È nato a Siligo, in Provincia di Sassari, il 30 dicembre 1938.
Avviato sin da piccolo alla dura vita del pastore, consegue, ormai ragazzo, la licenza elementare da privatista secondo la promessa del padre. La licenza media la ottiene a Pisa nel 1961, ancora da privatista, durante il servizio militare. Nell’Esercito diviene sergente radiomontatore presso la scuola di trasmissioni della Cecchignola, a Roma. Nel 1962 si congeda e torna in Sardegna, per continuare a studiare. Si diploma al liceo classico nel 1964.
Iscrittosi all'Università “La Sapienza” di Roma si laurea in Glottologia nel 1969.
Nel 1970 viene ammesso all'Accademia della Crusca con Giacomo Devoto.
Nel 1971 è nominato assistente di Filologia romanza e Linguistica sarda a Cagliari.
Inizia a scrivere in quel periodo Padre Padrone. L'educazione di un pastore, opera che completa nel 1974, per pubblicarla l’anno successivo da Feltrinelli.
Il romanzo è un successo; ottiene il Premio Viareggio ed è tradotto in quaranta lingue.
Nel 1977 i fratelli Taviani portano la storia sullo schermo con un film premiato a Cannes con la Palma d’oro.
Negli anni successivi continua nel suo lavoro di linguista e glottologo e pubblica il seguito di Padre padrone, sempre con Feltrinelli, con il titolo Lingua di falce (1977).
Anche ispirandosi a questa seconda fatica letteraria, nel 1984 realizza il film Ybris, “Premio Cinema Nuovo, miglior opera prima”, alla Mostra del Cinema di Venezia, di cui è autore regista e interprete.
Da allora ha continuato a scrivere e pubblicare poesie, tra cui Aurum tellus (Scheiwiller, Milano1992) e racconti, tra cui I cimenti dell'agnello (Scheiwiller, Milano 1995).
Nel 2007 ha vinto il prestigioso Premio Nonino.
Attualmente sta riscrivendo Padre padrone in lingua italiana e sarda; tra i suoi progetti, anche quello di rifare il film, a maniera sua, in sardo e da sardo.

Gavino Ledda ha trovato, con Padre padrone la sua consacrazione ma anche, un po’  la sua condanna.
Quel monumento nella storia letteraria e sociologico-culturale del nostro paese ha impedito di continuare a seguirne l’attività artistica che pure si è espressa con numerose altre valide prove.
Per quel che ci riguarda, in questa sede, sicuramente la ricerca sulla lingua ha avuto numerosi acuti di straordinario interesse a cominciare a quell’Aurum Tellus, opera sulla natura e sul tempo, che lo ha assorbito per ben sei anni  e che rappresenta una sperimentazione nella composizione della scrittura, come nella lingua.
Un poema controcorrente, in cui il linguaggio letterario abituale è soppiantato da nuove sperimentazioni che lo scardinano completamente, fino a travisarlo.
Gavino Ledda cerca nuove strade, si ribella anche in questo caso ai canoni della tradizione, a volte stereotipati, dello scrivere, per farsi promotore di una nuova espressività al cui centro si pone una nuova lingua inventata, quasi a dare conforto alla promessa del suo saggio pubblicato in appendice all’edizione Rizzoli di Padre padrone dal titolo “Morte della lingua euclidea”: “Ora, qui, vobis vobisque praesentibus, noi di fronte a voi, affermiamo che la lingua dell’uomo euclideo è morta. E con ciò diciamo che tutte le lingue e tutte le scritture della specie umana sono morte contemporaneamente nei confronti della complessità espressiva della scienza moderna... Ecco però, in minimo contributo, i germi e i germogli per una lingua più umana e più intima, finalmente materissìa, acquissìa, amorissìa, per guarire di scienza e di natura”.
La lingua di Aurum Tellus subisce traumi che la liberano nella sua convenzione linguistico-semantica.
Si ricompone, biblicamente, la babele delle lingue, passando dal latino all’italiano, dal greco al sardo, dal tedesco al francese, da una lingua convenzionale a una che non lo è, con l’invenzione di vocaboli che giocano con fusione e innovazione, suffissale e prefissale, in una ricerca di intrecci e legami in cui sale a dirigere l’orchestra la congiunzione “e”, in un’iperbole nella quale trionfa l’anelito di congiungere l’uomo all’infinito, nello stesso modo in cui si vuole congiungere tra di loro le cose terrene.
Alchimista della lingua, Gavino Ledda si è solidamente costruito un personale percorso artistico che lo consacra come fenomeno del tutto originale e che ne fa un sicuro punto di riferimento non solo per chi si occupa di lingue.
Anche se questa, per lui resta un’urgenza, cui ha dedicato decenni della sua vita.
La lingua dell’uomo, annota Ledda, linguisticamente ancora aristotelico è morta e con ciò affermiamo la morte contemporanea di tutte le lingue e di tutte le scritture della specie umana davanti alla complessità espressiva della scienza moderna.
Ecco perché occorre trovare nuove fonti, nuove strade, nuove espressività creative che consentano di comunicare modernamente e che siano maggiormente in sintonia con il flusso della natura.
Provare, insomma a inventare una nuova lingua.


ANTOLOGIA GAVINO LEDDA

I. Padre padrone


Nei due anni successivi 1950-52, Filippo mi subentrò nella custodia delle pecore: totalmente nelle giornate buone e parzialmente in quelle gelide. Ormai anche lui, a nove anni, doveva conoscere i “suoni” della pastorizia forzata, che non poteva più evitare emettendo suoni scordati dei suoi bronchi come aveva fatto fino ad allora. Anche lui ora doveva seguire il gregge come il cucciolo pastore, al vento e al gelo. Anche lui doveva guardarsi, intirizzito, i comignoli fumiganti delle capanne vicine e ascoltarsi il silenzio della natura.
Certo, il primo mattino, il gregge lo pascolavo io. Lui mi subentrava con due tre metri di sole all’orizzonte (cun duas cannas de sole). Gli risparmiavo il rigore dell’alba. E secondo gli ordini ricevuti dal babbo, così all’ora stabilita, me lo vedevo spuntare incappucciato sotto un sacco di iuta.
-Ciao, Gavì.
- Oh, sei arrivato? Le pecore, lasciale ancora un po’. Più tardi, portale al chiuso di sopra (a su cunzàdu ‘e subra). Scaglia un urlo o un fischio di tanto in tanto. Incita il cane ad ustare. Le volpi sono sempre in agguato.
- Ehi! Lo so!
- Beh! Ciao!
- Oh, Gavì!
- E it’est! (Che c’è!)
- Il babbo ha detto di andare a zappare alla vigna a issu colomìnzu.
- Eièèèèèèèè!
Ormai mi dedicavo completamente ai lavori agricoli: alla vigna, all’oliveto. E a quattordici quindici anni zappavo a gara con mio padre. Di pomeriggio appena ritornava da Siligo, mi raggiungeva per zappare al mio fianco. Prima di incominciare, come al solito, controllava la mia resa (sa faìna mia).
- Beh! Oggi sei stato bravo. Ne hai fatto abbastanza. Le zolle, però, le devi rivoltare meglio. L’erba va sotterrata completamente. Altrimenti ricresce di nuovo: ‘sa inza bene zappàda in s’istagiòne. Come diceva il poeta.

Chie fàghere torra non la chèrede
dogni faina chere bene fatta:
thappe binza e in tempus chi essèrede
avèna o trigu, basòlu o patàta.
Est mezzus sa zizzania chi la fèrede
irraighinàda rested dogni matta
ca si sa mala erva non bi fèridi
Issa ìnchede! e su trigu bi pèridi!
(Chi non vuole rifare il suo lavoro / ogni cosa per ben sia fatta: / zappi per tempo la vigna e in tempo loro / aveva o grano, fagiolo o patata. / Alla zizzania non lasci ristoro / ogni radice venga sradicata / che se la mala erba non si ferisce / essa vince! E il grano vi languisce!)

Se invece il mio lavoro era poco o fatto male, al suo arrivo, spesso mi picchiava con il manico della zappa o se riusciva a trattenersi, sbraitava per tutta la giornata. Mi dava il filare guida e mi incalzava dietro a ritmo sfrenato.
- Oggi non hai fatto nulla. Non as zappàdu terrìnu de ti coscàre: malu fainéri (oggi non hai zappato nemmeno il tratto che basta per sdraiarti: pessimo lavoratore). Quello che hai fatto lo hai fatto male. Si vede che te ne sei stato a fare i tuoi comodi. Poi hai zappato alla menefrego.

Padre padrone, Feltrinelli, Milano 1975
 ora Il Maestrale, Nuoro 2007

 

II. Lingua di falce


Fui promosso e la mia prova divenne emblematica di tutto un percorso possibile. Per i pastori di Siligo fu addirittura un avvenimento. Gli abbienti di Siligo videro per la prima volta un capannicolo, fino allora “sudicio” e “ignorante” quasi abbruttito da una vita trascorsa dietro il culo delle pecore, vincere su un terreno che essi ritenevano proprietà dei loro figli. I contadini e i pastori intravidero una nuova realtà dalla quale si sentirono coinvolti collettivamente e senza diffidenza. Un sortilegio era spezzato, forse definitivamente.
(...)
Quell’anno mio padre aveva seminato a grano sa Petrosa e dunque ritornai a mietere. Sin dai primi di luglio, quando il grano fidi a canna pinta, dal gambo invaiata, mio fratello Giacomo, tiu Gavinu, io e mio padre, la mattina presto, mentre il buio si sollevava dalla terra e ci sgattaiolava di sotto i piedi come la selvaggina colta all’improvviso, c i incamminavamo verso quello steso campo dove lui anni prima mi aveva insegnato a mietere a furia di botte. Ogni giorno era una battaglia. Si mieteva dall’alba al tramonto, con sfida: io per dimostrargli che non ero un rammollito né un fannullone (come lui usava definire gli studenti), lui per abbattermi almeno con la lingua della falce, per avere una vittoria su di me dal momento che era stato privato dell’appoggio della collettività. Nulla era cambiato, tutte le cose si svolgevano come me le aveva insegnate e io ressi bene alla prova.
Troppo bene lui mi aveva insegnato a mietere perché me ne fossi dimenticato. E più che da una scuola, lì, su quelle stoppie de sa Petrosa, sembrava fossi piombato da un altro campo mietuto a gara.
Tutti e quattro ci schieravamo di fronte alle spighe.
I covoni ci nascevano alle spalle, sotto le mani. Caldo o non caldo le spighe si raccoglievano al ritmico passaggio della falce, mentre la sinistra, quasi braccio di una macchina, ora aprendosi ora chiudendosi oscillava, coordinata, sempre pronta a prendere le nuove spighe per fare le manciate
Ogni dieci manciate, che si mettevano allineate sulle stoppie, ci chinavamo per tagliare un ciuffo di spighe per tutta la lunghezza del gambo sino al suolo e ricavarne il legaccio. Si divideva in due parti uguali. Si attorcigliavano gambo con spighe, e con quel vinciglio ci si tuffava sulle manciate. Si legavano insieme e cosi il covone era nato. Mio padre guardava contento i covoni e li possedeva con lo sguardo, di loro sentiva solo il peso, la grandezza delle spighe e il turgore dei chicchi. Il resto non poteva interessarlo. La simmetria del nostro lavoro, come la striscia di spighe che ciascuno tondeva con cura senza zigzagare; l'uniformità delle stoppie tosate tutte alla stessa altezza come i capelli di una testa appena fatti da un barbiere esperto; i mucchi dei covoni mietuti i giorni precedenti coricati uno sull'altro; lo schiocco frequente di una stoppia che sparava la rugiada notturna sotto la caldana: tutto ciò a lui non diceva nulla. Era solo un lavoro eseguito.
Convulso dalla brama di fare, e invaso, più che nascosto, dal grano più alto di lui, di tanto in tanto faceva capolino sulle spighe chine su se stesse, per vedere se “sa raglia”, il fronte di lavoro, stesse per finire. Tuttavia accadeva che la quantità di lavoro fatto lo trasformasse, ma solo come un avaro che per disgrazia si e dimenticato del tesoro. Allora efIondeva in ragionamenti “profondi” e, come era abitudine pastorale, li portava a termine con spiegazioni enunciate come le uniche possibili, assolute e ineccepibili. La poesia in tali circostanze, come a tutta la gente di campagna, a lui piaceva più di ogni altro argomento: il solo ritmo del lavoro con la falce sembrava ve lo portasse spontaneamente. Ripeteva ottave su ottave, battorinas e battorinas, quartine, e duinas, coppie di versi componenti un'ottava a contrasto, muttos e altre strofe che aveva sentito o dagli anziani, nelle improvvisazioni durante le feste del raccolto o della tosatura, oppure nelle gare estemporanee dialettali nella festa del santo patrono del paese:
S'aradu pro trofeu bogaiana
Poi de sas battaglias, sos Romanos;
ma prima de sas gherras sos pianos
iscrittos un sa pinna si leggiana,
Lasso sas gherras, e si dannos crìana
sas annadas, sa pinna leo in manos
e cun su chi balanzo veramente
Batto su trigu dae continente!
(Come trofeo l’aratro lo esponevano
 terminate le battaglie i romani;
ma prima delle guerre i loro piani
già scritti con la penna sl leggevano.
Lascio le guerre, e se danni sollevano
 le annate, io con la penna tra le mani
e con ciò che guadagno veramente
 importo il grano qui dal continente.)
Tiu Gavinu allora dall'altra parte della raglia, gli faceva eco, magari spesso con 1a risposta che il poeta in tale occasione aveva dato all'avversario:
Caru Cubeddu ses andende male
nendemi meda mi has nadu niente,
si attis su trigu dae continente
s'aradu puru fi' continentale
chi usadu l'ha' su massaju potente
pro produire ogni cereale,
e sia de inoghe o de inìe
sempre est s'aradu chi est campende a tie!
(Caro Cubeddu stai andando male
dicendomi molto non mi dici niente:
se importi il grano qui dal continente
anche l'aratro era continentale:
cbe l'ha adottato gia il massaio abbiente
 per coltivare ogni cereale.
E sia di qui oppure di dove è,
sempre è l'aratro che sostenta te.)
In queste gare il motivo dominante era la sfida a1 contrasto, non la poesia in se: la gara era sempre una lotta che si esaltava nell'atterramento dell'avversario. E ai pastori e ai contadini piaceva questa poesia perché i poeti estemporanei (spesso pastori e contadini anche loro) sul palco esprimevano due cose care agli astanti, una concezione della vita che per il pastore e per il contadino è sem-pre sfida con la terra o col vicino: “il mio grano deve essere il migliore della contrada”, “il mio vino deve essere il migliore del paese”. I ritmi in cui poeti esprimevano inconsciamente i gesti, i movimenti, la tensione cadenzata dei muscoli tesi nel rivoltare le zolle, agitati nello spargere i semi sui loro maggesi, sempre con lo stesso passo, con la stessa bracciata, sempre con la stessa quantità nel pugno, nella danza esistenziale dei piedi lungo le porche uliginose, educati come erano a un lavoro spesso improvvisato, ma spesso anche programmato e discusso come un vero piano di battaglia. Così sempre nasceva questa poesia; estemporanea certamente nelle battorinas, ottave e duinas, ma anche studiata e meditata a tavolino. Il poeta doveva recitare sempre a memoria con una vivacità gestuale che riproduceva in tutto l'improvvisazione. Similmente il pastore nella organizzazione millenaria delle sue azioni deve quotidianamente “recitare” una parte non prevista nelle scadenze codificate della sua antichissima tradizione, quando deve far fronte alla carestia, alle intemperie, alle epidemie e ai mutamenti delle condizioni produttive della società cui appartiene.
Ora che mi sapeva studente, pero, mio padre quasi sempre in quei momenti di bonaccia si esibiva nella Divina Commedia (che nelle campagne era penetrata attraverso la chiesa o il servizio militare o durante cerimonie cui i pastori invitavano persone colte). Con aria di sfida ripeteva versi su versi a memoria e mi dava la sensazione che quella recitazione per lui fosse come una pausa, come un ristoro per il suo corpo stanco: come un'acqua che lui beveva dalla brocca della memoria e che lo dissetava. Declamava con trasporto, ma senza ostentazione. E, a seconda della rima e della cadenza dei versi, agitava ora la falce con la destra, ora le spighe già mietute con la sinistra, aumentando ora il ritmo del lavoro ora diminuendolo (senza però uscire dalla buona lena) quasi sentisse un estremo bisogno di accompagnarsi: di dar brio ai versi ed eloquenza al commento che faceva strizzandoci la coda dell'occhio per controllare il nostro rendimento nel lavoro. (...)
Tuttavia erano belli questi momenti di bonaccia. Erano un ritorno a un passato da cui avevo ancora molto da imparare, anche se lo avevo vissuto. Ora riviverlo, ascoltandolo con le orecchie di una sensibilità diversa, per me era come fare addizioni su numeri che non avevo mai messo in colonna perché mi erano apparsi sempre cifre trascurabili. E invece lì mi accorsi che nell'intimo quei discorsi, quei rumori che effondeva la natura per ogni dove, quel ca1do e quella fatica che ti facevano sentire vivo, nascondevano talora una unità di misura della vita. Questa constatazione, che mi era quasi sfuggita, nel riviverla in tutta quella natura, diveniva sempre più convincente con il passare dei giorni e la accettai come se fosse stata un riporto da aggiungere alle esperienze che avevo addizionato pochi anni prima. I conti infatti non tornavano, e io dovevo farli quadrare.

Lingua di falce, Feltrinelli,  Milano 1977 
 
III. Aurum Tellus


E in questo universo – gli altri rinasceranno dal seme di questo: universo fa seme di Nulla per ritornare a Nulla come altri vissuti e trascorsi per come e per dove già stati – nonostante stelle e stelle irradino di quella del sole e in ragione al loro numero e alla loro brillanza.

E venne anche notte e pro unu interl9Cghes e per un interlùcolo e per un bruzzico molto lontano e luteano e argilloso e falloso e boscoso e pascuoso, cando propriu óiju de mugra a coga, abbaidénde sos busteddos de su chelu.

In sos líberosssssss de sa natura bi est escríttu cun su latte di sa Terra chi ómine íntere sos mamidd9Cdosssssssssss est náschidu in mesu, nei libri della natura vi è scritto che fra i mammelluti ómine è nato nel mezzo.

E qualcuno c’è stato e c’è e ci sarà sempre: il seme vola dall’albero, ma tra tutti i miliardi di ómines che sono nati solo poche decine hanno sapienza e abitano ancora nel tempo.

E per ultima cosa, ricordati, mugrunéddu, che ómines e óminessssssss non sono solo ignoranza di essere ignoranza, ma sono responsabili di avere violentato natura a loro piacere...  di avere commesso incesto sociale e dentro e fuori di loro... di essersi resi innaturali nella natura... natura, però, annichila in se stessa i violenti e no dat ope, e non dà scampo...

Poi, hanno sempre catturato animalessssssss e animalesssssssss nostri avi, e mugras e mugrónes per assoggettarli, scuoiarli per vestirsene, mungerli e mungerli e sempre per nutrirsene e poi, il massimo della follia e dell’insania, per ungere gli idoli....

Aurum Tellus, Scheiwiller Milano 19ë