Racconti di Robert Lafont estratti da
La primiera persona, Lyon, Féderop, 1978
TESTO ITALIANO
Fantasma senza casa
Mica è vita quella d’un fantasma. Non so se mi capite. Quando dico vita potrei dire eternità: passato il passo della morte, noialtri abbiamo l’eternità da vivere. Figuratevi che tirata! Ma non vi figurate l’eternità, non potete immaginarvi... E poi non mi capite perché non mi sentite. Con i fantasmi, avete solo alcuni mezzi di comunicazione grossolani che voialtri avete stabilito, non noi: i colpi d’un tavolo, l’ululato del vento nei corridoi, le luci lattiginose degli ectoplasmi, un rumore di catene. Se vogliamo segnalare la nostra presenza ci tocca strascinar catene: grottesco. Se non ci vestiamo di lenzuoli, per dar consistenza a quel che chiamate un fantasma, restiamo trasparenti e voi ci attraversate, su e giù, come fossimo aria.
Come potreste comprendere la nostra eternità esistenziale? adopero le vostre parole più sottili: proprio così, esistenziale. Non è l’eternità immobile di Dio, ma un’illimitazione della durata. Non siamo il buon Dio. Del resto non l’abbiamo mai incontrato, il buon Dio, in quello che chiamate l’aldilà. Devono esserci molte stanze nella casa del signore, e probabilmente ci ha alloggiati nell’ala dove non mette mai il naso. A volte ci domandiamo se non l’avete inventato voi, appunto per riempire l’aldilà. L’uomo riempie sempre tutto. L’uomo ha orrore del vuoto. Per questo si è fabbricata un’immagine piena e rotonda dell’essere infinito.
La nostra esperienza dell’universo non corrisponde alla vostra. Non ho bisogno di molte parole per comunicarvela. Per esempio, non avete un’idea della visuale obliqua. Un fantasma, quando guarda dritto davanti a sé, vede come voi, ma vede più di quanto voi vedete. Per questo ci fate soffrire quando ci venite incontro e ci attraversate. In compenso, è un piacere per un fantasma vedere un muro in cui un vivo batterebbe il naso, e attraversarlo come un’acqua di sorgente. Ma in più un fantasma ha il potere di voltar la testa e guardare sia a destra sia a sinistra. Facendo questo movimento, fino ad aver il mento sull’una o sull’altra spalla, vediamo aprirsi, come direste voi, delle grandi fenditure una dopo l’altra, e in ognuna un’infinità di mondi aboliti o ancor da venire, con tutti i loro abitanti. È questa la nostra eternità esistenziale: il tempo che fende lo spazio, appena il nostro sguardo non è più fisso dritto davanti a noi. Una fenditura che è infinitizzazione, qualcosa che assomiglia all’effetto che ottenete mettendo due specchi uno di fronte all’altro. Infinitizzazione da ogni parte, perché se c’è un infinito in ogni fenditura, c’è anche un’infinità di fenditure sui quarantacinque gradi che possiamo abbracciare con l’occhio, di qua e di là. E poi, questa per noi è un’esperienza normale, l’infinito di destra, non è che l’infinito di sinistra rovesciato, l’eternità dipanata che scende e risale dal tempo.
Dire che è normale non significa che non se ne patisca. La testa d’un fantasma ... gli prende il capogiro come a un vivo, soltanto non è una vertigine di spazio, ma una vertigine del tempo che gli pesa addosso. Per questo dico che la nostra vita ha un bell’essere eterna, ma non è vita. Siamo presi fra la paura degli umani che ci attraversano e ci bucano e i buchi del tempo che ci assediano da ogni parte. Non potete sapere. Bisogna esser morti per sapere cos’è l’insicurezza.
La sicurezza, la troviamo un po’ nelle case, quelle case dove ci si sente, come voi dite. Mi hanno raccontato che alcuni vostri sapientoni hanno fatto molti studi su questi fenomeni. E qualche volta ho anche incontrato, fra la folla dei fantasmi miei fratelli, il fantasma d’uno specialista di metapsichica: ironia della sorte, dover verificare, dopo morto, quel che uno pensava da vivo della condizione dei morti. L’essenziale è che gli umani, nella loro paura verde dell’aldilà, non hanno mai potuto indovinare questa verità semplicissima: se i fantasmi si affezionano a una casa è perché ci si sentono meglio che fuori, ci si sentono al coperto. Come voi vi sentite al coperto dalla pioggia.
Le case dove vanno i fantasmi sono quelle che hanno mura opache. Cercherò di spiegarmi. È successo molte volte che la mescolanza di cemento e di pietra con cui costruite i muri, come per miracolo si rivelasse intraversabile dal tempo. Voi parlate di solidità, d’indistruttibilità. Noi sappiamo ... Sappiamo che la parete ferma il tempo. Dunque se siamo fra delle pareti possiamo voltarci a destra e a sinistra senza che ci prenda la paura del vuoto. La fenditura (a pensarci bene è normale) si produce solo nel momento in cui attraversiamo il muro, in cui siamo fra una superficie e l’altra.
Allora, quando un fantasma ha trovato un edificio fatto in modo da bloccare il tempo, potete star sicuri che ne approfitta, e se è un bravo fantasma, ne fa approfittare i compagni. È la vita in comune che comincia ... Ridere, ballare, amare ... insomma, fantaridere, fantaballare, fantamare, quel che può fare un fantasma, si può sapere. Cerchiamo soltanto di proteggere la nostra tranquillità nei confronti dei vivi. Con qualche sibilo e qualche sferragliar di catene quando suona mezzanotte, per lo più siamo a posto. Baubau! e l’uomo se la fa addosso. Così siamo a casa nostra, qui dove dite che siamo a casa nostra: avete fatto disegni e mappe dei castelli, dei palazzi, delle case dove succedono fenomeni soprannaturali.
E noi, i fenomeni, viviamo in pace. Ma non viviamo comodi. Di case opache non ce ne sono poi tante. Certo, abbiamo i monumenti romani. Il famoso cemento romano, di cui nessuno ha più trovato il segreto, era una meraviglia di opacità, specie nell’opus minutum. Ci si sente avviluppati di sicurezza, come un feto nel ventre della madre. Ma i Romani, dopo morti, se ne accorsero subito, e i vari Caio e Marco si rifugiano qui, rannicchiati insieme a tutti i Cesari accoltellati e alle Agrippine avvelenate. Loro, i loro clienti, i liberti, gli schiavi, tutti quanti stipati in quel che resta dei monumenti della grandezza romana; e non avanza molto posto per i più giovani.
Il modo di costruire del Medioevo segnò, dal nostro punto di vista, una decadenza, ma succedeva ancora spesso che la torre d’un castello, una cantina a volta, una sala d’armi o una scala a chiocciola fossero fatte d’una materia non troppo trasparente. E qui, ve ne siete accorti, c’è una sovrapopolazione di fantasmi. Per entrarci, è un pigia-pigia.
Dopo il Medioevo, la catastrofe: finestre sempre più grandi dove l’eternità irrompe e sprizza con ogni raggio di sole, muri sempre meno spessi, sale alte dove il cielo trabocca. Per noi sono luoghi di dolore sempiterno. Dobbiamo camminare in linea retta, diritto davanti al naso, come una prua, o come chi avesse il torcicollo, altrimenti lo sguardo e il pensiero precipitano nelle fenditure. Perdiamo la bussola. E un fantasma scombussolato non è più buono a niente. Non è un vantaggio per nessuno.
Ma qualche volta ... qualche volta c’è un muratore che non sa quel che fa, una calce venuta non si sa da dove, delle pietre prese da una buona cava, e ti costruiscono una casa ... gemütlich, come dicono i fantasmi tedeschi che arrivano qui sempre più numerosi da quando l’Europa facoltosa si ritira a passar la vecchiaia sulla costa provenzale. Gemütlich, se capisco bene, è proprio il contrario di quelle case che van di moda adesso, costruite di vetro e d’acciaio: vi rendete conto, il vetro e l’acciaio, l’acciaio ancor più del vetro, la trasparenza perfetta, e per di più brilla, luccica, vi fa girar la testa, e quando la testa gira non si può dimenticare l’infinito neppure per un secondo.
Gemütlich, così mi disse quel fantasma che incontrai circa un mese fa, una bella notte di luna, sulla strada fra la Séina e Sièis Fors. Aveva trovato un alloggio coi fiocchi, una casa di quattro stanze, due a terreno, due al primo piano. La porta e le quattro finestre incorniciate di stucchi, fiori, rami, fogliame; arabeschi e volute su tutta la facciata. Qualcosa di deliziosamente rococò. Ai fantasmi piace l’arte barocca, soprattutto le sue inflessioni decadenti. E anche dentro, una festa di stuccature. Probabilmente era tutto quello stucco, dentro e fuori, che formava una protezione. Verso il 1900 o il 1910, un Provenzale un po’ toccato – a meno che non fosse un turista – si era fatto costruire questo nido infronzolito, quasi fosse stato preso dall’odio del liscio, della superficie nuda, dell’equilibrio architettonico. Senza accorgersene, aveva cacciato fuori l’infinito e il tempo. Per sempre.
Aggiungete, per finire, che il paesaggio che si sarebbe potuto vedere dalle finestre era nascosto da palmizi piantati a siepe. La scorza sbollata degli alberi rispondeva perfettamente al groviglio degli stucchi e delle pietre sbrecciate, come uno specchio, e quell’effetto di rispondenza ci metteva appunto al riparo sospeso sull’infinito che avrebbe scavato ogni altra prospettiva. Questo è gemütlich, il limite, il confine, il guscio dell’uovo.
Con Gemütlich (era il nome che avevo dato al mio compagno) preparammo nella casa degli stucchi e degli arabeschi la notte che ora dirò. E poiché siamo sempre bonaccioni e cordiali, noi fantasmi invitammo gli amici. Sulla porta era appeso un cartello: vendesi. Era tutto scolorito, prova che i compratori non venivano a frotte. La strada era vicina, ma probabilmente una casa rococò, fra la Sèina e Sièis Fors, non suscita entusiasmi. Gli automobilisti dovevano tirar dritto senza fermarsi. Comunque, per prudenza, togliemmo il cartello. Eravamo una buona decina, una compagnia affiatata, tutti della stessa età. Fantasmi moderni, direi contemporanei. Ci si intende meglio quando si è della stessa generazione. Questione di gusti.
I nostri gusti erano per la festa. O la fantafesta. Facevamo finta di ballare. Ridevamo a crepapelle, la fantapelle che abbiamo. La gioia arrivò al colmo quando Gemütlich si accorse che in quella casa disabitata non avevano tolto la luce. Girò l’interruttore e la stanza fu inondata da una luce brillante, zampillata come un getto d’acqua da un lampadario di cristallo falso.
Quello scoppio di gioia fu la nostra rovina. Dalla strada, dovettero vedere le finestre illuminate. Una macchina si fermò. Un uomo venne ad origliare alla porta, puntò l’occhio a una fessura fra due tavole sconnesse. La paura lo prese. Sentimmo il suo urlo di spavento e poi il rombo del motore, una fuga precipitosa. Da quel momento ci sapemmo perduti: sarebbero venuti degli studiosi, i “nostri” specialisti. Avrebbero messo dei fili di seta attraverso le stanze per scoprire il nostro passaggio, e forse delle cellule fotoelettriche negli angoli per captare le nostre forme di ectoplasmi evanescenti. I più coraggiosi sarebbero venuti a passar qui la notte, protetti da scudi contro le famose proiezioni di oggetti.
Ma no, quel che è successo è qualcosa di più. Per nulla scientifico. Un bulldozer ci ha distrutto la casa ieri mattina, in meno di un’ora. Quei muri stuccati e così opachi, dentro eran fatti di polvere e ghiaia. Solo gli ornamenti li tenevano in piedi. Materiale scadente: probabilmente era per questo che la casa non era stata venduta. Caduto l’edificio, vennero due uomini che rasero al suolo le palme. Per noi, ora, è un luogo di deserto e di vertigine. Nella vertigine, sul deserto, arrivò un altro uomo. Aveva in mano carte e progetti. Guardai al di sopra della sua spalla, confondendomi al turbinio della polvere. Vidi il disegno d’una casa tutta finestre. Solo finestre fra linee metalliche. Ma dietro di me c’era qualcun’altro che guardava. Un uomo e una donna, lui con un cappelluccio in cima alla cocuzza, lei sbracciata e popputa. Sapete cosa dissero insieme guardano do il progetto? Sehr gemütlich!
Da non credere ... Di questo passo, presto il mondo sarà pieno di fantasmi senza casa. Per l’eternità. Dicevo che la nostra non è vita. Però finora non era un inferno. Ora comincia l’inferno. Il gorgo del tempo che ci risucchia ad ogni secondo che passa. A destra, a sinistra. Le fenditure una dopo l’altra come quando si sfoglia un libro. Ogni fenditura senza fine. Non c’è un posto abitabile.
Traduzione in italiano di Fausta Garavini,
tratta dalla rivista “L’Albero”, n.60, 1978 (Edizioni Milella)
L’asse
L’anno scorso, anzi, per essere precisi, l’estate scorsa, quando andavo a trovare Sandra, dovevo salire su dalla città per delle viuzze che poi si trasformavano in scale. Stradette colme d’una luce che mi pareva via via alleggerirsi, serpeggianti fra muri colorati d’ocra e di rosa, travalicati dagli allori e dagli oleandri dei giardini, ricoperti dalle aeree matasse dei gelsomini ricadenti. Sandra rimase lassù tutta l’estate, da luglio a settembre, non di più. In ottobre era già partita, il suo mestiere la richiamava a Parigi, o ad Amsterdam, non ricordo. Non l’ho più rivista, e non mi ha scritto. Certo quel che ci accadde nella casa sulla collina di San Martino bastava a fissare nel suo ricordo una presenza amorosa equivalente a qualsiasi presenza fisica, e forse più sod-disfacente.
Penso che si sia messa a dipingere quel che avevamo vissuto insieme. Sandra è pittrice-decoratrice, lavora per degli architetti di grido. Ora forse moltiplica sulle pareti di appartamenti lussuosi dell’Europa del Nord l’emozione sensuale che avevamo condiviso. Ma si può comunicare il ritmo dell’emozione, lo strano evento ritmico che fu quell’emozione? Ne dubito.
L’ultimo tratto che dovevo percorrere era sempre un po’ faticoso, i gradini diventavano più ripidi sotto il portico di San Martino, come per un sadismo del capomastro verso i poveri peccatori che avrebbero salito la via crucis. Ma era un’idea mia, non c’era via crucis, i muratori avevano semplicemente seguito l’inclinazione della roccia, fino alla piazzetta su in cima. Sulla piazzetta, non un filo d’ombra, il sole picchiava impietoso. A quell’ora, il portale della chiesa era sbarrato. Inondato dai raggi a piombo, sudato e senza fiato, mi fermavo per riprender lena. Di lassù si vedeva spandersi la città, le tegole cotte dal calore e dal vento, le quattro torri medievali. il duomo all’italiana, e verso gli orli le costruzioni nuove bianchissime, cubicamente orribili. Lo sguardo si posava più vicino sui giardini della città alta, un groviglio di verde e di fiori. Quella vista non può che rendere felici, bisogna essere insensibili al mondo, corazzati di dolore per resistere all’estasi di queste vecchie città mediterranee, risultato d’una lunga meditazione sul rapporto fra tetti e cielo, fra il campanile e le colline di uliveti. Estasi tanto più facile di fronte al controsenso dell’architettura recente a basso costo. Ma le vere città vecchie sono tanto comprese nel loro equilibrio interno che non lasciano posto a quello scempio, lo respingono fuori, nei sobborghi.
Riposato, infilavo dietro San Martino un androne scuro e stretto. In fondo, fatti una quindicina di passi, c’era la porta di ferro che si apriva senza cigolare. Entravo nel giardino inselvatichito, fra le grandi mimose, i cipressi e gli allori, in un effluvio di profumi asciutti. Qualche scalino, una soglia, un’altra porta: ero nel corridoio, e chiamavo.
Sandra mi aspettava nella sua camera, a persiane accostate, pigramente sdraiata su un’agrippina scolorita. Mi aveva preparato la limonata per dissetarmi e le sigarette. Qualche volta mi lasciava fare una doccia. Parlavamo con calma, prima di scivolare verso il letto, motivo vero della mia venuta e della sua attesa. Parlavamo della città che visitavamo ognuno per proprio conto, mai insieme, senza stancarci né l’una né l’altro delle facciate a bugnato, dei balconi sui cortili interni, delle botteghe più basse del livello della strada, impregnate del profumo dei legumi troppo maturi. Eravamo innamorati della città come di noi, ciascuno per parte sua e ambedue d’accordo. L’amore che facevamo era intriso d’un fondo di godimento estetico in cui si prolungava la bellezza della città, come il retrogusto d’un frutto.
Un giorno Sandra ebbe un’idea improvvisa, mentre arrivavo. O piuttosto, la sua impazienza mi fece pensare a un’idea improvvisa: mi aspettava ansiosa dì mostrarmi la sua scoperta, “Figurati – mi accolse – questa casa in affitto non la conoscevo per intero, non avevo cercato quel che si nascondeva dietro una porticina chiusa”. La porticina, eccola, ne aveva fatto saltare la serratura che ciondolava staccata. Al di là cominciava una scala, mal ripulita dello sporco e dei calcinacci accumulati negli anni. Ci inoltrammo per la scala buia che girava, Ma d’un tratto uscimmo nella luce, su nella sala alta.
Sala o terrazza o campanile? Era uno spazio quadrato, sormontato da una specie di cupola. La cupola poggiava soltanto su dei robusti pilastri di mattoni, sicché la stanza era tutta finestre. Due finestre per ogni lato, otto in tutto. Si vedeva intera la città, fra uliveti e colline. Il campanile di San Martino non era più alto e ci copriva appena due palmi di spazio.
I mattoni e la cupola erano stati dipinti a calce, ma solo qua e là rimanevano dei pezzi d’intonaco. E sotto la cupola, dei blu e dei gialli di affreschi ingenui, un seno di donna, un braccio mal disegnato, un albero di cui si sarebbero potute contare le foglie ad una ad una. Facendo attenzione, si poteva capire che quei disegni avevano una logica, dovevano articolarsi in una specie di ronda montante, come le nuvole popolate di angiolotti nelle chiese barocche di Roma o del Piemonte; e l’insieme formava un corteo fin in cima alla cupola, dove non c’era l’occhio di Dio, ma un buco. Attraverso il buco si vedeva il cielo e scendeva giù un’occhiata di sole.
Il pavimento era a mattonelle rosse e bianche, un disegno circolare, e al centro, in esatta corrispondenza con l’occhio della cupola, un tondo chiaro, uno scudo di marmo. Sandra mi faceva notare il carattere teatrale dell’architettura, Per meglio coglierne la cadenza si era messa al centro del disegno, i piedi sul tondo di marmo, i capelli biondi accesi nell’occhio di sole. Girava sulle gambe unite per farsi scorrere nello sguardo tutte le parti del paesaggio. E mi descriveva l’effetto con parole precise, competenti, come in un trattato accademico di prospettiva.
Io avevo qualcos’altro in testa. La vedevo, in quella raggiera luminosa, tanto più desiderabile. Ebbi voglia di prenderla fra le braccia. Ma mentre la presi, le mani sulle braccia di lei, e quindi fermai il suo movimento circolare, accadde la cosa inspiegabile. Sentii come un soffio sulla guancia, feci un gesto, e nel gesto vidi al di là d’una finestra: il paesaggio, la città si muovevano. Sandra lo vide come me. Non era più lei che girava. Era davvero la città che ruotava, con ritmo lento e continuo. Vedemmo il duomo passare davanti a ciascuna delle otto finestre e ricominciare il giro. E il sole seguiva anch’esso il movimento, Ponente (erano ormai circa le quattro del pomeriggio) passò ad Oriente per poi tornare a posto e spostarsi daccapo.
Non riuscivo a spaventarmi, quasi neppure a stupirmi. Strinsi Sandra a me, la baciai. Sentivo che eravamo sull’asse immobile d’una bellezza normalmente rotatoria. Mi abbandonavo alla sicurezza di quella posizione privilegiata, di quella comprensione architettonica dei rapporti erotici dell’occhio e dello spazio.
Il movimento cessò quando ci separammo. Era evidente che una persona da sola non poteva mettere in moto la rotazione del paesaggio. Bisognava essere due sull’asse, amorosamente uniti, occorreva, fra il cielo e il suolo, una duplice colonna di corpi felici.
Tutta l’estate, la cosa si riprodusse ogni volta che volemmo. Non so se Sandra riesce ora a far capire l’evidenza di quel ritmo ai ricchi Olandesi o Tedeschi che le chiedono di decorare le loro case con degli affreschi di paesaggi mediterranei. Ma penso che il ricordo la riempia di gioia, come se io fossi al suo fianco. Io, io, giù la cresta, il mio io fu solo una parte del meccanismo.
Traduzione in italiano di Fausta Garavini,
tratte dalla rivista “L’Albero”, n.60, 1978 (Edizioni Milella)
Il Gonfio
Non è molto che è cominciato. Ieri l’altro, mercoledì, il primo indizio. Alle sette in punto del mattino. Mi facevo la barba davanti allo specchietto che avevo comprato apposta per quell’operazione, uno specchietto tondo con un’apertura nella parte superiore da cui viene la luce elettrica. Ho l’abitudine: so trovare esattamente la distanza da cui si vede bene il pelo della barba prima che il rasoio lo tagli. A quella di stanza, il mio viso occupa tutto lo spazio dello specchio. A dire il vero, ho una faccia piuttosto larga: fra il mio riflesso e la cornice non resta quasi margine. Mi dà una certa soddisfazione riempire così, per cinque o sei minuti, tutto, il mio spazio visivo. Bisogna dir le cose come stanno: è il mio egotismo naturale nella sua pratica più semplice e ingenua. Il mio narcisismo: averlo soddisfatto la mattina mi fa star meglio per tutta la giornata, Fino a sera, mi sento meglio nella mia pelle, riempio d’una vita organica senza disagio la totalità del mio guscio cutaneo, È proprio così che stanno le cose.
Ma mercoledì successe qualcosa d’inatteso, Passato il rasoio sulle guance, sul mento e sotto, indietreggiai d’un passo come al solito, per osservare il risultato in modo più oggettivo, un po’ più da lontano, come mi vede qualcuno che incontro nel corridoio andando in ufficio, In questo movimento entrano in gioco le leggi dell’ottica: mentre il mio viso si allontana, l’immagine rimpiccolisce e s’inquadra nello spazio circostante, vedo cioè tutt’intorno un po’ della parete verde della stanza da bagno. Ma, appunto, mercoledì non vidi altro che la mia faccia, che occupava esattamente tutta la superficie dello specchietto, né più né meno, Era come se non mi fossi mosso. Feci ancora un passo, fino a trovarmi con le spalle contro la parete. L’immagine non si mosse, Continuava a riempire il cerchio, e per riempirlo subiva una trasformazione che avrei potuto trovare comica se non si fosse trattato d’un’alterazione della mia fisionomia, Mi vedevo la faccia molto più tonda di come ce l’ho.
Chiamai Magalí. Magalí è mia moglie. Una mogliettina carina e brava, da tre anni che siamo sposati c’intendiamo a meraviglia. Pensiamo le stesse cose, della vita di tutti i giorni o dei fatti del mondo. Mai un disaccordo, mai uno screzio. È vero che lei non pensa mai niente prima di me. Forse non gliene lascio il tempo. Ma lei non protesta.
Magalí venne, con la tazza del caffè in mano e un bel sorriso luminoso negli occhi. “Che ti succede?”. Mi parlava guardandomi nello specchio, era impossibile che non vedesse quel che mi succedeva, Ma probabilmente non vedeva niente di straordinario, la sua voce e il suo respiro erano tranquilli. Stava lì, nel riquadro della porta, dietro di me, e non notava niente. Naturalmente non potevo vederla, la mia immagine occupava tutto lo specchio. Perché qualcosa succedesse in quello specchio, avanzai di qualche centimetro, passai il punto conosciuto di equivalenza fra la grandezza della mia faccia e la capacità della superficie riflettente. Normalmente, il bordo dello specchio avrebbe dovuto tagliare la mia immagine, le guance e la fronte. Ma questa cosa normale non accadde, Non solo lo specchio non poteva riflettere nient’altro che me, ma mi rifletteva tutto, voglio dire tutta la faccia.
Ma Magalí non sembrava accorgersene. Dovetti spiegarle. Non volle credermi. Per la prima volta sentii fra noi una dissonanza che nella sua voce prese il tono della disapprovazione: “Vuoi prendermi in giro!”. Ero io che ero preso in giro. Ma lei non poteva capire l’inferno che stavo patendo, l’incantesimo satanico che dava alla mia immagine le dimensioni d’un oggetto. Lei vedeva tutto come se l’aspettava. Alla fine dovetti ammettere che solo per me il mio io occupava lo specchio e non se ne distingueva né in più né in meno. Tutto succedeva solo nel mio sguardo, cioè era una mia idea. Stavo perdendo la testa. E certo Magalí la pensava cosi. Sogguardandola, indovinai una deliziosa lacrima di compassione che le bagnava le ciglia.
Ma al tempo stesso finì quella prigionia, potei guardare tranquillamente lo specchio, non mi rifletteva più su misura. Io e lo specchio, eravamo ridiventati infine due realtà separate dell’universo reale. Il ritorno alla realtà lo dovevo a Magalí. La baciai con riconoscenza. Lei è la mia ragione silenziosa.
Poiché è la mia ragione, quando l’ebbi lasciata, scendendo le scale, non mi sentii più tanto a mio agio. Provavo una sensazione difficile da rendere, e che tuttavia cercherò di descrivere. Un’impressione di superficie, una specie d’indecisione sui confini del mio corpo. Come quando siete gonfi per aver mangiato troppo e sembra che la pelle non possa più contenervi. In questo modo e non proprio in questo modo. È vero che sono grasso e mi sento grasso, mi capita d’irritarmi trascinando un corpaccio troppo pesante e troppo spanto, soprattutto quando mi sono lasciato andare a rimpinzarmi a mezzogiorno. Ma troppo grasso, non vuol dire più grasso di me stesso. Mercoledì, mi succedeva questo. Avevo passato i miei confini. La mia persona sensibile si era gonfiata fino a strabordare la mia persona fisica. Vedevo la larghezza della cintura sotto la giacca e percepivo, non con gli occhi ma per una strana sinestesia, una cintura più larga di quella e anche più larga della giacca.
Così, smisurato, e cercando l’equilibrio fra le mie due misure, scendevo le scale la mano sulla ringhiera. Ma la portinaia, la signora Martinez. quando le passai davanti dandole il buongiorno, non sembrò trovarmi più largo o meno spazialmente limitato delle altre mattine. Mi facevo proprio delle idee strane, mi ero gonfiato in immaginazione.
Me lo dissi chiaro, e quasi a voce alta. Mi riconfortai, e passai la mattina e il pomeriggio in ufficio senza troppo malessere. Per fortuna era una giornata di gran lavoro. Il Prefetto aveva chiesto una specie di rapporto, non un rapporto di cifre, piuttosto un testo redatto in forma estesa e discorsiva, per farsi un’idea sugli espropri decisi dalla commissione per realizzare la strada diretta fra Aigues-Mortes e Port-Camargue. Il capo divisione aveva affidato il rapporto a me: la minima frase che avrei scritto avrebbe avuto gravi conseguenze su un progetto d’interesse pubblico e sugli interessi privati che il progetto poteva favorire, a meno che non li violasse. Nella mia redazione misi, o credetti di mettere molta prudenza. Presi una via di mezzo fra l’approvazione totale del tracciato e la messa in evidenza di alcune correzioni da fare per non attraversare delle proprietà viticole; insinuai abilmente il timore d’una spesa eccessiva, il che significava far svanire un enorme profitto sotto il naso di Pechiney, un naso che, se posso dir così, menava la commissione.
Il giorno successivo al mercoledì è il giovedì. Il giorno successivo alla redazione d’un rapporto è il giudizio del superiore sul rapporto. Giovedì, alle undici, il capo divisione mi mandò a chiamare. Aspettavo quel momento con un brivido nella schiena. Avevo giocato sulle parole, ma le mie intenzioni erano nette e ferme. Avevo giocato grosso. Dirmelo fra me e me, in questo modo, con queste stesse parole, aumentava. il mio malessere.
Il Capo prese il tempo di covarmi con lo sguardo. Mi fece sedere di fronte a lui. mi considerò da dietro le lenti che luccicavano. Ero sempre più a disagio. Alla fine: “Che cos’ha fatto?”, mi lancia a bruciapelo. Cosa avevo fatto? Avevo scritto un rapporto.
Ma no. Quando ebbi riletto quei cinque grandi fogli coperti della mia scrittura – il Capo mi aveva chiesto di farlo con quanta più calma e freddezza potessi – fui sbigottito. Ero proprio io che avevo scritto tutto questo. La calligrafia lo dichiarava senza possibilità d’equivoco, e anche nel contenuto del rapporto c’erano varie prove che mi denunciavano.
Le prove personali. In un rapporto sul tracciato d’una superstrada, destinato al Prefetto, la mia persona si sciorinava senza pudore. Se mi ricordo bene, l’impudicizia dell’io emergeva dallo stile amministrativo in tre momenti che ritmavano un vero striptease psicologico, assolutamente fuori luogo. Il primo momento era verso la fine della seconda pagina, quando proponevo di far passare la strada un po’ più a sud del previsto, addirittura attraverso gli stagni, per risparmiare le spese di esproprio. Invece di velare la mia intenzione anti-Pechiney. la scoprivo chiaramente, mentre la mia frase prendeva un’ampiezza retorica. Veniva poi una strofetta politica ben pepata contro le multinazionali e la colonizzazione turistica della costa. Una vera filippica! E poiché le filippiche sono firmate per assicurare gloria ai loro autori, non mancavano di parlare in prima persona, al modo d’uno Zola accusatore, e di gonfiarmi, io piccolo funzionario esecutore dei disegni prefettizi, fino a sembrare un vero Demostene locale. Ai miei occhi almeno ... Quelle imprudenze politiche si snodavano su un tono di compiacimento che puzzava di Presunzione ciarliera. Mi ero guardato scrivere come ci si ascolta parlare. Avevo trasformato il rapporto al Prefetto in una dimostrazione di prosopopea e di tracotanza più che di franchezza e di argomentazione. E che stesse attento, il Prefetto! Te lo strapazzavo, te lo minacciavo, te lo citavo di fronte al tribunale della nostra terra e del nostro popolo meridionale.
Andavo avanti così per una pagina abbondante. Poi la veemenza si placava, abbandonavo la prima persona per tornare alle prove tecniche. Ma per poche righe. All’inizio della terza pagina c’era come un ciclone nella scrittura, una tempesta di maestrale. La filippica riprendeva con tronfiezza. Facevo parlare la terra di Camargue che soffre d’esser sfigurata da tante orribili costruzioni, di essere sconvolta, striata di strade e scavata da porti artificiali. La terra parlava del proprio dolore e soffrendo diventava carne, una carne che era la mia, fatta femmina per via degli accordi grammaticali e diventata sterminata per coprire un intero paese. Era facile capire che nello slancio avevo trovato una illimitazione che mi faceva girar la bussola a tutti i venti dell’emozione patriottica. Mi ero sentito grande come una provincia. Forse come una nazione.
E poiché mi sentivo tanto grande, mi ero messo a volgere la mia scrittura in grandezza. Sull’ultima pagina del rapporto avevo disegnato una spirale che partiva dal mezzo del foglio con una specie di ghirigoro (cioè avevo cominciato a scrivere a partire dalla firma). La serpe, arrotolandosi in cerchi sempre più larghi uno intorno all’altro, s’impossessava di tutta la pagina. Avevo dovuto scrivere facendo girare il foglio. Raccontavo la mia vita, il mio amore per Magalí e il suo amore per me, l’amore che portavo al mio paese e la riconoscenza che il mio paese mi tributava. Un’enfasi magnifica del sentimento corroborata dall’enfasi del disegno.
Il disegno si fermava a metà d’una parola, come se chi scriveva si fosse svegliato ad un tratto dalla scrittura. Ma ora che ero sveglio del tutto, sotto l’occhio metallico del capo divisione, mi sentivo derelitto come qualcuno che scopre di essere sonnambulo e esibizionista. Farfugliai una scusa. “Ritengo – disse il Capo – che non abbia scritto tutto questo in condizioni normali. L’ho osservata mentre leggeva. Non si ricordava niente di questo testo, e del resto non me lo aveva portato. Lo aveva lasciato sul suo tavolo ieri pomeriggio alle sei. L’ho preso io dopo che lei era uscito. Andiamo, non prenda quell’aria spaventata! La sua coscienza seconda o il suo incosciente non mi interessano. Riprenda il suo testo e lo distrugga. Non le chiedo di scriverne un altro. Nelle condizioni di stanchezza in cui la vedo, la cosa più urgente è che torni a casa per riposarsi almeno una settimana”. E mentre ero già sulla porta senza riuscire a smettere di tremare e di balbettare: “Vada da un medico, uno specialista di malattie dell’io; un egoiatra, se esiste”. E fece tintinnare una risatina di soddisfazione per la buona battuta.
Dal medico non ci sono andato, nemmeno per farmi mettere in congedo. Tornato a casa, mi sono chiuso in salotto. Abbiamo un salotto borghese, con i mobili della nonna di Magalí. C’è uno specchio ovale come usavano nel modern style, sostenuto da un fusto intagliato come una vite avvolta di pampini. Uno specchio alto più d’un metro. Mi ci sono seduto davanti, senza muovermi. Ho detto a Magalí di non disturbarmi. È ragionevole e gentile. La sento lì dietro la porta, ma non entrerà. Rifletto: ieri l’altro il primo sintomo. Ieri lo scatenarsi della. malattia. Gli argini che saltano, e nella perdita d’ogni controllo, l’io si gonfia, si spande. Davanti al Capo avevo paura, mi vergognavo. Ma ora vergogna e paura sono scomparse. Resta un’attenzione estrema al fenomeno. Non posso far altro che spiare il ritorno del male. Devo chiamarlo un male? È evidente che scrivendo, nello spandersi della mia firma che occupa l’ultima pagina di quella specie di rapporto, provavo più voluttà che dolore. Un medico parlerebbe d’una forma di autoerotismo. Sciocchezze! Se il mio io contiene tutto intero il mio paese, soddisfacendomi non faccio godere il mio paese? Uno psichiatra mi definirebbe paranoico. Scienza risibile! Se lo specchio è pieno della mia immagine, dov’è la differenza fra me e l’universo?
Cade la notte. L’ombra salendo dagli angoli copre tutto il salotto, Non mi vedo più bene nello specchio. Ma mi sembra che la mia immagine s’ingrandisca. Prima che l’oscurità sia completa, lo specchio finirà per prendermi tutta la faccia e solo la faccia? Ho come un fremito, un tremolio nelle mani increspate sui braccioli della poltrona. Sento che passo il mio confine. E se lo passo davvero, questo processo non si fermerà. Conterrò tutto l’universo nel mio io, un io d’immense delizie. Alla fin fine, chi dice che non potrà accadere?
Traduzione in italiano di Fausta Garavini,
tratte dalla rivista “L’Albero”, n.60, 1978 (Edizioni Milella)
NOTA
La letteratura d’oc, svoltasi con continuità di tradizione, pur alternando slanci e ristagni dall’età trobadorica ai nostri giorni, ha conosciuto, a partire dal dopoguerra, un’ulteriore “rinascita”. Staccandosi dalle convenzioni ormai deteriorate del Felibrismo, gli eredi di Mistral hanno trovato nuove misure e nuovo respiro, avviando un processo di riappropriazione della lingua e della cultura sfociato poi, nell’ultimo decennio, in un’esplosione della coscienza occitanica che travalica il piano strettamente letterario.
Robert Lafont, nato a Nimes nel 1923, professore di Linguistica romanza (Lingua e Letteratura occitanica) all’Università Paul Valéry di Montpellier, si colloca fra i maggiori artefici di questa ripresa, sia per la sua importante produzione di scrittore sia per il vigile e vario esercizio di critico e saggista. il suo occitanesimo è il perno d’un’attività esplicata in vari settori, nei quali Lafont s’impone per la sua statura. Non a ·caso Emmanuel Le Loy Ladurie, recensendo su “Le Monde” uno dei suoi ultimi lavori (La revendication occitane, Flammarion 1974), lo definiva scherzosamente “Biancaneve fra i sette nani”, volendo così significare l’emergere della sua personalità fra gli altri operatori della cultura d’oc e anche al di fuori di questa. Legando la propria voce alla causa occitanica, Lafont ne ha consapevolmente limitato l’eco, negandosi un’udienza che potrebbe e dovrebbe essere assai più vasta della pur consistente attenzione di critica e pubblico che circonda i suoi scritti in francese. È infatti in francese che spesso si esprime la sua lucida intelligenza critica, in una serie di volumi che costituiscono altrettanti interventi fondamentali: in campo letterario (Mistral ou l’illusion, Plon 1954; Renaissance du Sud. Essai sur la littérature occitane au temps de Henri IV,Gallimard 1970; antologie e analisi dei trovatori, della poesia occitanica dell’età barocca, ecc, linguistico (La phrase occitane, P.U.F. 1967; Introduction à l’analyse textuelle, Larousse 1976; Le travail et la langue, Flammarion 1978), storico (Sur la France, Gallimard 1968), socio-economico (La révolution régionaliste, ivi 1967; Décoloniser en France. Les régions face à l’Europe, ivi 1971).
Ma è in lingua d’oc che Robert Lafont si esprime come poeta (Paraulas au vièlh silènci, Parole al vecchio silenzio, 1945; Dire, Dire, 1957; Pausa cerdana, Pausa in Cerdagna, 1962; L’ora, L’ora, 1963; Aire liure, Aria libera, 1974); come autore di numerose commedie, più volte rappresentate da compagnie teatrali occitaniche, o trasmesse per radio e portate anche sulle scene francesi (si segnalano Lo Pescar de la Sépia, La pesca della seppia, 1958; La Loba, La Lupa, 1959; Ramon VII, 1967; Dom Esquichote, 1973; Lei cascavèus, I sonagli, 1977; senza contare le sette pièces raccolte in Teatre claus, Teatro chiuso, 1969); infine come romanziere (Vida de Joan Larsinhac, Vita di Jean Larsinhac, 1951; Li camins de la saba, I cammini della linfa, 1965; Li Maires d’anguilas, I ditischi, 1966; Tè tu tè ieu, A te a me, 1968; L’icòna dins l’iscla, L’icona nell’isola, 1971; in preparazione: La Fèsta, La festa).
È impossibile sintetizzare in poco spazio tematica e caratteristiche di un’opera così varia e vasta e tuttavia sorretta da una profonda forza unitaria. Tentiamone una definizione attraverso l’ultimo prodotto narrativo, la raccolta di racconti La primièra persona (La prima persona, Lyon, Fédérop, 1978), da cui sono estratti, per gentile concessione dell’autore e dell’editore, i tre che qui pubblichiamo. La chiave onirico-fantastica non esclude precisi riferimenti alla realtà occitanica attuale (nella fattispecie, la “colonizzazione” turistica della Francia meridionale, e gli intrallazzi sottostanti gli appalti di opere pubbliche e i relativi espropri); ma i fantasmi proliferanti dalla densità del reale si sviluppano nel luogo esplicitato dal titolo, la prima persona (non autobiografica, e che anzi significa il rifiuto dell’autobiografia). Tale esperienza narrativa collima con la costruzione d’una linguistica materialista, la praxématique, operata da Lafont in Le travail et la langue, e si fonda sull’evidenza-esistenza dell’io, intorno a cui si organizza il funzionamento linguistico. Il pronome di prima persona, strumento della costituzione dell’individuo in soggetto, è il cordone ombelicale che lega la logosfera al mondo oggettivo e ne consente la rappresentazione; il linguaggio è al centro dell’esperienza del mondo, sul linguaggio si fonda la certezza della realtà. Lafont ritrova così, su un altro piano, il primo postulato della sua esperienza poetica: la lingua d’oc come chiave d’espressione e quindi di possesso dell’io e del reale (“Lo sol poder es que de dire”, Il solo potere è dire). Ma nella Primièra persona l’io che parla instaura tra sé e il proprio discorso una distanza, ossia un ironico distacco che forse è soltanto un mezzo di scongiurare il disastro e il terrore. Infatti nel taglio breve, nella compatta tenuta compositiva di questi racconti si condensa una problematica che investe la crisi d’identità del locutore, l’esplosione nella dimensione onirica d’un sofferto contesto storico-culturale, il genocidio d’un paese e d’una lingua. L’assunzione dell’occitanico stabilisce un principio e un’area di resistenza. Questa lingua uccisa e mai morta è il luogo d’un logos in cui si gioca la messa in questione degli universali linguistici e dunque dei livelli assiologici fra le lingue,. e in cui si sperimenta e si afferma la capacità di dire la più moderna apertura sulle nuove realtà che premono per dirsi.
Nota di Fausta Garavini, tratta dalla rivista “L’Albero”, n.60,
1978 (Edizioni Milella)
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