Una tesi di laurea e un viaggio, alla scoperta di uno scrittore occitano del Novecento
Cosa spinge un siciliano che vive in Emilia Romagna a studiare l’occitano? Difficile dare un’unica e precisa risposta. Tutto ha inizio con i corsi tenuti dalla professoressa Monica Longobardi all’Università di Ferrara. Un po’ come il giovane Pasolini che riscoprì (e reinventò) il friulano tramite le lezioni di Filologia romanza negli anni bolognesi, leggere i trovatori ha segnato per me l’avvio di una ricerca personale, in questo caso sulla sopravvivenza di una lingua alla (e nella) storia. E non poco, lo ammetto, è stato il mio stupore nel constatare che quell’idioma ha resistito fino ai giorni nostri.
Sentire parlare Fausta Garavini e Giovanni Agresti – invitati nell’ateneo ferrarese da quella stessa docente che poi sarebbe stata la mia relatrice –, ha certamente avuto un ruolo nella scelta dell’occitano come metafora di un mondo fragile e prezioso. Quale quello messo nero su bianco da Jean Boudou, un autore piuttosto famoso in patria, nel Sud della Francia. Scrittore linguadociano, rouergate di umili origini, dalla vita travagliata – egli trascorse due anni in Slesia, per il Service du Travail Obligatoire – e dalla morte prematura, a 54 anni, in Algeria.
Un uomo complesso, Boudou, ma dallo stile semplice; un intellettuale coltissimo eppure vicino all’anima contadina della propria terra, che egli seppe raccontare con sagace ironia e sofferta partecipazione, in poesie, fiabe e romanzi. Queste opere non sono ancora state tradotte in italiano, e del resto sono pochissimi i contributi critici da parte di studiosi nostrani (i già menzionati Fausta Garavini e Giovanni Agresti, con l’aggiunta di Roberta Capelli, in sostanza).
Mi sono avvicinato alla lettura dei testi boudouniani come un novizio inesperto, ma ostinatamente curioso. Sono riuscito ad acquistare online l’intero corpus edito e ho avuto la fortuna di trascorrere due mesi ospite presso il Cirdòc (Centre Interrégional de Développement de l’Occitan, mediateca e centro tra i più importanti per la tutela e la promozione del patrimonio occitano) di Béziers, periodo durante il quale ho avuto modo di consultare materiale autografo e libri difficilmente reperibili in Italia.
Ho suddiviso la tesi in cinque capitoli: il primo parla della “talvera”, il bordo non lavorato di un campo, e quindi il margine, luogo-simbolo di Boudou e dei suoi personaggi derelitti; il secondo sfrutta alcuni termini ricorrenti per spiegare la poetica esistenzialista dello scrittore; il terzo è un capitolo incentrato sui tanti dualismi della sua letteratura; nel quarto si spazia dalla religione alla politica, sempre sconfinando nell’eterodossia; nel quinto e ultimo capitolo ho tentato, spero con successo, un confronto con altri autori europei, italiani in particolare (Vittorini e Pavese, soprattutto).
Il risultato – che su questo sito ho il piacere di rendere pubblico – è il frutto di molti mesi di lavoro. Tuttavia, la fatica e lo sforzo richiesti hanno avuto un peso di certo inferiore al piacere e alla soddisfazione. Piacere e soddisfazione che mi auguro di essere riuscito a trasmettere ai “venticinque lettori” che vorranno ripercorrere questo cammino, da Ferrara a Béziers.
La tesi è pubblicata sul sito del Cirdoc http//occitanica.eu.omeka/items/shoow/14386
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