Ricetta - Gnocchi al Castelmagno
Ingredienti (per 4 persone):
1 kg di patate a pasta bianca, Castelmagno DOP 200 gr, 1 bicchiere di vino bianco, 300 g di farina, burro 50 g, sale, pepe.
Lavare le patate e lessarle; una volta cotte, sbucciarle e passarle nello schiacciapatate. Unire farina e impastare (l’impasto dev’essere morbido ma non si deve attaccare alle dita). Dall’impasto ricavare quindi gli gnocchi.
Per la preparazione della salsa sciogliere il burro in una casseruola, unire il formaggio sbriciolato e il vino bianco. Cuocere per 5 minuti a fuoco basso, mescolando. Aggiungere il sale e il pepe.
Cuocere gli gnocchi in abbondante acqua salata, scolandoli man mano che vengono a galla.
Condirli infine con la salsa ben calda.
Il Castelmagno è come un totem, come il Monviso,
un punto di riferimento storico e culturale oltre che alimentare.
Franco Piccinelli, scrittore e giornalista Rai
Una serie di articoli dedicati ai prodotti tipici della Valle Grana non può che concludersi con un omaggio al formaggio Castelmagno, prodotto d’eccellenza locale e internazionale che ha segnato il territorio e la sua storia.
Il primo documento storico che attesta la produzione del formaggio Castelmagno è del 1277. Non che non venisse prodotto prima (alcuni studiosi ipotizzano la presenza delle prime forme già intorno al X-XI secolo), ma oggi siamo certi che alla fine del ‘200 il formaggio ha già raggiunto una certa fama ed un certo valore. Si tratta di una sentenza arbitrale che pone fine alla controversia tra il Comune di Castelmagno e il Marchese di Saluzzo a proposito dell'usufrutto delle Grange Martini nella comba di Narbona, pascoli ai confini tra Castelmagno e Celle Macra, comune della confinante Valle Maira. Nella controversia il comune di Castelmagno ebbe la peggio ed il prezzo della sconfitta impose il pagamento di alcune forme di formaggio come canone annuo da versare al Marchese di Saluzzo.
Il formaggio Castelmagno è quindi vera e propria moneta di scambio, oro da versare nelle casse del Marchese di Saluzzo, o meglio da servire direttamente sulle sue tavole. Un formaggio creato da poveri contadini e allevatori con il latte prodotto in pascoli ad alta quota che spesso e volentieri trovava il suo destino nelle corti e negli ambienti aristocratici europei. E’ probabilmente tra il 1600 e il 1800 che il formaggio inizia ad essere chiamato “Il re dei formaggi” proprio quando compare nei menù dei più prestigiosi ristoranti di Londra e Parigi. Sono gli anni d’oro del Castelmagno, che lo fanno entrare di diritto nella leggenda, nel mito. E la leggenda più diffusa si interroga sul “Magno” presente nel nome del formaggio. E’ vero, esiste un santuario dedicato a San Magno, e il formaggio riprende il toponimo. Per lo più il santo (secondo alcuni ex-guerriero romano della Legione Tebea, secondo altri monaco benedettino il cui culto è stato importato dalla Svizzera) è protettore delle stalle e degli armenti, e dunque i riferimenti diretti, le relazioni tra toponimo e prodotto non sono poche. Ma il formaggio Castelmagno ha raggiunto le tavole dei sovrani europei, ed essendo diventato “Il re dei formaggi” deve poter vantare un lignaggio illustre, nobile almeno quanto lo è il “Magno” che ha segnato la storia e la civiltà europea: re Carlo Magno.
La leggenda narra che un giorno l'imperatore fu ospite del Vescovo di Saluzzo (ai tempi di Carlo Magno il Vescovato di Saluzzo non esisteva ancora: la diocesi fu eretta, su istanze della marchesa di Saluzzo, Margherita di Foix, il 29 ottobre 1511) quando attraversò le Alpi con le sue armate per portare sostegno al Papa. Accolto da musica e danze, si organizzò un banchetto di cacciagione e vini e altre leccornie. Carlo Magno non rifiutò nulla, tanto meno un grosso formaggio color di sacco. Si dice che affondò la lama nella forma e che i suoi occhi brillarono al giallo oro delicato. Fece per tagliar via la crosta rugosa e la venatura bluastra quando venne interrotto dal Vescovo. “Maestà! Voi rinunciate al meglio...”. Vinta la diffidenza, l'imperatore seguì il suggerimento del Vescovo e assaggiò il formaggio, una delizia insieme soave e forte. Ne fu conquistato, e da quel giorno ogni anno una carovana prendeva la via di Aquisgrana: alla corte del Sacro Romano Impero il Castelmagno non mancò mai più.
Se Carlo Magno ha vissuto intorno all’800 e il formaggio così come lo conosciamo oggi si dice che si sia formato intorno al X secolo, poco importa, anzi si tratta di un dato rilevante perché la produzione di una leggenda è indice della forza culturale di un prodotto nell’immaginario della popolazione locale. Un prodotto dal grande prestigio sociale e commerciale la cui produzione è andata sensibilmente calando nel secondo dopoguerra, quando si sono raggiunte le 500/800 forme all’anno in coincidenza con il progressivo spopolamento del territorio. Il suo rilancio nell’economia locale e poi nel panorama nazionale e internazionale si deve soprattutto a Gianni De Matteis, giornalista de La Stampa e sindaco di Castelmagno, capace di pensare un futuro per il territorio e il formaggio anche grazie alla passione e all’attenzione di grandi intellettuali quali Mario Soldati, Giorgio Bocca e Gino Veronelli, che si innamorarono dell’erborinato della valle Grana e si schierarono nella sua difesa e nella sua promozione, senza sconti. È a De Matteis e a Giacomo Isoardi (produttore di Castelmagno, per tutti Giacu Ciot) che si deve il riconoscimento D.O.C. (Denominazione di Origine Controllata) nel 1982 e la fondazione del Consorzio per la tutela del formaggio Castelmagno. Con la tutela D.O.C. si è estesa la produzione di Castelmagno ai due comuni confinanti a valle, Pradleves e Monterosso Grana, dando vita a processi sociali e a tensioni tra diverse pratiche di produzione che ancora oggi in parte si ripercuotono sul territorio e la sua comunità.
Nel 1996 il prodotto riceve il riconoscimento europeo D.O.P. (Denominazione di Origine Protetta) e intorno agli anni 2000 attraversa un nuovo periodo di crisi e trasformazione insieme: l’introduzione di nuove e più rigide norme sanitarie costringe molti piccoli produttori ad abbandonare la propria attività per l’incapacità di far fronte alle spese necessarie (per l’adattamento dei propri locali di produzione alle nuove regole) e per l’assenza di nuove generazioni disposte ad ereditare il mestiere dei padri. È in questo contesto sociale che il territorio assiste all’arrivo di nuovi produttori provenienti dalle pianure cuneesi e dalle Langhe, spinti da una forte vocazione imprenditoriale e dalla passione per il prodotto e la montagna in cui nasce. Il Castelmagno si lega ancor più che in passato ai vini d’eccellenza langaroli (su tutti il Barolo, “il re dei vini”) e nascono progetti di ristrutturazione di borgate un tempo abbandonate, dove sviluppare forme di turismo enogastronomico rivolte sempre più ad un pubblico internazionale.
Nel tempo il mondo del formaggio Castelmagno è quindi cambiato e, proprio come il suo territorio, è andato trasformandosi. È stato abbandonato, è stato riabitato, ha avuto crisi produttive, ha visto nuovi arrivati, ha esteso l’area di produzione, è passato dall’essere un formaggio importante a livello italiano al diventare un formaggio d’eccellenza europeo, ha ricevuto l’elogio dei grandi critici enogastronomici e in alcuni momenti ha subito le loro peggiori critiche. Si è assistito inoltre al passaggio da un’economia domestica, locale e solo in alcuni casi rivolta al piccolo e grande commercio, ad un’economia produttiva, inserita nel mercato globale, capace di autorappresentarsi e promuoversi in ogni luogo, entrando in competizione e in alleanza con altri prodotti enogastronomici d’eccellenza. In altre parole, si è passati da un mondo preindustriale, precapitalistico e premoderno (i tempi in cui il formaggio rientrava ancora in una logica di sussistenza) ad un mondo industriale e moderno (in cui la produzione del Castelmagno è stata razionalizzata).
È anche per questa ragione che è difficile avere uno sguardo “compiuto” sulla sua realtà sociale storica e contemporanea, specie quando si interrogano gli sguardi “parziali” dei produttori di oggi, eredi in diversi modi di quelli di ieri: i saperi produttivi hanno dovuto confrontarsi continuamente con elementi nuovi, rinnovandosi e insieme mantenendosi uguali a sé stessi, ma le sfide non sono state poche e spesso hanno avuto ricadute sul tessuto sociale e in particolare sulla qualità dei rapporti tra produttori.
Oggi le attività legate al Castelmagno sembrano aver raggiunto un equilibrio tra di loro e con il resto della valle Grana dopo decenni di trasformazioni e mutamenti, in un’ottica di sviluppo e valorizzazione del territorio che di questi tempi non può non fare i conti con il turismo.
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