Izpod figovca in v rahlo zasenčeni rožnatosti hortenzij. Na desni strani jasno razločiš, kje je izhodišče sladkih voda – konec ali začetek drugega sveta, sveta peščenih obal, neskončnih ravnin, sveta latinskih kadenc in običajev. In na levi odliv mesta v zalivu: Tergeste caput mundi.

Ta Tergeste je najbolje zapisan in definiran v književnosti, ki je izpostavila vse njegove značilnosti in značajske posebnosti: za Itala Sveva nihilističen, za Claudia Magrisa zaznamovan z mikrokozmosi, za Fulvia Tomizzo mesto, ki predstavlja obmejno razklanost, za Srečka Kosovela ožarjen in odprt v primerjavi z Ljubljano, za Borisa Pahorja opredeljen z grenkobo, za Dragotina Ketteja zaznamovan s presežnim in z odkritjem Mediterana, za Miroslava Košuto Trieste triste, vulgo Terst, za Jamesa Joycea karakteriziran od linguae francae, torej istrobeneškega-italijanskega dialekta in oštarijami, za Umberta Sabo vsidran v individualni umirjeni obup. In ta Trst je navdihnil tudi Charlesa Nodiera, Stendhala, Winkelmanna, Burtona, Andrića, zasidral se je vanje, tudi če so v Trstu preživeli samo kratka obdobja.

Ko se sprehodiš do konca Mola San Carlo in Trst gledaš od daleč, izstopa njegova večplastnost: avstro-ogrska arhitektura, ostanki starega Rima, slovensko zaledje, slovensko morje, istrski povojni eksodus, italijanski nacionalni (in nacionalistični) element. Ta večplastnost je zajeta tudi v tisti roži vetrov na koncu pomola: Stadt der Winde ga imenuje Veit Heinichen, naturalizirani Tržačan, morda poslednji, ki Trst zaznamuje kot svetovno prestolnico literature. Severovzhodna burja, južni veter z morja in mistral. Vetrovi kakor jeziki, ki se med seboj prepoznavajo samo na daleč, ne znajo pa poslušati drug drugega. Trst, prestolnica kave, soli, ribji trg, prestolnica Srednje Evrope, prestolnica ostrih etničnih, nacionalnih, ideoloških trenj in spopadov, emblem sveta pred in po prvi svetovni vojni, pred in po letu 1945. Prostor, kjer so že stoletja prisotne številne različice monoteističnih veroizpovedi, in obenem mesto, ki je po svojem izvoru in emporijski vokaciji izrazito laično. Mesto Edoarda Weissa, Freudovega učenca. Mesto duševnih nevroz Itala Sveva, Umberta Sabe, Marija Kogoja. Mesto, v katerem je Franco Basaglia v sedemdesetih letih dvajsetega stoletja udejanjil pomembno revolucijo na področju sodobne psihiatrije in v središče postavil človeka in ne njegove bolezni ter človeka skušal izzvati iz duševno bolnega stanja z odpiranjem v družbo in svet preko umetnostne izraznosti.

V književnosti je Trst zrastel v samoreferenčni sistem, ki se naslanja na mitsko vizijo svoje nacionalne identitete, ki je očitno neenotna in ki podleže razklanosti in duševnim boleznim, simptomu modernega sveta par excellence.

To je Trst Borisa Pahorja

(tratto dalla monografia di Tatjana Rojc,

Tako sem živel. Stoletje Borisa Pahorja,

Ljubljana, Cankarjeva založba 2013)