Giugno 2017.
Vagavo indaffarato e distratto tra i polverosi scaffali della biblioteca di lettere dell’Università di Ferrara in via Savonarola. Per uno studente magistrale in Filologia Moderna (Culture e tradizioni del Medioevo e del Rinascimento) questo è un luogo di culto, un rifugio dove alimentare e confermare un sapere ancora fluido e in fase di altalenante costruzione. Tra la selva di pensieri che assillavano allora la mia mente, spiccava l’imminente sessione d’esami estiva. Non so bene cosa, disorientato, cercassi quel giorno tra le migliaia di libri e riviste che, nel loro ordine maniacale, mi accoglievano in un cartaceo abbraccio culturale.
D’improvviso, dentro un’angusta stanza a lato di un ombroso corridoio dove di frequente mi era capitato di sostare per consultare dei libri inseriti nei programmi d’esame di un qualche corso, scorsi la prof.ssa Monica Longobardi che, ricurva su di una vecchia fotocopiatrice inceppata e tra dei grossi volumi, preparava le ultime lezioni dell’anno. Proprio quelle ultime lezioni a cui nel pomeriggio avrei attentamente assistito. Avevo infatti scelto, mosso da un neonato interesse viscerale per la poesia, di frequentare il corso di Fortuna delle Letterature Romanze da lei tenuto. Non ero del tutto a conoscenza di cosa fosse la filologia romanza, complice, a mia discolpa, una formazione triennale di stampo musicologico che aveva escluso necessariamente un argomento di così estrema importanza letteraria e culturale. Decisi di seguire le lezioni di quel corso, ai miei occhi innovativo, del tutto attratto e affascinato dall’oggetto del corso stesso: un viaggio nella terra luenchenca delle periferie trobadoriche tra autori occitani contemporanei (Mistral, d’Arbaud, Marcela Delpastre, Aurélia Lassque, Joan Ganhaire), taluni delle vallate alloglotte piemontesi (Bodrero, Salvagno), e altre personalità poetiche (Ida Vallerugo), per colmare una lontananza culturale ancora percorribile in virtù delle matrici culturali della letteratura provenzale e ancora tutelabile malgrado il disinteresse della società accademica italiana.
Cordialmente venni accolto e assorbito in quella nicchia da un inaspettato saluto da parte della prof.ssa Longobardi. Si ricordava di me o meglio del mio computer nero con cui a lezione prendevo assiduamente appunti, talvolta sconnessi e non precisi. Colpito da questo interesse umano e da questa inaspettata accoglienza mi intrattenni, balbettante, parlandole della mia passione per la poesia religiosa contemporanea (che amavo e tuttora amo leggere e meditare) e chiedendole se fosse a conoscenza di qualche autore occitano contemporaneo che riprendesse temi di natura cristiano-religiosa.
In quell’estivo istante inaspettato e totalmente casuale iniziai a concepire la mia tesi.
Ci congedammo allora con la promessa di aggiornarci per valutare la stesura di un elaborato finale.
In un primo momento mi venne segnalata dalla prof.ssa Sola Deitas, complesso esordio poetico del 1962 del poeta e sacerdote mistico rivoluzionario Jean Larzac, nonché primo esempio di via crucis poetica Novecentesca in occitano. Un’opera poetica impegnata in cui la sfilacciata grammatica dell’uomo contemporaneo viene meditata, quasi pregata, nelle stazioni della via crucis alla ricerca di una sorgente, Cristo, che risolva le incognite e le problematicità di un uomo e di un mondo contemporaneo in declino.
Trattandosi però di un’opera vasta, complessa nella forma e densa di simbolismi e riferimenti ermetici, mistici e dottrinali decidemmo, dopo un’abbozzata traduzione e un parziale approfondimento, di dirigersi versi altri lidi.
La scelta ricadde provvidenzialmente su di un autore provenzale grande e misterioso che alternava la sua attività di poeta al ritmato lavoro dei campi del suo maso: Mas-Felipe Delavouët (Marsiglia 1920 – Grans 1990) che nel 1964, varcata la soglia dei quarantaquattro anni, scrisse il Camin de la Crous (Cammino della croce), una meditazione poetica sulla via crucis che vide la stampa solo due anni dopo, nel 1966, a tiratura limitata e che in seguito venne ristampata, nel 1971, all’interno del secondo dei cinque che formano Pouèmo, unica e organica collezione poetica (o potremmo dire poema unico di vita) in cui l’autore raccolse (tra il 1971-1991) molti testi poetici elaborati e pubblicati precedentemente affiancati da nuove opere, dando vita a uno dei più grandi e prodigiosi monumenti letterari contemporanei prodotti in area occitanica.
Il Camin de la Crous si inserisce poi in una sottostruttura più articolata intitolata Triptique dóu Marrit Tèms (Trittico del cattivo tempo) un trittico letterario che, secondo un’ipotesi avanzata dallo studioso William Calin, prende spunto dalla vita di Gesù benché l’identità del re protagonista del trittico stesso rimanga, per volontà dell’autore – la cui religiosità è nota – ambigua, lasciando spalancata al lettore ogni possibilità di interpretazione.
In quattordici stazioni di alessandrini il poeta ripercorre, con un’implicita voce narrativa, le vicende della condanna e della morte del Re-Cristo in un testo dal tono solenne e asciutto che, se da un lato lascia poco spazio all’emozione o ad artifici retorici, dall’altro si carica di un forte simbolismo testimoniato dalla costellazione di immagini che popolano un testo in cui è stato possibile rinvenire anche molteplici riferimenti biblici, patristici e mitologici. In questa selva di simboli metaforici e allegorici l’immagine dell’albero riveste un’importanza simbolica e una presenza del tutto particolare. L’albero, sintesi del mondo vegetale, simboleggia per Delavouët, nell’intreccio delle sue radici e nella rete dei suoi rami, tutte le genealogie umane e, dando a vedere la successione delle stagioni, ricorda e permette all’uomo di comprendere il ciclo dell’esistenza universale. Il tronco è un ponte vivente tra forze solari e terra sottostante, un vettore di una comunicazione cosmica cielo-terra che coinvolge l’umanità fin dai tempi di Adamo e che proprio con quest’ultimo si è compromessa. Il senso e il culmine del Camin doloroso sta allora nella progressiva identificazione e poi simbiotica trasformazione del Re-Cristo morente e della croce, rispettivamente da albero vivo a legna e viceversa, ricomponendo, in questa metamorfosi, la frattura creatasi tra cosmo-cielo e terra con Adamo e l’albero della conoscenza.
L’analisi del Camin de la Crous è risultata inoltre arricchita dal confronto con il Camin de la Crous de Gardian, un’analoga via crucis, ma concettualmente più semplice, scritta sempre da Delavouët nel 1979 per assecondare le richieste di Daniel Campiano, parroco di Salin–de–Giraud, che desiderava realizzare per i gardians (i noti mandriani della Camargue) della sua parrocchia una via crucis per il Venerdì Santo. Nella tesi mi sono preoccupato inoltre di tracciare, in un breve capitolo di sintesi iniziale, il tema della presenza dei motivi della Passione di Cristo nella letteratura occitanica (e nell’area romanza), dal Medioevo al Novecento.
Ringrazio in questa sede, a conclusione della precedente presentazione, la prof.ssa Longobardi: la scoperta affascinante del mondo provenzale è merito suo; in aggiunta a lei sarò eternamente grato per avermi coinvolto nel Convegno Internazionale «E nadi contra suberna». Essere “trovatori” oggi (Ferrara, 20-21 novembre 2018) e per aver inserito il mio contributo “La via crucis dei gardian. Una Passione occitana” all’interno del programma del convegno stesso. La bellezza dei versi di Delavouët non sarebbe emersa nella traduzione italiana senza l’apporto, il confronto, la correzione e il parere della prof.ssa e poetessa Estelle Ceccarini (Aix-Marseille Université) a cui va ogni mio riconoscimento. La mia gratitudine va rivolta anche a Claude Mauron per avermi fornito, con estrema gentilezza, integralmente l’opera poetica di Delavouët. Con l’augurio di incontrarla presto a Grans dove ha fatto della sua casa il Centre Mas-Felipe Delavouët (http://www.delavouet.fr), ringrazio la vedova del poeta, Mme Arlette Delavouët a cui appartengono i diritti dei testi in occitano e che, in via del tutto eccezionale, mi ha concesso di riprodurre e pubblicare (Tutti i diritti riservati © Centre Mas-Felipe Delavouët – Arlette Delavouët). In questi mesi sta lavorando alla presentazione di una ristampa del Camin de la Crous che verrà presentata a Grans il 1 giugno 2019.
Ringrazio infine Ines Cavalcanti e l’associazione Chambra d’Oc per avermi offerto la possibilità di pubblicare e condividere il frutto di quello che per me è stato un lungo, ma gratificante camin.
G. P.
Tutti i diritti riservati © Centre Mas-Felipe Delavouët – Arlette Delavouët)
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