Nato a Krojmir nel 1984 (Repubblica del Kosovo) è scrittore in prosa, critico letterario e redattore della più antica rivista letteraria del Kosovo, Jeta e Re (La vita nuova). Fa parte del Club degli Scrittori del Kosovo, del quale è stato anche uno dei fondatori e attualmente è ricercatore di letteratura presso l’Istituto Albanologico di Prishtina.
Ha partecipato a diversi seminari letterari e ha pubblicato suoi lavori su riviste scientifiche e letterarie, nonché su quotidiani del Kosovo e dell’Albania. È autore di due saggi: Trilogjia postmoderne (La trilogia postmoderna, 2011) e Romani postmodern shqiptar (Il romanzo albanese postmoderno, 2011) con cui ha vinto nel 2012 il Premio nazionale di letteratura in Kosovo.
Nel 2013 ha pubblicato a Prishtina il libro di racconti brevi Shumë rrugë dhe një rënie (Molte strade e una caduta) tradotto in italiano da Iris Gjomemo-Hajdari e pubblicato in Italia dalla casa editrice Ensemble di Roma con il titolo La fiera dei sogni (2016), suo primo libro tradotto in italiano.
Del 2016 è il suo primo romanzo Bartësi i shpirtrave të përzënë (Il portatore delle anime esiliate), e in quello stesso anno ha presentato le sue opere alla "Fiera del Libro di Francoforte" e a "Più libri, più liberi", annuale Fiera italiana della media e piccola editoria a Roma. Alcuni dei suoi racconti sono stati tradotti in inglese, ceco, tedesco, sloveno, bulgaro, esperanto e in lingua rom”.
Motivazione
Per le sue ricerche in ambito letterario (soprattutto per le tematiche riguardanti il postmodernismo letterario albanese, oggetto di due suoi saggi) e per l’originalità della sue opere in prosa (racconto breve e romanzo), apprezzate anche dalla critica accademica e dai media, Adil Olluri è oggi riconosciuto come il più interessante rappresentante della nuova generazione di scrittori del Kosovo.
La sua opera affronta e propone, con un linguaggio essenziale e diretto, le tematiche sociali, a volte scomode, che traggono origine dalla storia recente e drammatica vissuta dal popolo kosovaro.
ANTOLOGIA - TESTO italiano
Lettera di un soldato straniero
da “La fiera dei sogni” (2016)
traduzione di Iris Gjomeno-Hajdari
Cara donna,
Prima di tutto, ti chiedo perdono per la mia superficialità e per la mancanza di cortesia di quando quel giorno non ti ho chiesto come ti chiamavi, ecco perché in questa lettera non posso rivolgermi a te dandoti un nome. Malgrado io non sappia con quale nome ti potranno chiamare gli altri, non sono mai riuscito a dimenticare il tuo volto pallido e opaco, mentre sicuramente a nasconderti da qualche parte in montagna. Non posso scordare quei occhi azzurri dai quali scorrevano fiotti di lacrime ogni volta che incrociavano il mio sguardo, occhi che sembravano rimpicciolirsi o smarrirsi del tutto ogni volta che si imbattevano nei miei. A dire il vero, da quel giorno non ho più visto occhi dai quali traspaia un simile dolore, nonostante io sia stato vicino alle sofferenze e alle ansie di diverse donne. Eppure nei loro occhi si riusciva a scorgere ancora una certa luce, mentre nei tuoi occhi, mia cara dal nome sconosciuto, era difficile catturare anche il più flebile raggio di luce che possono avere gli occhi femminili. Ho la sensazione che quei occhi si sono rabbuiati e non hanno potuto vedere altro al di fuori di quelle quattro mura. I tuoi occhi erano pronti a guardare la violenza, e poi addirittura anche la morte che, in quelle ore, aspettavano da un momento all’altro come un fatto del tutto naturale. I tuoi occhi erano in attesa di un qualcosa, alla quale non si poteva scampare soprattutto se di fronte a un maschio armato e in uniforme, il quale parlava in serbo, lingua della quale, tu, mia cara dal nome ignoto, non conoscevi una parola. Non posso tralasciare il biancore maculato dei tuoi capelli non lavati e ricoperti di chiazze di fango il quale aveva sommerso la fronte e la tua guancia sinistra. Ma ciò che non posso dimenticare più di ogni cosa è il tuo terrore nei miei confronti, il tuo tremore ogni volta che mi aggiravo in quella stanza angusta, con una finestra minuscola dalla quale i raggi del sole tiepido di quell’inizio di maggio avevano molta difficoltà a penetrare.
Sì, sì, è proprio così! Rammento bene quei giorni. Erano i primi di maggio, il sole non bruciava, pioveva ogni tanto ma non ci si poteva lamentare che facesse freddo. Era primavera inoltrata, dove al posto dei fiori sbocciavano le rovine delle case, al posto del profumo della rugiada mattutina, le nostre anime si erano intorpidite a causa dell’odore del sangue e delle anime dei corpi morti e rimasti insepolti per giorni interi. Erano giorni estivi e noi avevamo rinverdito la natura con il fumo e le fiamme delle nostre armi. Perciò, mia gentile donna sconosciuta, erano giorni di follia, era drammatica quell’ora quando, non il destino, bensì un gruppo di soldati ai miei ordini ti condusse nella mia stanza.
Non riesco a immaginare cosa ti passava per la mente, cosa hai potuto sognare nelle prime ore di quel giorno, prima che ti portassero da me. Forse sognavi di scappare insieme al tuo amato o a tuo marito da quell’inferno, dove la morte a colpi di fucile, gli scoppi delle bombe e i coltelli dei miei soldati erano così frequenti e naturali; dove uccidere un uomo o violentare una donna che parlava la lingua tanto odiata era normale come prendere un tè o un caffè la mattina. Forse eri ancora nubile e avrai voluto insieme ai tuoi genitori, fratelli o sorelle metterti in salvo da quel luogo che nel frattempo era diventato più terrificante dell’inferno stesso, con cui usava spaventarci il nostro chierico dalla lunga barba, il quale malediva l’inferno che non conosceva, e benediva invece questo che poteva vederlo così visibile ai suoi occhi. Forse avrai pensato a qualcosa di bello, a qualcosa che poteva risuonare più grandevole. Come faccio a saperlo?! Forse io, nelle ore di quel pomeriggio, avevo un solo pensiero che mi tormentava per ore intere. Immaginavo me stesso mentre passeggiavo per le vie della città con la mia amata, Milena, con la quale ci eravamo conosciuti un anno prima, proprio il giorno in cui lei aveva sostenuto l’ultimo esame. In quella mattinata, mi apparve il suo sorriso, il quale mi mancava terribilmente in quei giorni così bui. Mi mancano le sue parole, piene di vita e di dolcezza, che poi non ho mai più sentito. Ah mia cara donna dal nome ignoto, ho odiato così tanto quel giorno, le prime ore di quel mattino, al punto che me la sono preso con me stesso e con l’uniforme che indossavo, poiché in quei momenti mi vedevo costretto a correre con un fucile in mano nei villaggi e tra i vicoli del tuo paesino, al posto di stare con la mia amata e festeggiare l’anniversario del nostro amore.
Con Milena ci siamo lasciati subito dopo la fine della guerra, esattamente un mese dopo la mia dimissione dall’ospedale, dove rimasi ricoverato per settimane intere a causa di una lunga operazione andata male, ragion per cui mi vidi costretto a farmi amputare la gamba sinistra. All’inizio ero disperato, ma oggi capisco pienamente la mia amata dell’epoca. Sicuramente non se la è sentita di stare insieme ad un ex soldato fallito, il quale oltre ad avere perso una gamba, aveva altresì causato una perdita al nostro nobile paese a cui veniva amputato una parte, sebbene senza volerlo.
Ah, mia cara sconosciuta, mi sento così male che in quei momenti non sono riuscito a spiegarti perché quel giorno fosse importante per me. Non c’era modo che io ti spiegassi dato che nemmeno io, rispetto ai miei soldati, conoscevo qualche parola della tua lingua, e tu piangevi solamente, senza emettere alcun suono dalla bocca. E io a volte mi sedevo su un tavolo accanto alla porta, altre volte giravo in quella stanza stretta, i cui muri erano così impregnati di muffa, come se fosse una camera infernale e ripugnante.
All’orrore di quella stanza si aggiungeva il tuo pianto terribilmente commovente, ogni volta che ti guardavo dritto negli occhi oppure ogni volta che mi avvicinavo non più di mezzo metro da te.
Quanto più ti osservavo e quanto più mi avvicinavo, tanto più ai miei occhi apparivi come la mia amata di Belgrado. Un secondo dopo l’altro, un minuto dopo l’altro, i capelli, il volto, la fronte e i tuoi occhi mi riportavano a Milena, e questa somiglianza si accentuava sempre di più da un istante all’altro. Non so se era frutto dell’immaginazione o se era un caso che a un anno esatto dall’incontro con la mia amata si manifestava davanti a me proprio la sua gemella, e poi in quali circostanze avveniva tutto ciò... E tu, come bottino di guerra che io dovevo stuprare come tutte le altre, in quella stanza ammuffita che serviva solo a questo. Per essere un bottino di guerra, era qusi d’obbligo stuprarti, ma ecco che non ci riuscivo a fare una cosa del genere. Ogni volta che ti accarezzavo i capelli, oltre alle tue lacrime che mi toccavano profondamente l’anima, mi compariva davanti anche il volto sorridente di Milena, bella e delicata com’era, mentre mi aspettava vicino al boulevard con la sua borsa azzurra stracolma di libri. Per questo, e solo per questo non potevo sfiorarti e quando ti ho stretto la mano, tu hai emesso un grido lancinante, che mi squarciò il cuore. Non ebbi più il coraggio di trattenerti in quella stanza misera e ti rilasciai. Tutti i miei soldati si stupirono e si chiedevano dove ti stessi mandando, mentre piangevi, solo piangevi, e io tacevo. Forse eri certa che stavi andando verso una morte irreversibile. Forse, avresti voluto morire prima di conoscere ciò che ti aspettava.
I soldati, che io avrei ucciso personalmente se avessero osato toccarti, non mi hanno chiesto o forse non hanno avuto il coraggio di domandarmi nulla. Io afferrandoti per mano presi la strada verso il tuo villaggio e ti lasciai a riddosso di un colle, dove bruscamente si interrompeva la linea tra i nostri soldati e i vostri, tra i quali ci sarà stato anche tuo fratello. Ai piedi di questo colle si trovava un piccolo anfratto, dietro al quale, con i binocoli ho visto alcune casette. Appena vidi questo, tolsi subito i binocoli e ti lasciai la mano. Ti feci segno di andare, ma tu eri incredula, molto spaventata, mi guardavi paralizzata e con diffidenza. Può essere che hai pensato che volevo ucciderti alle spalle oppure che si trattava di una trappola.
Mentre ti vedevo scappare da me meravigliandoti del fatto che ti avevo risparmiato quelle violenze, che invece infliggevo alle altre donne, o almeno come mai non ti avevo chiesto come ti chiamassi, all’improvviso due proiettili mi colpirono, uno al ginocchio e l’altro alla costola. I due colpi mi fecero accasciare a terra lasciandomi senza vita in quella riva verdeggianta, dove l’erba fresca si colorò di rosso del mio sangue.
Mia cara donna sconosciuta, forse ti è indifferente che io ti stia scrivendo e che la lettera di un soldato straniero non ti capiterà mai tra le mani.
Può essere che anche tu abbia trovato la morte in quel terrore, dove la morte ci inseguiva ovunque noi andassimo. Allora fuggivamo alla morte, ma ora non posso più scappare, essa mi ha raggiunto.
Trieste, gli Sloveni: attorno al 1912
Dove ha inizio il mare. In verità dove il mare di tanto in tanto si tramuta in fiume. Dove l’Isonzo e il Timavo seguono veloci il proprio corso di acque dolci per fondersi con l’Adriatico, delineando una linea chiara e maestosa tra la luminosa trasparenza grigio-azzurra che diviene frangente di colori torbidi di terra dei fiumi sotterranei e sacri, e la massa verde scura del Mediterraneo. Dove dal sottosuolo e dalle montagne convergono gli umori della natura per fondersi con il limite ultimo della propria esistenza. Questo corso di acque dolci che segna il passaggio dalla pesca lagunare dei pescatori graesani e chioggioti a quella antica slovena delle reti, delle malajde, sospese tra le coste rocciose da San Giovanni e Duino attraverso Sistiana, Aurisina, S. Croce e Grignano e sino a Contovello, Barcola e Trieste.
Questo è ciò che si vede dal ciglione carsico: dove s’incontrano il Carso e il Mediterraneo, dove il timo, la salvia, la ginestra, i pàstini, questi vigneti terrazzati, murati con la pietra gialla del masegno, e il profumo salmastro dell’acqua sanno tramutarsi in pietra, quercia, ginepro, sommacco e pino nero. Dove l’uomo ha ibridamente scelto di essere nel contempo pescatore e contadino per porre le basi della propria sopravvivenza proprio in questi luoghi. E costruirsi un rapporto con la città attraverso i commerci dei frutti della terra e del mare, una città che stava sviluppandosi con innesti di urbe e di campagna, dove non esiste una precisa linea di demarcazione tra gli usi buoni e quelli cattivi, perché è stata questa discesa dall’entroterra verso la città a definire, nei secoli, ogni singolo individuo.
Questo stretto di mare come incontro tra due mondi, dove il fiume riesce a calmarsi quando si fonde con il mare. La forza viva degli antichi citri, le sorgenti di acqua dolce che sboccano dalla costa sottomarina, è capace di mutare la poca profondità di un mare morto in una imprevedibile sequenza di un braccio del Mediterraneo, un cerchio di passaggio, nel quale si riconosce la radice slovena del litorale: è questo ciò che si vede dal giardino terrazzato su quella riva di Barcola, quando ti ritrovi a discorrere con a sinistra la città di Trieste e a seguire quella di Capodistria che delimitano il golfo. Sotto un albero di fichi e in una lieve ombreggiatura di ortensie rosa. A destra, invece, si staglia limpido il passaggio delle acque dolci – la fine e l’inizio di un mondo diverso, il mondo dalle coste sabbiose, dalle pianure sconfinate, dalle cadenze e dalle usanze latine. E in mezzo il flusso della città nel golfo: Tergeste caput mundi.
Questa Tergeste definita e descritta nella sua totalità e nella sua interezza dalla letteratura che ne ha saputo esporre tutte le peculiarità e le specificità caratteriali: per Italo Svevo nichilista, per Claudio Magris segnata dai microcosmi, per Fulvio Tomizza lacerata dalla presenza della frontiera, per Srečko Kosovel luminosa e aperta, per Boris Pahor città anche amara, per Dragotin Kette segnata dalla trascendenza e dalla scoperta del Mediterraneo, per Miroslav Košuta Trieste triste, vulgo Terst, per James Joyce caratterizzata dalla sua lingua franca, questo dialetto istro-veneto, e dalle osterie, per Umberto Saba ancorata all’individuale serena disperazione, dall’identità autenticamente spuria, per Mauro Covacich, dall’umore talvolta vinoso e dal cervello frizzante. Una Trieste che ha ispirato anche Charles Nodier, Stendhal, Winkelmann, Burton, Andrić, lasciando una traccia indelebile, anche se taluni autori vi hanno soggiornato soltanto per brevi periodi.
Quando ci s’incammina fino alla fine del Molo San Carlo e si guarda la città da lontano, ne emerge la sua molteplicità: l’architettura austro-ungarica, i resti romani, l’entroterra sloveno, l’esodo istriano del secondo Dopoguerra, l’elemento nazionale (e anche quello nazionalistico) italiano. Questa molteplicità è compresa anche in quella rosa dei venti in cima al molo: e viene definita Stadt der Winde da Veit Heinichen, naturalizzato triestino, forse l’ultimo a definire Trieste come capitale mondiale della letteratura. La bora da nord-est, lo scirocco da sud e il maestrale. E poi quel neverin delle buriane, terrore dei naviganti. I venti come le lingue che si riconoscono tra loro perlopiù solo da lontano perché non si sanno ascoltare. Trieste, capitale del caffè, del sale, mercato del pesce, capitale della Mitteleuropa, capitale di acute tensioni e scontri di carattere etnico, nazionale, ideologico, emblema del mondo prima e dopo la Grande guerra, e anche di quello prima e dopo il 1945. Luogo dove da secoli sono presenti numerose varianti delle religioni monoteiste, e nel contempo città dalle origini e dalla vocazione spiccatamente laiche. Città di Edoardo Weiss, allievo di Freud. Espressione delle nevrosi di Italo Svevo, Umberto Saba, del compositore Marij Kogoj. E luogo in cui Franco Basaglia negli anni Settanta del Novecento ha attuato la rivoluzione nel campo della psichiatria contemporanea, ponendo al centro l’uomo e non le sue malattie, cercando di sfidarlo a uscire dal suo stato psicotico con l’apertura nei confronti della società e del mondo attraverso l’espressione artistica.
In letteratura Trieste si è costruita un sistema autoreferenziale che si fonda sulla visione mitica dell’identità nazionale, evidentemente non unitaria, e che cede alle lacerazioni e alle psicosi, sintomi par excellence della società moderna.
Questa è la Trieste di Boris Pahor.
(tratto dalla versione italiana della monografia di Tatjana Rojc: Boris Pahor.Così ho vissuto. Biografia di un secolo, Milano, Bompiani 2013)
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