Salvatore Tommasi è nato nel 1950 a Calimera (Grecìa salentina – provincia di Lecce). Laureatosi in Lingua e Letterature straniere, ha insegnato Filosofia e Scienze della Formazione nella Scuola secondaria superiore. La conoscenza del griko, la capacità di analisi scientifica della lingua, l’esperienza didattica e la qualità della sua vena poetica e narrativa, ne fanno oggi il maggiore esponente di lingua e cultura grika degli ellenofoni di Puglia.
Nel 2009 pubblica con l’Associazione Ghetonia la raccolta Alia Loja, componimenti poetici in griko che si snodano lungo percorsi dell’anima: nostalgia, amore, dolore, danzano insieme tra passato e futuro, tra speranza e scetticismo. Nel 1988 ha pubblicato, in italiano, il libro di poesie Le mie bandiere (Firenze libri). Da decenni si occupa del recupero e della valorizzazione della lingua e della cultura grika. Ha scritto in Katalisti o kosmo, (Ghetonìa, 1996), raccolta di dialoghi sulla tradizione e guida grammaticale per l’apprendimento del griko, e Io’ mia forà, fiabe e racconti della Grecìa Salentina (Ghetonìa, 1988), con trascrizione, traduzione e studio del ricco patrimonio di narrativa popolare, frutto della ricerca sul campo compiuta da Vito Domenico Palumbo a fine Ottocento.
E’ inoltre autore di Loja americana, commedia brillante in griko e di un racconto, Sarakostì (Quaresima), sulla vita dei carbonai, i craunàri, mestiere tradizionale di Calimera. Tiene corsi di apprendimento del griko per ragazzi e adulti. Ha in preparazione un sito web dedicato a lingua e cultura grika.
Un sito web dedicato a lingua e cultura grika:www.ciurcipedi.it
ANTOLOGIA
TESTO ITALIANO
La nostra lingua
Cos’è la nostra lingua? Ragazzo mio!
Non sono parole d’un vecchio manoscritto,
che a fatica tu impari a decifrare;
né parole scolpite
sopra un’antica lastra di pietra,
su di un muro, in una grotta.
La nostra lingua è voce,
voce soltanto.
Tu mi chiedi qual è il suo inizio, com’è giunta fino a noi,
chi l’ha portata da queste parti, chi l’ha appresa per primo.
Chi lo sa, ragazzo mio!
Non ti importa saperlo.
È la voce che abbiamo succhiato
dal seno di nostra madre: come il suo latte
dolce,
come il sorriso delle sue labbra;
voce che ci vestiva, trastullava, accompagnava a letto;
voce che ci insegnava le canzoni, le preghiere, l’amore,
ed il mondo;
voce dell’ulivo, del fico,
voce del focolare.
Lo ricordi tu, il focolare?
E la pignatta con i piselli, il pentolone appeso alla catena
dove si lessavano le verdure,
la scodella con l’olio bollente
dove si friggevano i calangi per Natale?
E il braciere? Lo ricordi il braciere?
Si accendevano prima i rami secchi, fuori, al vento,
perché s’alzasse una grande fiamma ed i carboni
diventassero di fuoco.
- Quante storie ci ha raccontato,
quelle sere d’inverno, lì intorno al braciere,
la comare Filomena!
Come il fuoco è la nostra lingua:
ci ha riscaldato la vita.
Nessuno ha messo più ramoscelli,
nessuno ci ha soffiato sopra perché la fiamma s’alzasse un po’,
e adesso si spegne,
con noi.
Che ti rimane? Un po’ di cenere, un bianco mucchietto:
se tu vai a toccarlo, con una paletta nera,
se provi a rivoltarlo, ecco, vien fuori una scintilla,
una timida fiammella,
e si spegne poi,
con te.
-Notte
Non c’è notte più buia, più profonda:
grosse nuvole oscurano le stelle,
non s’ode voce o foglia che si muova.
Piano piano si stringono due mani,
ed una dice all’altra: “Non temere”.
In silenzio si toccano le labbra,
canta un cuore pervaso dalla gioia,
l’altro a sentirlo gli si fa vicino.
Il vento s’alza e ascolta il bisbigliare
pavido e incerto di quei corpi nudi,
ed infiamma la pelle e il loro cuore.
L’oscurità li unisce in un intrico
che l’alito del mondo benedice.
Così la notte genera la vita.
-IL VITELLO D’ORO
La Bestia ha morso anche la nostra terra
con i suoi denti d’oro,
- oh, come l’ama il mare, questa terra,
e la bacia, la picchia e poi l’abbraccia,
ed il sole splendente ogni mattina
con quanta gioia s’alza a benedire! –
e con i piedi ha invaso e con le mani
ogni campagna ed ogni masseria;
il tesoro ha scoperto sottoterra,
alla Specchia del diavolo, tra i rovi,
ed una grande cesta piena d’oro
con lo sguardo trionfante va a mostrare.
Il diavolo, nascosto, se la ride.
“Cento splendidi ragazzi voglio in cambio,
cento ragazze in abito nuziale,
ed io vi darò argento da ogni pietra
e ancora argento dalla terra incolta”.
Noi le vendemmo vigne ed uliveti,
e trulli di campagna e litorali,
muretti a secco posti in mezzo ai campi,
e case coi giardini ed i cortili,
le nostre chiese, i santi e le madonne...
E le vendemmo i canti e le parole,
quelle più antiche, e le vendemmo il cuore.
E tutti ci siam dati ad inseguirla,
con quella borsa gonfia che risuona.
“Cento splendidi ragazzi voglio in cambio,
cento ragazze in abito nuziale;
li voglio ogni anno, che innalzino altari,
da una fune di fiori ben legati”.
Tacciono i grilli, e pure le civette,
la Bestia canta al chiaro della luna.
Corrono i ragazzi ad ascoltarla.
Beve la notte il vino e il loro sangue.
Di buon mattino il vento si è svegliato
e per primo ha soffiato il suo lamento:
“Guardate, guardate, è nero il panno
che ritorna dal mare, e la notizia
ch’esso ci annuncia è una notizia amara”.
La gente si è raccolta nella chiesa
e piange i figli, ed ha la pancia piena.
La voce a un tratto si sente soffocare:
canta la Bestia assisa sull’altare.
“Cento splendidi ragazzi voglio in cambio,
cento ragazze in abito nuziale...”.
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