Portal d’Occitània    Premio Ostana - Scritture in lingua madre

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Edizione 2022

Diego MARANI - Premio speciale

ANTOLOGIA - Diego Marani

Riflessioni sulla lingua, sui linguaggi, sulle identità e sui destini delle lingue madri. Creatore della lingua-gioco Europanto - "Premio Ostana scritture in Lingua Madre" edizione 2022

italiano

Nato in provincia di Ferrara nel 1959, Diego Marani è scrittore e glottoteta, inventore di lingue, che sulle lingue e i loro labirintici significati e identità ha fondato e fonda buona parte della sua narrativa. Laureato in interpretazione e traduzione alla Scuola superiore di lingue moderne per interpreti e traduttori di Trieste 1983, oltre all'inglese e al francese, ha studiato professionalmente olandese e finlandese. Ha quindi lavorato come interprete e traduttore freelance nonché come giornalista per varie testate locali. Nel 1985 ha iniziato a lavorare al Consiglio dell’Unione Europea come traduttore e revisore, posizione che ha mantenuto fino al 2006, quando è entrato a far parte della direzione generale Cultura della Commissione europea e dal 2010 della direzione generale Interpretazione, occupandosi in particolare della politica del multilinguismo, del sostegno alla traduzione letteraria, dell'apprendimento permanente e dell'apprendimento precoce delle lingue. Nel 2014 è stato consigliere del Ministro della Cultura Dario Franceschini durante la Presidenza italiana del Consiglio dell’UE. Nel 2020 il Ministro Franceschini lo ha nominato presidente del Centro per il libro e la lettura. Nel luglio 2020 Marani è stato nominato direttore “di chiara fama” dell’Istituto italiano di cultura di Parigi. 

Marani è l’inventore della lingua artificiale chiamata europanto, costituita da un insieme di tutte le lingue d'Europa. In questo idioma totalmente inventato ha tenuto una rubrica fissa su giornali svizzeri e belgi a partire dal 1990. L'Europanto - sostiene Marani - è una provocazione contro l'integralismo linguistico di chi predica la purezza delle lingue. Con il gioco intellettuale dell'Europanto, Marani invita ad imparare le lingue sapendo vedere dietro ogni lingua l'umanità di chi la parla. La lingua è uno strumento identitario ma è anche una porta aperta verso nuovi mondi che ci aiuta a vedere meglio noi stessi. Nei suoi romanzi, tradotti in quattordici lingue, Diego Marani sviluppa e approfondisce la tematica dell'identità e dell'appartenenza mettendo a frutto la sua esperienza di funzionario europeo. In altre sue opere affronta invece la tematica delle radici e della memoria. In europanto Diego Marani ha pubblicato nel 1999 una raccolta di racconti (“Las adventures des inspector Cabillot”). Il primo romanzo (in lingua italiana) è “Caprice des Dieux”, uscito nel 1994. Il romanzo “Nuova grammatica finlandese” (Bompiani), ha ricevuto il Premio Grinzane Cavour nel 2001, il Premio Dessì nel 2002 oltre a numerosi riconoscimenti all'estero, fra cui l'European Literature Night Prize e l'Independent Foreign Fiction Prize, e lo ha fatto conoscere al grande pubblico. 

Con “L’ultimo dei Vostiachi” Marani ha vinto il Premio Selezione Campiello nel 2002. Diego Marani collabora tra l’altro con il supplemento culturale del Sole 24 Ore, con il Piccolo di Trieste e La Nuova Ferrara. L’ultimo romanzo uscito nel 2021. “La città celeste” (edito da La nave di Teseo) è il racconto in forma romanzata del tempo trascorso da studente a Trieste.


MOTIVAZIONE

Pochi scrittori come Diego Marani hanno saputo fare della riflessione sulla lingua, sui linguaggi, sulle identità legate alla lingua e sui destini delle lingue madri il tema portante della propria narrativa. Dall’invenzione di una lingua artificiale come l’europanto, all’invenzione di storie legate all’apprendimento della lingua intesa come trasmissione di memoria e cultura oltre che radice identitaria, tutta la narrativa di Diego Marani si presenta come un grande affresco delle relazioni umane nel mondo in cui ciascuno si può rispecchiare.

PER SAPERNE DI PIÙ:

https://www.youtube.com/watch?v=l_tdx3jvEtg


INTERVISTA A DIEGO MARANI

a cura di Pietro Spirito

 Pietro Spirito • Cominciamo da una citazione tratta da “Nuova Grammatica Finlandese”: “Una lingua imparata non è che una maschera, un’identità presa a prestito”. E Poi: “Siccome la lingua è madre si cerchi una donna”. Dunque non si può essere “figli adottivi” di una lingua?

Diego Marani Certamente di una lingua si può essere figli adottivi, illegittimi, figli spirituali, figli di secondo letto o perfino non voluti. La lingua è di chi la parla e non appartiene a governi, Stati o accademie. Quando impariamo una lingua su quella lingua abbiamo dei diritti e certo anche dei doveri. Diventa nostra e come tutto quel che è nostro, lo rispettiamo, lo coltiviamo, lo proteggiamo: perché la sua prosperità è anche la nostra.

PS Nei tuoi romanzi, e in particolare in “Nuova Grammatica Finlandese” c’è il continuo riferimento alla musica al rapporto di una lingua con la musica. Qual è questo rapporto e cambia da lingua a lingua? Ci sono lingue più “musicali di altre?

DM Per tutti i popoli il canto è profonda espressione della propria lingua e per quelle lingue che non hanno un’antica tradizione scritta ancora di più nel suono si ripone il loro vissuto e la loro memoria. Ma la lingua è sempre e innanzitutto suono, prova ne sia che tante lingue sono esistite senza mai esser scritte. Tutte le lingue sono dunque musicali e questa musicalità appare chiaramente nella poesia, dove spesso il significato di una parola perde importanza rispetto al suono.

PS Altra citazione: “Le forme di una lingua si ripercuotono inevitabilmente su chi le parla, ne plasmano il volto, le case, la terra, le abitudini, il cibo”. È una variazione sul tema dell’identità, che affronti anche ne “L’ultimo dei Vostiachi”. Vale per tutte le lingue? Gli europei, ad esempio non si assomigliano un po’ tutti?

DM Quando parliamo una lingua straniera, produciamo suoni a cui non siamo abituati, che richiedono il movimento di muscoli facciali che di solito per pronunciare i suoni della nostra lingua non usiamo. Per questo parlare un’altra lingua é come mettersi una maschera. Il nostro volto, la nostra espressione cambia. Ovviamente, più una lingua è vicina alla nostra, meno percepiremo questa mutazione ma ci sarà sempre una sensazione di travestimento, anche per la gestualità che ogni lingua implica e che si manifesta anche nel volto. Le lingue europee possono essere molto diverse, da una slava a una germanica, da una neolatina a un’ugrofinnica e comunque ogni popolo ha una sua gestualità che spesso prescinde dalla lingua.

PS Trieste compare spesso nei tuoi libri, e in particolare nella “Città celeste”, romanzo espressamente dedicato alla città giuliana: qual è il tuo rapporto con questa città di frontiera? 

DM   Trieste resta per me la frontiera assoluta, quella che racchiude tutte le frontiere d’Europa. Frontiera linguistica, culturale, un tempo politica ma anche storica, dove si sono accavallate grandi tappe dell’evoluzione dell’Europa, frontiera dell’impero e del comunismo, isola italiana in un mondo non italiano. Per questo continua a stimolare la mai riflessione e la mia fantasia. Trieste è una piccola Istanbul, come scrisse Raffaele La Capria, un luogo dove qualcosa che doveva succedere non è successo e questo non successo è rimasto nell’aria, nell’atmosfera della città. Continua a non succedere e in questo non succedere trascina anche il futuro della città. Con Trieste ho però anche un rapporto personale: è la città dei miei vent’anni, dei miei grandi amori giovanili, di quando tutto era possibile, tutto di me doveva ancora succedere. Per me dunque il luogo dove posso tornare al Diego Marani che doveva ancora succedere.

PS Che rapporto tra le lingue e i confini? Nella “Città celeste” dici che il confine è un luogo, un odore, un’inquietudine...

DM   Il confine ispira, stimola, attira, incuriosisce, annuncia un cambiamento, un precipizio dentro qualcos’altro che in realtà non arriva mai. Il confine è l’inizio di un avvicinarsi a qualcos’altro in cui alla fine ci si trova immersi senza avere capito dove esattamente è cambiato tutto. Il confine è un’attesa sempre ritardata, il passaggio in un tempo diverso, il travalicare in un altro mondo, un’altra vita dove anche noi ci sentiamo diversi, alla fine liberati da quel che siamo già e liberi di diventare altro.

PS È vero che hai scoperto il bilinguismo a Trieste?

DM   A Trieste ne ho preso conoscenza. Tutti noi italiani viviamo nel bilinguismo di italiano e dialetto ma spesso non ce ne rendiamo conto. Perché non consideriamo il dialetto una lingua a pieno titolo. E anche io vivevo da bilingue inconsapevolmente, parlando il mio dialetto come l’italiano. A Trieste ho capito che il bilinguismo e anche il trilinguismo è una cosa naturale e spontanea che frequentare diverse lingue, anche a diversi livelli di conoscenza, è una condizione naturale dell’uomo europeo.

PS Sia nella “Nuova Grammatica Finlandese” che nella “Città celeste” c’è un ricorso alle grammatiche, intese come manuali. A Trieste compri una grammatica slovena, in Nuova Grammatica Finlandese c’è quella del pastore Koskela. Si può imparare una lingua solo studiando la sua grammatica?

DM No, la grammatica è solo la descrizione di una lingua in un momento della sua perenne evoluzione. Ma conoscere una grammatica dà una sensazione di dominio, di potenza, di padronanza di una lingua. È anche una questione di formazione: io sono cresciuto fra le grammatiche, quella italiana, quella latina, quella greca. Di ogni lingua dovevo conoscere la regola prima di usarla e questo mi ha condizionato. Comperando una grammatica mi illudo di avere già la lingua in tasca. Potessi imparare una lingua mangiandone la grammatica lo farei. Ma per imparare una lingua bisogna soprattutto parlarla ed abituarsi a fare venire dopo la grammatica, la regola. O comunque a non mettere il libro prima del suono.

PS Altra citazione: “Il ricordo è inseparabile dalla parola”: così anche la trasmissione della memoria? O può esistere une memoria scissa dalla lingua, per così dire una memoria di sole forme e immagini.

DM Non ho una risposta. Per ogni ricordo c’è bisogno di un narrato e il narrato si fa in una lingua. Le immagini non bastano. Forse è vero il contrario: le immagini hanno bisogno di parole per durare nella memoria.

PS Ancora una citazione da “Nuova Grammatica Finlandese”: “Come tutto quel che è proprio dell’uomo, anche la lingua si trasforma e perseguirne la purezza e insensato quanto perseguire la purezza della razza”: quali sono allora i limiti di preservazione di una lingua? 

DM Dovremmo essere più tranquilli in materia di conservazione di una lingua. DM   PS Abbiamo il timore che le lingue muoiano e sentiamo di tante che scompaiono. In realtà una lingua non muore mai. A noi può sembrare morta, scomparsa mentre invece si è solo travasata dentro un’altra o si è trasformata in un’altra. Pensiamo al latino: possiamo dire che è morto ma anche che sta benissimo, al punto che si è moltiplicato in sei diverse varianti: italiano, spagnolo, catalano, francese, rumeno e portoghese. Lo stesso vale per il copto: non esiste più ma ha fortemente influenzato l’arabo egiziano. Le lingue non muoiono, si trasformano, perché in realtà potremmo considerare il fenomeno linguistico come unico. C’è un’unica lingua che si muove nel mondo in tante varianti e forme diverse. Per questo è assurdo accanirsi a proteggere una lingua, a volerla conservare con divieti e imposizioni. Sono castelli di sabbia in riva al mare che la prima onda si porta via. Quel che dovremmo tener vivo è la cultura, il pensiero, la creatività che in quella lingua si esprime, cosicché la lingua possa pure cambiare ma non si perda il contenuto vero. Del resto è quello che è accaduto alle nostre lingue e culture: l’italiano di oggi è diversissimo da quello di Dante ma è sempre lo strumento di espressione della nostra cultura, che continua a essere vivace e potente, a produrre idee, a esprimere la complessità del vivere umano. Possiamo stare tranquilli: finché saremo capaci di pensiero, avremo sempre una lingua in cui esprimerci.

da “La lingua unica non è l’unica” – Conferenza di Diego Marani c/o Centro Congressi Ville Ponti, Varese, 16.06.2018 – 

You Tube TEDxVarese (trascrizione parziale).

DE DIVINE COMEDIA

Des meine life nel medio van der way

finde myself eine bosco obscuro

de juste via nesciente donde stay.

Dicere wat ich felt est mucho duro

porqué van de foresta racontante

der terrible horrore non enduro

so close was aan der morte semblante;

Aber por say der benedas ich finde

shal ich descrive wat was ich voyante.

How zum ingehen raconte non potest

porquè op ein momento sleapingante

correcta meine via hadde geloste

Quello che avete appena letto è l’europanto; non è una lingua, è un gioco che io uso per dimostrare che le lingue si sono sempre mescolate, continuano a mescolarsi, che non ci sono regole nelle lingue, le regole servono per descrivere una lingua nel momento della sua evoluzione, non per prescrivere il suo comportamento. L’europanto serve anche a mostrare che non può esistere una lingua unica e che sbagliamo nel cercarla. È vero, l’uomo a lungo cercò di inventare una lingua unica, universale che tutti ci unisse in una generale comprensione e l’esperimento più riuscito è senz’altro l’esperanto, lingua nobile, sedici regole, niente eccezioni, lingua che si pretende neutra, ma che cos’è neutro in linguistica come in politica, ditelo a un cinese che l’esperanto è neutro! … Oggi si pensa che l’inglese potrebbe essere la lingua del futuro, la lingua che tutti ci unisce. In effetti la lingua inglese oggi permette una comunicazione che nel passato sarebbe stata impensabile… Torniamo però a pensare alla varietà linguistica, se questa può essere invece la via del futuro. L’Unione Europea da anni sviluppa una politica del multilinguismo come ci hanno chiesto i nostri governi dal 2002, quando s’impegnarono a far sì che la società europea, a termine, parlasse tre lingue: la lingua madre, la lingua internazionale e la lingua di vicinato…

da “La città celeste” 

 Romanzo, pagg. 96-97, 

La nave di Teseo, 2021.

Mi prese ancora di più la foga di capire, di immergermi in quel mondo che più mi ci addentravo, più si complicava. Volevo imparare e alla libreria Italo Svevo comprai la mia prima grammatica slovena, quella con la copertina azzurra del professor Anton Kacin. Sarebbe bastata quella per impararlo se non mi fossi sempre fermato alla prima declinazione. Ma se non sono mai riuscito ad andare avanti non è solo colpa della mia poca costanza. Si può imparare quel che si lascia apprendere, quel che è disposto a darsi e a lasciarsi conquistare da noi. Invece quella lingua e chi la parlava in fin dei conti non mi volevano, non sapevano cosa farsene di uno come me, anzi vedevano la mia simpatia per loro con sospetto. Per me studiare sloveno era solo una stravaganza e parlarlo sarebbe stata un’abilità circense di cui stupire gli amici. Come quando a Parigi avevo fatto il corso di tip tap e poi mi ero esibito sul parquet di via San Nicolò nelle nostre feste. Per gli sloveni di Trieste era invece la loro lingua, la loro identità. Quel che li distingueva e li discriminava, che faceva correre loro il rischio di essere presi a botte per strada o considerati traditori della patria in cui erano rimasti intrappolati. Peggio ancora del divieto di parlarla, che qualcuno volesse imparare la loro lingua per gioco era un’offesa inaudita. Ognuno di noi esiste solo in una lingua. Ogni altra che frequenta è presa in prestito e deve essere prima o poi restituita all’oblio. Dimenticarla è una forma di rispetto e di gratitudine per chi ce l’ha lasciata usare e una misura di igiene per una sana memoria.

Ma siccome era la lingua di Vesna, in quel momento lo sloveno mi parve la lingua della felicità. Era chiaro, tutta la mia malinconia veniva dal fatto che ero nato nella lingua sbagliata. Era lo sloveno la mia vera lingua e impararla diveniva un ricongiungimento con me stesso. Ne trovavo la prova nella facilità con cui pronunciavo senza capirle le parole che Vesna mi insegnava e allora fantasticavo che in un lontano passato la mia razza doveva essere stata slava e che i suoni dello sloveno io ce li avessi tutti lì, in fondo alla gola. Erano solo da rimettere al loro posto. La sera nello specchio del bagno mi guardavo parlare sloveno per vedere l’effetto che faceva la lingua di Vesna sulla mia faccia e avevo l’impressione che i miei lineamenti trovassero una migliore armonia nel pronunciare tutte quelle palatali e quelle fricative. Ero convinto che a forza di ripeterle, quelle parole avrei finito per capirle. Così, come una rivelazione, l’amore fra me e Vesna sarebbe sbocciato irresistibile e la mia congiunzione con Trieste infine compiuta… 

da: “Nuova grammatica finlandese”, 

di Diego Marani, romanzo, 2001, 

Premio Grinzane Cavour, 

pag. 143 - 2022 nuova 

ed. La nave di Teseo.

Non avevo mai pensato che la parola “Raamattu” deriva da “Grammatica”. È una di quelle palesi evidenze cui si finisce per non far più caso. Eppure forse la dice lunga sul devoto amore per la propria lingua che distingue ogni finlandese. Per noi la lingua è parola di Dio, anche quando in Dio non si crede, e la grammatica è una scienza esatta, fatta di significati commensurabili e retta da teoremi incontestabili. La parola corretta dà armonia al pensiero, gli conferisce la matematica ineluttabilità della musica. Ma ogni epoca suona musiche diverse e accordi che un tempo diabolici ora non fanno più paura a nessuno. Non esiste l’armonia eterna: come tutto quello che appartiene a questo mondo, alla lunga anche i suoni si consumano e l’uomo deve inventarne degli altri per riuscire a tenere la testa fuori dal silenzio. Quel che per noi oggi è musica, cento anni fa era rumore. L’errore di ieri oggi è solo un’innocente eccezione. La regola viene sempre dopo la parola: questa è la grande debolezza di ogni grammatica. La regola non è ordine, è soltanto la descrizione di un disordine. Come tutto quel che è proprio dell’uomo, anche la lingua si trasforma e perseguirne la purezza è insensato quanto perseguire la purezza della razza. I linguisti dicono che ogni lingua tende via via a semplificarsi, a esprimere il massimo significato con il minimo ingombro di suoni. È così che le parole più corte sono quelle più antiche, più corrose dal tempo. In finlandese, guerra è “sota” e queste due sillabe bastano a dire quante ne abbiamo fatte.