Dopo la campagna d’Albania e Jugoslavia la guerra si era apparentemente fermata, per una decina di mesi circa tornammo a fare le normali esercitazioni militari come si usava prima della guerra prendendo parte ai vari campi estivi e invernali, insomma, normale routine d’addestramento. Il peggio doveva ancora arrivare, ma non tardò molto.
L’Italia si era tuffata in un’altra tragica vicenda, la campagna di Russia.
Per me iniziò il 2 d’agosto 1942, giorno in cui partimmo con la tradotta, destinazione fronte russo, fiume Don.
Il 17 agosto, dopo quindici giorni di viaggio, arrivammo all’ultima stazione già in territorio russo, poi la tradotta non poteva proseguire perché cambiava lo scartamento dei binari, quindi continuammo a piedi per oltre un mese fino ad arrivare alla cittadina di Rossosh situata sulle rive del Don.
Ricordo che proprio all’ultima stazione dove la tradotta si era fermata, ci avevano comunicato che se volevamo fare degli acquisti, questo era l’ultimo posto in cui potevamo pagare con i soldi italiani e quindi cogliemmo l’occasione per comprare sigarette e vari altri generi di conforto per i giorni a venire.
Tra i nostri ufficiali vi era un tenente particolarmente “impestato”, per nulla apprezzato dai propri soldati per l’eccessiva e spregiudicata severità nei confronti della truppa.
Voci dicevano che i suoi stessi uomini avessero tentato di farlo fuori; ci avevano provato in Albania, ma l’avevano solo ferito e questo l’aveva reso ancora più rabbioso di quanto non lo fosse già.
Sicuramente in questa nuova missione, divorato dal tarlo della vendetta, era sua intenzione far trovare il più lungo possibile alla truppa.
Quello stesso giorno ebbi modo di accorgermene da vicino, infatti, a me e un altro soldato di Alba, mentre andavamo a comprare alcune cose come da comunicazione, ci si parò improvvisamente dinanzi e senza nessuna motivazione iniziò a gridare: “Dalmasso fermati… Dalmasso torna indietro!”. Mi aveva preso di mira, ma io andai avanti, e lui: “Dalmasso torna indietro!”.
Continuai per la mia strada, mentre lui era sempre più minaccioso, ma io andai avanti lo stesso e comprai le cose che dovevo comprare. Quando tornai indietro mi minacciò di punizione.
Aveva dato inizio alla sua fase di vendetta verso i soldati.
Continuò a minacciarmi fino a portarmi all’esasperazione, non riuscii più a trattenermi e risposi: “Signor tenente, le bombe a mano vengono poi di nuovo bene…”.
Aveste visto! Indiavolato. Avesse potuto mi avrebbe sparato.
Ma i faticosi giorni di marcia, circa un mese a piedi che ancora ci separavano dalle rive del fiume, facevano apparire di ben poco conto le sfuriate del tenente.
Era assolutamente vietato bere l’acqua dei pozzi perché poteva essere avvelenata, avevamo la nostra razione quotidiana di acqua “sicura”.
In quelle immense pianure, erano molti i campi di patate, ma era meglio non prenderle; i pochi che ci provarono si trovarono il più delle volte in un campo minato e non ci raccontarono mai il gusto dei preziosi tuberi. L’ordine era chiaro e tassativo: vietato prendere qualsiasi cosa; da mangiare ce n’avrebbero dato, magari non tanto, ma non sarebbe mancato e devo dire che all’andata fu effettivamente così, non c’ingozzammo, ma non patimmo neppure la fame.
Giunti al paese di Rossosh camminammo ancora una mezza giornata per arrivare sulle sponde del Don dove finalmente ci appostammo.
In verità noi dovevamo andare sulle montagne del Caucaso, ma poi all’ultimo momento hanno mandato i tedeschi. La decisione fu presa così in ritardo che non ci fu neppure il tempo di adeguare le scorte alimentari e a noi tocco il mangiare dei nostri allora alleati.
Sul Don restammo circa tre mesi, senza cambiare mai postazione.
Facevamo guardia al fiume tutti i giorni, mentre i russi erano sulla sponda opposta a fare lo stesso lavoro nostro; di sera riuscivano persino a comunicare con gli altoparlanti.
Nei primi due mesi non ci furono grossi problemi. Eravamo ben posizionati e abbastanza ben armati da poter difendere la nostra linea.
Bisognava comunque prestare attenzione a non farsi prendere prigionieri, si era diffusa la voce che i russi avessero un ponte sottomarino per mezzo del quale riuscivano in qualche modo ad attraversare il fiume passando da sotto e, senza farsi accorgere, fare dei prigionieri, quindi ottenere informazioni sul nostro schieramento.
Ma i giorni passavano e, inesorabilmente, si andava verso l’inverno.
I russi c’intimavano continuamente di arrenderci, arrivarono addirittura a lanciarci dei volantini sui quali a chiare lettere era riportata la frase: “Italiani arrendetevi! Aspettiamo solo il grande freddo e poi vi prenderemo”.
Ovviamente nessuno degli ufficiali prese in minima considerazione quei volantini, che furono usati per tutt’altro scopo.
Ma il grande freddo arrivò puntualmente.
Tutto attorno a noi cominciava a gelare, anche il fiume.
Un giorno particolarmente rigido, fummo costretti a sparare per quasi ventiquattro ore consecutive solo per rompere il ghiaccio che si formava a vista d’occhio, ed impedire così ai russi che attraversassero il Don coi loro mezzi.
Il freddo era tale che i mitragliatori leggeri di cui eravamo dotati s’inceppavano, l’olio lubrificante gelava e non sparavano più, senza contare che eravamo vestiti con abiti leggeri e scarpe di cartone che non riuscivano minimamente a proteggerci dalle temperature polari che raggiungevano ormai i trenta gradi sotto zero.
Purtroppo si stava avverando quello che i volantini russi ci avevano preannunciato.
Erano alcuni giorni che sentivamo bombardare qualche chilometro vicino a noi, alcune ragazze dei villaggi vicini ci avevano detto che “Italijanski cikai” cioè gli Italiani erano in fuga, poiché i russi avevano rotto la linea e stavano avanzando.
Si stava avvicinando l’ora della ritirata.
A farne le spese per prime furono le divisioni Julia e Tridentina tragicamente sacrificate attraverso le quali i Russi si aprirono il varco.
Nel frattempo la compagnia del genio guastatori, nel tentativo di opporre resistenza all’avanzata dei russi, cercava volontari.
Io ed un mio amico, un certo Paolo Pace di Alba che per ironia della sorte portava un cognome che faceva a pugni con la situazione, con cui avevo passato la maggior parte del tempo durante quest’ultima campagna di guerra, decidemmo di presentarci.
Volevamo passare al genio perché, visto come si stavano mettendo le cose, avevamo timore che il nostro tenente, accecato da un odio vendicativo sin dai tempi dell’Albania, sfruttasse l’occasione per sacrificare l’intera compagnia scagliandoci contro al nemico come dei kamikaze.
In tutto eravamo una quindicina di volontari e fummo trasferiti il giorno seguente a bordo di un autocarro.
Col genio restammo appena due giorni e fummo assegnati al rifornimento viveri. Ma già la seconda mattina, mentre alcuni di noi ultimi aggregati eravamo fuori a fare scorte, finì tutto.
Quando tornammo indietro la compagnia non c’era più.
Qualche zaino dimenticato o alcuni sci ancora piantati nella neve e non più recuperati erano le uniche tracce rimaste.
Sembrava fossero partiti in tutta fretta. Insomma ci avevano dimenticato lì.
Cosa fare? Alla nostra compagnia d’origine, non sapevamo più ritornare perché per arrivare fin qua avevamo fatto un lungo tragitto con gli autocarri.
Sapevamo che il Pieve di Teco era a pochi chilometri da noi e così gli andammo incontro.
Sta di fatto che eravamo già “sbandati” prima di iniziare la ritirata.
Partimmo la mattina stessa e verso mezzogiorno incontrammo il Pieve.
Il Comando della compagnia ci prese in consegna comunicandoci che stavano aspettando l’ordine di ritirata, quindi eravamo pregati di prepararci per la partenza che sarebbe avvenuta di lì a poco.
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