Ci sono incontri che avvengono per caso e nonostante ciò hanno la capacità di guidare le nostre scelte e svelare mondi nuovi.
Il mio personale e casuale incontro con Joseph d’Arbaud è avvenuto, la prima volta, durante le lezioni del corso di “Fortuna delle Letterature Romanze” tenuto dalla Prof.ssa Monica Longobardi presso l’Università degli studi di Ferrara. Durante una di queste lezioni una delle sue laureande, la Dott.ssa Irene Lycourentzos presentò la sua tesi dal titolo Da un delta all’altro. La letteratura di paesaggio tra Rodano e Po. Io, da studentessa che da poco si era affacciata sul vasto mondo della letteratura occitanica, rimasi affascinata da due aspetti in particolare di quella presentazione: la misteriosa creatura protagonista del romanzo di d’Arbaud e l’evidente somiglianza tra il delta della Camargue e il mio territorio d’appartenenza, il delta del Po. Ne fui incuriosita e pensai che mi sarebbe piaciuto poter approfondire questi argomenti.
Nonostante ciò, quando andai dalla Prof.ssa Longobardi per scegliere l’argomento della mia tesi di laurea magistrale non ero certa di cosa cercassi. Sapevo di volermi confrontare con qualcosa di nuovo, magari legato alla tradizione medievale. Volevo occuparmi di letteratura e, se fosse stato possibile, volevo farlo secondo quell’ottica di “permanenza” che tanto mi aveva colpita durante le sue lezioni. Fu così che la Professoressa mi propose di leggere La Bèstio dóu Vacarés.
Si trattava di un secondo incontro che non potevo ignorare.
Le emozioni che provai durante la prima lettura del romanzo credo siano state simili a quelle provate dal protagonista del racconto, Jaume Roubaud, di fronte alla misteriosa Bèstio: stupore, soggezione, fascino, mistero e anche un po’ di paura. Ma quel romanzo di d’Arbaud era la mia “Bèstio” personale, qualcosa da scoprire e capire, da cui sapevo di poter imparare molto.
Così ho voluto cogliere le opportunità di questo incontro e confrontarmi con La Bèstio dóu Vacarés di Joseph d’Arbaud.
Joseph d’Arbaud (1874-1950) racconta ne La Bèstio dóu Vacarés (1926) la vicenda di un incontro, difficile, tormentato e molto particolare: quello tra un mandriano della Camargue e l’ultimo fauno rimasto sulla terra rifugiatosi, in esilio, nelle solitarie paludi del Vacarés per sfuggire ad una modernità sempre più opprimente.
Perdersi tra le pagine del racconto è facile. La lingua occitana traccia le linee di un paesaggio in mutamento con le stagioni, complesso e misterioso, con il quale è necessario vivere in armonia e ai cui ritmi bisogna sapersi adeguare. Ma è una vita semplice e pura, la vita cui lo stesso autore aspirava, e la Bestia è la figura chiave per narrare tutto un mondo: quello di un passato di tradizioni che d’Arbaud sente andrà perduto, l’interiorità del poeta stesso, l’anima del territorio camarghese.
Per questo nell’elaborazione del mio progetto di ricerca come prima cosa ho voluto raccontare la vicenda del romanzo. Volevo avvicinare la voce di Joseph d’Arbaud al panorama letterario italiano e pertanto ho ritenuto importante descrivere ed approfondire la vicenda di un racconto che racchiude in sé molte chiavi di lettura e spunti di riflessione. Tra tutti ho scelto di approfondire due temi principali: la figura della Bestia e il paesaggio.
Il mio retroterra in studi classici mi aveva spinta fin da subito ad interrogarmi sulle caratteristiche del fauno di d’Arbaud, sul perché la scelta dell’autore fosse ricaduta su un semidio tanto particolare e se la sua decisione fosse stata un unicum nella letteratura a lui coeva. Ho scoperto così che la poesia, ma anche la prosa ed il teatro, avevano affidato a fauni e centauri, creature mitologiche ibride per eccellenza, il delicato compito di narrare le difficoltà di una società in mutamento e l’aspirazione di poeti come Mallarmé, de Guérin, Aubanel, D’Annunzio ad un legame vero e profondo, quasi panico, con gli elementi naturali.
Legame che in Camargue risulta essere ancora più intenso che in altri territori europei e che ha permesso alla letteratura di giocare un ruolo fondamentale nella nascita di una sensibilità ecologica e di una volontà di salvaguardia e protezione di un ecosistema tanto fragile quanto quello deltizio. Sono giunta così ad un campo di studi, quello dell’ecocritica e della letteratura ecologica, che è molto recente ed in cui si possono riconoscere alcune tematiche di autori occitani come d’Arbaud e Mistral, ma anche di autori italiani che si sono occupati di paesaggio, da quello collinare di Andrea Zanzotto a quello del delta del Po per Ermanno Rea e Gianni Celati.
Si tratta di narrazioni di incontri, spesso inattesi, tra questi autori e il paesaggio del delta del Po dove però, ai margini di luoghi tanto complessi e spesso isolati, è possibile ricostruire l’identità di un territorio difficile da interpretare; dove anche una letteratura come quella occitanica, spesso considerata di nicchia, ritrova un respiro europeo e si dimostra capace di proporre temi di grande attualità.
In definitiva il progetto di questa tesi si è dimostrato essere la storia di molti incontri.
Quello di Joseph d’Arbaud con la Camargue, ma anche con Mistral e il felibrismo. Quello tra la letteratura occitanica e italiana, che molto può offrire. È il risultato del mio incontro personale con la lingua occitana e con La Bèstio dóu Vacarés, dalle quali mi sono lasciata “immagare”, come si dice nel paese in cui vivo quando si vuole spiegare quel particolare sentimento di meraviglia e appartenenza che scaturisce alla scoperta di qualcosa di nuovo.
Ma parla anche del mio incontro con la Prof.ssa Monica Longobardi, che mi ha accompagnata e guidata nell’approfondimento di questo panorama letterario, e con Ines Cavalcanti, che ringrazio sentitamente per avermi concesso di pubblicare su questa rivista il mio lavoro.
Spero infine che da qui possano, in futuro, nascere altri incontri, ancora da scrivere, tra letteratura, lingua, paesaggio e giovani studiosi appassionati.
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