E “il grano diventa polvere” perché, se così non fosse, non potrebbe diventare pane. Qui termina prematuramente il Canto. Chissà come l’avrebbe definito Varujan, se il suo sangue non fosse stato sparso su quella campagna anatolica che amava così teneramente. In questa poesia ci dà forse un indizio per capire la fine. Nell’ultima strofa fa infatti capire che da “polvere” il grano diventa luce: “i carri cantando, lasciato l’oro / ritorneranno colmi di luce”. Sì, forse avrebbe proprio parlato della transizione dalla “polvere” alla “luce”: della resurrezione del grano nel pane.
Siobhan Nash-Marshall
Ehi mulino, gira, gira,
accucciato sulla terra verde della valle;
grida il tuo canto profondo
verso la luna dal cerchio d’argento.
Tu sei una casetta vacillante
con le mura infarinate, dove
si direbbe che piangano, atterrite di stupore,
le sirene vestite di seta.
E dentro sempre vigila, sveglio,
il mugniaio tutto bianco;
lento e veloce, secondo che occorre,
carica il tuo cuore che batte.
Ehi mulino, bufera imprigionata
tra gli alberi – macina, macina,
bevi la schiuma, fa’ piovere la farina;
dal tuo petto di pietra fa’ piovere abbondanza.
Arresta nella sua corsa il ruscello
acciuffato per la criniera ondeggiante.
Trasforma in canto la cascata tumultuosa
falla piombare a precipizio nell’abisso.
Carri, carri in fila interminabile
per la strada biancheggiante del villaggio
ti portano il loro tesoro...
ehi mulino, gira, gira.
Lascia che il grano diventi farina
nell’ombelico delle forti macine,
che pervase di febbre infinita
scricchiolano e girano.
Lascia che il grano diventi polvere
in mezzo alle pietre che si abbracciano;
in mezzo alle rocce che si mordono
lascia che il grano diventi il fiore.
Finché si riempiranno uno dopo l’altro
i sacchi, e poi si raddrizzeranno;
e i carri cantando, lasciato l’oro,
ritorneranno colmi di luce.
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