Nel 2015 scoprii i poeti delle vallate occitane: Antonio Bodrero, della Val Varaita, e Claudio Salvagno, di Bernezzo. Sembravano parlarmi da una lontananza tale che li chiamai Troubadours de lunchour. Ne studiai il retaggio trobadorico e, a sorpresa, quello del più giovane tra i due, Claudio Salvagno, mi parve più denso, pur in un poetare scarno e moderno, all’apparenza. Nell’anno accademico 2016-2017, progettai di invitarlo a Ferrara per farlo conoscere ai miei studenti; trovai il suo numero di telefono, lo chiamai. Le sue infinite pause mi ricordarono quelle di Telefonades da Trípoli, infondendomi ancora una volta, un po’ stranamente, «la mesura dal daluenh». Come lui volle, gli mandai per posta quelle domande che gli avrei fatto a voce, se fosse venuto a Ferrara, o per telefono. Ne ricevetti una risposta per lettera (28/03/2017) toccante, e insieme sconcertante: una serie di frasi ripetute meccanicamente. Solo allora compresi con rincrescimento da quale definitiva lontananza mi avesse scritto e quanto forse gli fosse costato seguire il filo delle mie domande pressanti.
Eppure, bene o male, alcune risposte si distinguevano in quella nebbia che assediava il suo pensiero, e forse la ripetizione continua non era solo un inceppamento della mente, ma un ultimo radicamento verso ciò che resta di autentico al chiudersi di una vita. Essenziale come i suoi totem.
Dove e come ha appreso la cultura trobadorica che si vede riflessa nella sua poesia? E Flamenca?
--Apprezzo tutti i trovatori, e soprattutto i miti delle vidas e rason. Il primo trovatore, Guilhem de Peitieu, e successivamente, Peire Vidal. Ma poi fui affascinato dalla vita di Guilhem de Cabestanh, con la leggenda del cuore mangiato… Flamenca emana verso me un fascino discreto… Di Mistral ho letto tutto il leggibile.
Quali autori apprezza della letteratura occitanica moderna, da Mistral in avanti?
--Ho conosciuto i moderni: Yves Roquette, e Max Roquette, Sergi Bec, e Sully Andre Peyre, Philippe Gardy, René Merle, Antonio Bodrero, e Pietro Raina, che è nato a Elva nel 1921. Aggiungo qui la Marcelle Delpastre.
Il mondo vegetale è quello che lei sente più vicino?
--Certo… i pastori e i ragazzi pastori che cercavano la fortuna in Provenza si ingaggiavano ad Arles… Ho passato tra sfagno e boschi e torrenti e prati e, dove ho passato la mia vita e l’infanzia, a dirla con Rilke, è la mia patria… Il mondo vegetale mi è familiare dall’infanzia…
Il tema dell’ombra è esistenziale?
--Lei mi chiede ora di commentarle le parole-chiave ombra, dove l’ombra è buona e la guerra che sta dentro di me non è sempre buona.
In quale rapporto sta la sua scultura con la sua scrittura?
--La scultura è un modo di fare. Non sono partito che scrivendo nella lingua di Bernezzo che, se è di area occitana il mio paese, s’era un po’ dilavata. Vengo da una famiglia dove mio nonno parlava occitano.
La traduzione in italiano è opera sua? Cosa va perso nella traduzione?
Certamente che curo io le mie traduzioni… nella traduzione si perde parecchio.
Ha un suo credo?
Non credo in nessun Dio… forse ho solo capito che oltre la scrittura non credo che possa importarmi…
Grazie, Claudio Salvagno, continuerò ancora a leggere la tua poesia, ed ogni tanto tenterò, come feci in quei giorni di marzo del 2017, di stabilire un contatto: «Zero…zero trenta tres / Me sientes? I sies encara?».
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