Joseph Zoderer è nato a Merano/Meran (BZ) nel 1935. In seguito alle opzioni si trasferisce con la sua famiglia nel 1940 a Graz (Stiria - Austria), dove frequenta la scuola elementare ed un anno di ginnasio. Dal 1948 al 1952 studia in un collegio cattolico in Svizzera. Ritorna quindi in Sud Tirolo presso la famiglia che si era trasferita di nuovo da Graz a Merano. Dopo aver conseguito la maturità classica in questa città, si sposta nel 1957 a Vienna per gli studi universitari (legge, filosofia, scienze teatrali e psicologia). In quello stesso periodo inizia l’attività giornalistica (dapprima presso il Kurier e, successivamente, presso la Kronenzeitung e la Presse). Rimane per dodici anni nella capitale austriaca, scrive poesie, racconti e due romanzi (Der andere Huegel e Schlagloecher) che, soltanto tre anni dopo, trovano un editore. Nel 1970 Zoderer si trasferisce per sei mesi in America e viaggia (prevalentemente da autostoppista) attraverso gli USA, il Canada ed il Messico. Dal 1971 al 1981 è redattore presso la RAI di Bolzano. In quegli anni pubblica tre volumi di poesie e un romanzo (Das Glueck beim Haendewaschen / La felicità di lavarsi le mani). Dal 1981 vive come libero scrittore a Terento/Terenten e Brunico/Bruneck in Val Pusteria (BZ). È sposato con la pittrice e architetto Sandra Morello con la quale ha tre figli. Zoderer è membro della “Deutsche Akademie fuer Sprache und Dichtung” di Darmstadt, dell’Accademia
degli Agiati di Rovereto e della “Grazer Autorenversammlung”. Ha vinto vari premi nazionali ed internazionali. Tra gli altri: “Literaturpreis der Deutschen Industrie”, 1983; Premio Catullo di Sirmione, 1986; il Premio del Pen austriaco, 1987; il Premio della Schiller- Stiftung di Weimar, 2001 e, recentemente, il Premio Herman Lenz, 2003 a Heidelberg. La felicità di lavarsi le mani e L’Italiana sono stati filmati per la Televisione tedesca ZDF nel 1982 e 1986.
Scheda bibliografica
-Presso l’editore Mondadori ha pubblicato i romanzi:
L’Italiana (Die Walsche), 1985;
Lontano, 1986;
La felicità di lavarsi le mani, 1987.
-Presso l’editore Einaudi ha pubblicato i romanzi: Il silenzio dell’acqua sotto il ghiaccio, 1989;
La notte della grande tartaruga, 1986;
La ri-edizione de: L’Italiana, tascabile, 1998.
-Presso l’editore Bompiani ha pubblicato i romanzi: Il dolore di cambiare pelle, 2005;
La ri-edizione de: L’Italiana, tascabile, 2007;
La ri-edizione de: La felicità di lavarsi le mani, 2005.
-Presso l’editore Nicolodi ha pubblicato il romanzo:
La vicinanza dei loro piedi, 2004.
L’altra collina, 2007.
ANTOLOGIA JOSEPH ZODERER
Monika
Lingua originale tedesca, racconto tradotto da Umberto Gandini, tratto dal volume La vicinanza dei loro piedi . Nicolodi Editore. Rovereto 2004
Taglio speck a fette sottili e le depongo sui piatti dei miei ospiti, siamo nella stube rivestita di legno, seduti attorno a un tavolo quadrato, uno dei miei amici di Düsseldorf prende l’assicella fra pollice e indice e domanda: legno d’abete? Continuo a tagliare e dico: sì, cirmolo, una specie di abete. Ed ecco che udiamo delle urla davanti a casa, uno dei miei ragazzi grida attraverso la porta della Stube: la Monika si uccide.
Mi alzo da tavola, dico: la drogata del villaggio, esco e richiudo la porta alle spalle. Monika è davanti alla finestra della cucina, protende verso di me i polsi insanguinati, zitta per alcuni secondi, non ha la faccia stravolta, mi guarda trionfante quando apro la porta, ride imbarazzata prima di cominciare improvvisamente a sbraitare, a scuotere la testa, a imprecare e bestemmiare. Solleva un coltellaccio, che aveva probabilmente poco prima gettato nell’erba, brandisce la lama.
Dammi del vino, urla, presto, dammi del vino, ho ingoiato le pillole. Dico: adesso bevi innanzi tutto un bicchier d’acqua, lei mi sputa addosso, sputa sui miei figli che stanno accanto a me, sbatte via il bicchiere di mano a mia moglie, tento di avvicinarmi senza spaventarla, che bisogno hai del coltello, dai, buttalo via; lei si mette a ridere, ne ho bisogno, oh se ne ho bisogno, non ti avvicinare senza il vino. Fletto lentamente le ginocchia e mi accovaccio sulla soglia. Monika mi guarda, mi scruta col coltello proteso: lo so che te la fai addosso, dice, guarda, dice, e si passa il filo del coltello sull’avambraccio. Non mi getto su di lei, non le strappo la lama omicida dalle mani, rimango immobile, sto a guardare mentre fa scorrere il filo sull’avambraccio sinistro, come su un violino, ne sgorga del sangue, gocciola sulla lastra di pietra davanti alla porta della cucina: mi ammazzo, dice, e ammazzo il vecchio, quel porco, e ammazzo anche la vecchia, quella troia.
Lo so, devi andartene di qui, devi guarire, dico, e le porgo il palmo della mano aperto, lei si china verso di me con la faccia serissima e contemporaneamente mi depone il manico del coltello in mano: voglio farli fuori tutti, tutti, anche i vecchi, dice e abbassa la voce con tono cospiratore: mi daranno la pensione di invalidità, aspetto solo che arrivino i soldi e poi mi compro una rivoltella. Fammi un favore, implora, dammi almeno mezzo bicchiere di vino e telefona all’ospedale. Mi alzo col coltello in mano, o meglio mi sollevo a fatica dalla soglia e porto il coltellaccio in cucina e tengo un bicchiere sotto il rubinetto dell’acqua, ci aggiungo un po’ di vino e lo porgo a Monika che beve senza guardarmi. Mia moglie e i miei figli le si fanno attorno mentre io formo il numero del pronto soccorso. Devo spiegare ogni volta che è un caso urgente, che non riguarda la mia famiglia, che il mio è solo il telefono più vicino, il recapito dove venire a prelevare una tossicodipendente del villaggio. Si è lasciata persuadere da mia moglie, ora è seduta su una sedia sotto la lampada della cucina e so che mia moglie ha paura. I miei figli no, sono affascinati da Monika, non smetterebbero più di guardarla, però Monika non sembra farci caso, è contenta, semmai penso, che arrivi l’autoambulanza. Riesco ad accompagnarla fino alla panchina davanti a casa ed è diventata così tranquilla che faccio capire ai ragazzi di rimanere con lei, io torno con mia moglie dai nostri ospiti nella Stube, mi accorgo di aver alzato una spalla e che mi scuso per la nostra assenza mentre prendo una fetta di speck e bevo un sorso di vino rosso. Mi aiutano tutti nel villaggio, racconto, i contadini mi hanno sempre aiutato, i vicini, non c’è nemmeno il bisogno che glielo chieda.
Ed ecco mio figlio adolescente che si affaccia alla porta spalancata della stube: la Monika ha ingoiato una manciata di pillole. I miei ospiti balzano dalle sedie, faccio loro segno di rimaner seduti: non c’è niente da impedire, non c’è niente da salvare, è una questione di ottenebramento mentale, fuori dalla finestra della Stube i prati sono gialli di denti di leone e di ranuncoli, faccio un altro cenno ai miei ospiti, prego mia moglie di versare del vino e di offrir loro dello speck, non corro, esco dalla porta di casa e mi auguro davvero, forse come tutto il villaggio, che sia la volta buona, finalmente. Voglio vivere in pace, esclamo o esclama una voce dentro di me, non voglio esser disturbato in eterno da un qualcosa di cui non ho colpa: credo che tutto il villaggio voglia che muoia. Però mi siedo accanto a Monika nell’erba vicino alla fontana, lei è distesa di schiena sull’erba e dice: me ne sbatto di tutto, me ne frego, papà è un vecchio porco e la mamma anche.
Ritrae le labbra, digrigna i denti, mostra i denti gialli, anneriti, e io vedo la dentatura devastata d’una vecchia in bocca a quella ventiduenne, la pelle del viso è rugosa e piena di cicatrici di foruncoli. Improvvisamente il gomito che la sorregge cede, la testa si rivolta nel prato, dorme oppure è morta.
Salto su, tento di sollevarla con entrambe le mani, attingo acqua dalla fontana col cavo delle mani e gliela verso in faccia, i miei figli in piedi accanto a me, come per badare a Monika.
Ma ecco che udiamo tutti, finalmente, il suono della sirena della autoambulanza.
Nel villaggio nessuno parla di Monika, non ho ma sentito parlare di lei, nemmeno una parola, in banca, nel negozio degli alimentari o all’osteria.
I miei vicini mi aiutano, se glielo chiedo, mi hanno sempre aiutato, aiutano ogni estraneo.
Sono venuti con me a cercar pietre nei boschi dei dintorni, hanno raccolto sassi più o meno grandi nei loro boschi e nei loro prati e li hanno utilizzati per costruire una stradina d’accesso alla nostra casa di montagna.
Hanno abbattuto con me e con mia moglie il vecchio edificio e lo hanno ricostruito con mattoni, malta e legno fino ai camini sopra il tetto, mi hanno anche murato nel soggiorno una stufa di scintillanti pietre verdi, arcuata come un tumulo e calcinata di bianco. Mi hanno anche cambiato la fontana davanti a casa con un tronco cavo di cirmolo; e non è mai stata una questione di soldi, di ricompense, d’inverno dopo una forte nevicata vengono con lo spazzaneve, passano col trattore attorno al ciliegio sul piazzale davanti a casa e arrivo quasi sempre troppo tardi col mio grazie o col bicchiere d’acquavite, la “grappa”.
Tutti nel villaggio sanno che Monika fra non molto morirà, che si ucciderà oggi o nei prossimi mesi. Non c’è altra via d’uscita, lo dice anche lei, a tutti, annuncia la sua morte quando è a casa in licenza da uno dei tanti istituti dei paraggi. Barcollando, bevendo e ingoiando pillole annuncia la sua fine insensata, non ne fa una filosofia, non se la piglia con un dio e men che meno con Gesú o Maria. Io, dice a chiunque la stia ad ascoltare, io sono schiava delle pillole, lo sanno tutti e tutti sanno che non sono solo le pillole, sanno che c’è anche la siringa. È me che Monika vuole convincere che non sono solo le pillole. Io, dice, sull’erba o sulla panca davanti a casa, non posso più vivere senza pillole, preferisco uccidermi.
Quando costruivamo la nostra casa, Monika, che avrà avuto dodici o tredici anni allora, stava su, sul margine del bosco, a pochi metri da noi che lavoravamo, oppure giú sulla strada, cinquanta metri sotto casa, sempre in mezzo a una schiera di bambini, e ci insultava chiamandoci gentaglia, “cittadini immigrati”, gridava con gli altri e gridava da sola quando gli altri si erano già azzittiti, bruciava mucchi di sterpaglie sul prato sotto la strada e ballava con gli altri o da sola attorno al fuoco.
È successo a Corpus Domini, quando i turisti fanno ala sulla piazza fra la chiesa e l’osteria e attendono durante questa importante solennità cattolica la processione dei contadini e delle contadine nei loro abiti tradizionali, i costumi, col corpo di Gesù sotto il baldacchino dei sacerdoti, e mettono a fuoco gli apparecchi fotografici, le Minolta o le Polaroid. Monika, quel Corpus Domini, avrà avuto forse sedici o diciassette anni; un villeggiante ubriaco si era fatto largo cantando in chiesa fino al banco della comunione, nel silenzio devoto cantava in falsetto una cantilena senza parole, mentre le donne, cercando di non dar nell’occhio, tentavano di respingerlo coi gomiti, di tenerlo lontano dal banco della comunione, fino a quando anche due o tre uomini si erano fatti avanti per afferrare quello straniero dalla bocca peccaminosa, ed era stato allora che, con una prontezza del tutto inaspettata, la Monika adolescente era spuntata accanto all’uomo che canticchiava, lo aveva preso sotto braccio e, spavalda, lo aveva trascinato fra spintoni e gomitate non verso una delle porte d’uscita, ma verso il banco della comunione dove aveva poi essa stessa arraffato con due dita un’ostia e, ingoiando il santissimo, aveva aperto per sè e per lo straniero barcollante un varco fino all’uscita laterale delle donne.
Invece che alla processione dopo la messa solenne, la messa grande, Monika aveva trascinato il villeggiante nell’osteria del paese dove le donne e le maestre entrano solo durante la settimana, a gruppi o a coppie, e mentre fuori suonava la banda e gli abitanti del villaggio percorrevano nel più pacifico ordine un vasto giro attorno al campo di calcio e all’emporio, quel Mike o Michael aveva invitato il paio di ragazzotti di campagna che si erano già piazzati nell’osteria a bere una birra o un bicchier di vino, ma prima ancora che la processione avesse riattraversato la piazza del villaggio in direzione della chiesa, Mike era stato scaraventato a terra ed era rimasto lì disteso per alcuni secondi con la faccia proprio a ridosso dello zoccolo della mescita. Ad Albin, un figlio dei vicini che mi avevano aiutato a costruir la casa, il gesticolare del turista al banco oppure le frasi dette in un tedesco troppo lezioso (“Voi non sapete su che perla di paese cavalcate”) erano apparse improvvisamente troppo insolenti, aveva dato a Mike col pugno un colpo in pieno petto e il turista era caduto all’indietro: scivolando fra i corpi degli astanti, era piombato sul pavimento dell’osteria.
Monika aveva trascinato fuori lo straniero, sulla piazza davanti alla taverna, proprio mentre la processione del Corpus Domini stava curvando e dirigendosi cantando verso la chiesa. L’ubriaco si era trovato disteso sull’asfalto della piazza del villaggio ai piedi dei musicanti in giacca rossa e calzoni neri, con Monika piazzata a gambe larghe davanti a lui proprio mentre transitava il “cielo”, il baldacchino con il corpo di Gesù, però altri dicono che si fosse messa a ridere quando il turista aveva vomitato dietro di lei sull’asfalto.
Alcuni giorni dopo Monika era stata trasportata dalla discoteca d’un paese confinante al più vicino ospedale di città: dicevano che fosse caduta di schianto sulla pista da ballo, improvvisamente, con la schiuma alla bocca. Da allora tutti nel villaggio sapevano che aveva avuto la droga dallo straniero, e ora sapevano anche che si aggirava per la stazione delle autocorriere del capoluogo del distetto, al bar e fra i bus, dandosi per pochi soldi.
Di tanto in tanto la vedo passare sulla strada sotto il nostro prato, in una giacca di jeans sbiadito alla moda, con una camicia verde a chiazze, non gira nemmeno la testa, non guarda su verso di noi. Quando è a casa ha un passo danzante.
Quando squilla il telefono, mia moglie e io allunghiamo automaticamente la mano verso il microfono. Conosco quella voce rotta e so che è un amico del centro di assistenza cui Monika ha dato il nostro numero. Dice è domenica pomeriggio e io dico che abitiamo a mezzo kilometro di distanza, dico che in sostanza noi non conosciamo affatto Monika. Lui però dice: è domenica pomeriggio e oggi la domenica non finisce più. Dico: bene, vado a prendere Monika, che richiami dopo un’ora.
Mia moglie è andata a prendere Monika, il telefono suona, puntualmente, noi tutti siamo fuori sul prato davanti a casa e attraverso la porta aperta ascoltiamo tutti Monika che dice: no, qui da noi non piove.
Quell’uomo dalla parlata complicata ci telefona spesso e infine dico: non siamo mica una centrale telefonica. Talvolta il telefono squilla anche quando Monika è al centro di assistenza, e la voce quieta e cambiata di Monika dice: non viene mai nessuno a trovarmi.
Ha bisogno di biancheria e di soldi.
La costruzione di legno dove è nata, quella baracca in cui vivono tuttora alcuni dei suoi fratelli coi genitori, è a ridosso del margine del bosco, a quasi sei o sette chilometri dalla chiesa del villaggio, ci cresce il muschio e chiunque può calpestare l’erba attorno alla casa perché è terreno comunale e non c’è contadino che la falci.
Chi ci alloggia è un povero disgraziato, più libero però d’un qualsiasi re. Il villaggio ha paura di loro, perché potrebbero dar fuoco al bosco e alle case oltre il bosco, potrebbero incendiare l’erba una primavera secca oppure d’autunno.
Adesso Monika, ha ventidue o ventritré anni, ha la sua pensione. E la sua settimana di vacanza a casa, perché va a ritirare di persona la pensione allo sportello della Cassa rurale. Nei primi giorni marcia sempre a testa bassa accanto a tutti e non saluta nessuno, ma non dura a lungo, poi risolleva la testa e fa cenni in ogni direzione. Una volta, per caso, passavo in automobile, lei ha sporto il pollice, mi sono fermato ed è salita. Lo sai, mi ha detto, in fondo mi vogliono bene tutti, dicono, mi ha detto, che sono diventata simpatica, e gli credo perché sono completamente diversa, mi piace tutto, tutta la gente è così normale e non mi fanno niente, anzi mi son messa apposta a camminare nell’erba lungo la strada.
Però poi ho sentito di nuovo il tambureggiare delle mani sul muso di lamiera della nostra automobile davanti a casa, Monika colpiva con gli stivaletti i cerchioni e le porte della nostra automobile e gridava: vino. Stavolta non aveva ancor le mani sanguinanti. Mia moglie le ha portato un bicchiere d’acqua appena tinta da uno schizzo di vino rosso, e Monika le ha sbattuto via il bicchiere di mano. Sono sceso lungo la scala e mi ha urlato: vino, o ingoio le pillole. Io ho detto: ma dai, Monika. Ha raggiunto in due tre balzi il getto d’acqua alla fontana, con una scatola aperta di pastiglie nella mano levata, e io ho detto: ingoiale! Ha premuto le pillole fuori dell’involucro di plastica, facendole cadere prima nella mano e poi in bocca, io sono rimasto a guardarla, non ho fatto un passo dalla porta di casa verso la fontana. Ho chiamato il pronto soccorso.
Quando l’ambulanza è arrivata, Monika era distesa come morta accanto alla fontana. Ho visto un’infermiera fissarla alla barella e sospingerla nella vettura.
È entrata in una delle molte stanze del reparto femminile dell’ospedale distrettuale e ha sorriso alle degenti prima di scostare le ante della finestra e di prendere una sedia su cui è poi salita: un soffio d’aria di maggio è entrato nella stanza odorosa di medicinali e Monika è rimasta solo per pochi istanti sul davanzale della finestra prima di precipitare, senza allargare le braccia, dal quarto piano dell’ospedale distrettuale.
Hanno riportato Monika nella baracca di legno dei suoi genitori, i fratelli, per far posto, hanno spostato fuori dalla piccola Stube il tavolo al quale avevano mangiato e giocato insieme, hanno collocato il tavolo della Stube davanti a casa e hanno composto Monika nell’angolo dove di solito c’era il tavolo, l’hanno adagiata per un paio d’ore in quell’angolo, con la testa sotto il televisore in una bara di legno. Chi veniva a pregare non poteva vederne la testa fracassata. E non sono neanche venuti in molti, i più si son fermati fuori attorno alla baracca.
Nell’abitazione dello “stradino” che da anni ormai non sgomberava più la strada dai sassi perché alla nuova, asfaltata, provvedeva il personale della Provincia, in quella baracca non c’era nemmeno spazio per tutti i vicini. Però alcuni sono entrati egualmente nella piccola stube senza che nessuno glielo impedisse, si sono fatti il segno della croce benché nessuno pregasse a voce alta perché il capofamiglia che per tradizione intona il rosario non si è fatto vedere, era disteso nella camera accanto oppure seduto di là su una sedia, e la madre non riusciva ad aprire bocca, era in piedi accanto alla finestra della Stube attraverso la quale la luce è caduta per un giorno intero sulla bara. La madre non ha parlato con nessuno e non ha ringraziato nessuno, fissava senza vederla la poca gente del villaggio che entrava solo per guardarsi in giro, a destra e a manca, e farsi un segno della croce davanti alla bara.
Settimane dopo ho sentito dire che il padre, come barricato nella stanza vicina, avrebbe spiato ogni parola, ogni sospiro, ogni rumore del villaggio, ogni vicino, ogni passo d’un nemico che potesse scovarlo specialmente d’inverno quando cade la neve e lo strato cresce di notte rendendo bianche anche le tracce di sangue. Io sono rimasto fuori dalla baracca, sono entrato solo per cinque o dieci minuti nella stube, a dire il vero sarei voluto andarmene ma non mi è stato possibile perché c’era la gente del villaggio attorno a quella capanna di legno e ho pensato: sono curiosi. Però non erano riuniti in gruppi e non parlavano fra di loro, non so quando ho fatto caso che stavano lì, semplicemente, ciascuno per sè, senza dire una parola. Il bosco distava solo pochi passi e davanti c’era il prato comunale consunto. Volevo andarmene con mia moglie, tornare a casa come per una liberazione, ma i vicini continuavano a sostare attorno a quella baracca di legno, lo sguardo fisso davanti a sé. Stavano lì, semplicemente, e io ho pensato: piangono.
E forse per la prima volta li ho capiti, stavano lì senza parlare e stranamente separati l’uno dall’altro, come a spiare i rumori che avevano forse sempre udito, ma stavolta come se fosse la prima volta.
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