Portal d’Occitània    Letteratura occitana

Giacomo Dalmasso "Jaco Gròs" racconta

La Russia

La Rússia

dal libro "Giacomo Dalmasso Jaco Gròs racconta..." di Daniele Dalmasso

La Russia
italiano

Dopo la campagna d’Albania e Jugoslavia la guerra si era apparentemente fermata, per una decina di mesi circa tornammo a fare le normali esercitazioni militari come si usava prima della guerra prendendo parte ai vari campi estivi e invernali, insomma, normale routine d’addestramento. Il peggio doveva ancora arrivare, ma non tardò molto.



L’Italia si era tuffata in un’altra tragica vicenda, la campagna di Russia.

Per me iniziò il 2 d’agosto 1942, giorno in cui partimmo con la tradotta, destinazione fronte russo, fiume Don.

Il 17 agosto, dopo quindici giorni di viaggio, arrivammo all’ultima stazione già in territorio russo, poi la tradotta non poteva proseguire perché cambiava lo scartamento dei binari, quindi continuammo a piedi per oltre un mese fino ad arrivare alla cittadina di Rossosh situata sulle rive del Don.

Ricordo che proprio all’ultima stazione dove la tradotta si era fermata, ci avevano comunicato che se volevamo fare degli acquisti, questo era l’ultimo posto in cui potevamo pagare con i soldi italiani e quindi cogliemmo l’occasione per comprare sigarette e vari altri generi di conforto per i giorni a venire.

Tra i nostri ufficiali vi era un tenente particolarmente “impestato”, per nulla apprezzato dai propri soldati per l’eccessiva e spregiudicata severità nei confronti della truppa.

Voci dicevano che i suoi stessi uomini avessero tentato di farlo fuori; ci avevano provato in Albania, ma l’avevano solo ferito e questo l’aveva reso ancora più rabbioso di quanto non lo fosse già.

Sicuramente in questa nuova missione, divorato dal tarlo della vendetta, era sua intenzione far trovare il più lungo possibile alla truppa.

Quello stesso giorno ebbi modo di accorgermene da vicino, infatti, a me e un altro soldato di Alba, mentre andavamo a comprare alcune cose come da comunicazione, ci si parò improvvisamente dinanzi e senza nessuna motivazione iniziò a gridare: “Dalmasso fermati… Dalmasso torna indietro!”. Mi aveva preso di mira, ma io andai avanti, e lui: “Dalmasso torna indietro!”.

Continuai per la mia strada, mentre lui era sempre più minaccioso, ma io andai avanti lo stesso e comprai le cose che dovevo comprare. Quando tornai indietro mi minacciò di punizione.

Aveva dato inizio alla sua fase di vendetta verso i soldati.

Continuò a minacciarmi fino a portarmi all’esasperazione, non riuscii più a trattenermi e risposi: “Signor tenente, le bombe a mano vengono poi di nuovo bene…”.

Aveste visto! Indiavolato. Avesse potuto mi avrebbe sparato.

Ma i faticosi giorni di marcia, circa un mese a piedi che ancora ci separavano dalle rive del fiume, facevano apparire di ben poco conto le sfuriate del tenente.

Era assolutamente vietato bere l’acqua dei pozzi perché poteva essere avvelenata, avevamo la nostra razione quotidiana di acqua “sicura”.

In quelle immense pianure, erano molti i campi di patate, ma era meglio non prenderle; i pochi che ci provarono si trovarono il più delle volte in un campo minato e non ci raccontarono mai il gusto dei preziosi tuberi. L’ordine era chiaro e tassativo: vietato prendere qualsiasi cosa; da mangiare ce n’avrebbero dato, magari non tanto, ma non sarebbe mancato e devo dire che all’andata fu effettivamente così, non c’ingozzammo, ma non patimmo neppure la fame.

Giunti al paese di Rossosh camminammo ancora una mezza giornata per arrivare sulle sponde del Don dove finalmente ci appostammo.

In verità noi dovevamo andare sulle montagne del Caucaso, ma poi all’ultimo momento hanno mandato i tedeschi. La decisione fu presa così in ritardo che non ci fu neppure il tempo di adeguare le scorte alimentari e a noi tocco il mangiare dei nostri allora alleati.

Sul Don restammo circa tre mesi, senza cambiare mai postazione.

Facevamo guardia al fiume tutti i giorni, mentre i russi erano sulla sponda opposta a fare lo stesso lavoro nostro; di sera riuscivano persino a comunicare con gli altoparlanti.

Nei primi due mesi non ci furono grossi problemi. Eravamo ben posizionati e abbastanza ben armati da poter difendere la nostra linea.

Bisognava comunque prestare attenzione a non farsi prendere prigionieri, si era diffusa la voce che i russi avessero un ponte sottomarino per mezzo del quale riuscivano in qualche modo ad attraversare il fiume passando da sotto e, senza farsi accorgere, fare dei prigionieri, quindi ottenere informazioni sul nostro schieramento.

Ma i giorni passavano e, inesorabilmente, si andava verso l’inverno.

I russi c’intimavano continuamente di arrenderci, arrivarono addirittura a lanciarci dei volantini sui quali a chiare lettere era riportata la frase: “Italiani arrendetevi! Aspettiamo solo il grande freddo e poi vi prenderemo”.

Ovviamente nessuno degli ufficiali prese in minima considerazione quei volantini, che furono usati per tutt’altro scopo.

Ma il grande freddo arrivò puntualmente.

Tutto attorno a noi cominciava a gelare, anche il fiume.

Un giorno particolarmente rigido, fummo costretti a sparare per quasi ventiquattro ore consecutive solo per rompere il ghiaccio che si formava a vista d’occhio, ed impedire così ai russi che attraversassero il Don coi loro mezzi.

Il freddo era tale che i mitragliatori leggeri di cui eravamo dotati s’inceppavano, l’olio lubrificante gelava e non sparavano più, senza contare che eravamo vestiti con abiti leggeri e scarpe di cartone che non riuscivano minimamente a proteggerci dalle temperature polari che raggiungevano ormai i trenta gradi sotto zero.

Purtroppo si stava avverando quello che i volantini russi ci avevano preannunciato.

Erano alcuni giorni che sentivamo bombardare qualche chilometro vicino a noi, alcune ragazze dei villaggi vicini ci avevano detto che “Italijanski cikai” cioè gli Italiani erano in fuga, poiché i russi avevano rotto la linea e stavano avanzando.

Si stava avvicinando l’ora della ritirata.

A farne le spese per prime furono le divisioni Julia e Tridentina tragicamente sacrificate attraverso le quali i Russi si aprirono il varco.

Nel frattempo la compagnia del genio guastatori, nel tentativo di opporre resistenza all’avanzata dei russi, cercava volontari.

Io ed un mio amico, un certo Paolo Pace di Alba che per ironia della sorte portava un cognome che faceva a pugni con la situazione, con cui avevo passato la maggior parte del tempo durante quest’ultima campagna di guerra, decidemmo di presentarci.

Volevamo passare al genio perché, visto come si stavano mettendo le cose, avevamo timore che il nostro tenente, accecato da un odio vendicativo sin dai tempi dell’Albania, sfruttasse l’occasione per sacrificare l’intera compagnia scagliandoci contro al nemico come dei kamikaze.

In tutto eravamo una quindicina di volontari e fummo trasferiti il giorno seguente a bordo di un autocarro.

Col genio restammo appena due giorni e fummo assegnati al rifornimento viveri. Ma già la seconda mattina, mentre alcuni di noi ultimi aggregati eravamo fuori a fare scorte, finì tutto.

Quando tornammo indietro la compagnia non c’era più.

Qualche zaino dimenticato o alcuni sci ancora piantati nella neve e non più recuperati erano le uniche tracce rimaste.

Sembrava fossero partiti in tutta fretta. Insomma ci avevano dimenticato lì.

Cosa fare? Alla nostra compagnia d’origine, non sapevamo più ritornare perché per arrivare fin qua avevamo fatto un lungo tragitto con gli autocarri.

Sapevamo che il Pieve di Teco era a pochi chilometri da noi e così gli andammo incontro.

Sta di fatto che eravamo già “sbandati” prima di iniziare la ritirata.

Partimmo la mattina stessa e verso mezzogiorno incontrammo il Pieve.

Il Comando della compagnia ci prese in consegna comunicandoci che stavano aspettando l’ordine di ritirata, quindi eravamo pregati di prepararci per la partenza che sarebbe avvenuta di lì a poco.

occitan

Après la campanha d’Albania e Jugoslavia la guèrra pareissia èsser-se fermaa, per na desena de mes a pauc près tornérem far las normalas exercitacions militaras coma de costuma denant de la guèrra pilhant part a lhi divèrs champs estius e uvernals, en soma, normala routine d’entraïnament. Lo pieis devia encara arrubar, mas tardec pas gaire.

L’Itàlia s’era campaa dins un autre tràgic aveniment, la campanha de Rússia.

Per iu començec lo 2 d’avost 1942, jorn de parteça embe la tradotta, destinacion frònt rus, flum Don.

Lo 17 d’avost, après quinze jorns de viatge, arribérem a la darriera estacion já en territòri rus, puei la “tradotta” polia pus contuniar perqué chambiava lo pas di ralhas, donca contuniérem a pè per passa un mes fins a arrubar a la pichòta vila de Rossosh plaçaa sus las ribas dal Don.

M’enaviso que pròpi a la darriera estacion ente la tradòta lhi s’era fermaa, nos avien comunicat que se voliam far d’achats, aqueste era lo darrier pòst ente poliam pagar embe lhi sòuds italians e donca culhérem l’ocasion per chatar de cigarretas e un baron d’autres genres de confòrt per lhi jorns a venir.

Entre lhi nòstri oficials lhi avia un tenent particularament marrit, pasren apreciat dai soldats per l’excessiva e desprejudicaa severitat enti confronts de la tropa.

Las votz disien que si mesmes òmes auguessen temptat de lo far fòra; lhi avien provat en Albania, mas l’avien masque ferit e aqueste fach l’avia rendut encar mai marrit.

Segurament en aquesta nòva mission, rosiat da la càmola de la venjança, era son intencion far trobar encar mai lòng possible a la tropa.

Aquel mesme jorn aguero l’ocasion de m’apercèbre directament d’aquò: dal temp que mi e n’autre soldat de Alba anaviam achatar qualquas causas coma da comunicacion, s’es parat denant a l’emprovís e sensa deguna motivacion començec a bramar: “Dalmasso fèrme-te… Dalmasso torna arreire!”. M’avia pres de mira, mas iu anero anant, e ele: “Dalmasso torna arreire!”.

Continuero per ma charriera, entant que ele era totjorn mai menaçant, e achatero las causas que deviu achatar. Quora tornero arreire me menaçec de punicion.

Avia donat andi a sa fasa de venjança vèrs lhi soldats.

Continuec a me menaçar fins a me menar a l’exasperacion, arribero pas pus a me conténer e respòndero: “Senhor tenent, las bombas a man venen puei a talh…”.

Auguéssetz vist! Endiaulat. Auguesse polgut m’esparava.

Mas lhi jorns fatigants de marcha, a pauc près un mes a pè que encara nos separaven da las ribas dal flum, fasien desparéisser un pauc las esfúriadas dal tenent.

Era absoluament bandit de beure l’aiga di potz perqué polia èsser empoisonaa, aviam nòstra racion dal jorn d’aiga “segura”.

En aquelas enfenias planuras, eren un baron lhi champs de tartífolas, mas era mielh pas las prene; lhi gaire que lhi an provat se son trobats lo pus di bòt dins un champ minat e an jamai polgut contiar lo gust di preciós bòdis. L’òrdre era clar e net: bandit prene qual se sie de causas; da minjar n’aurien agut, magara pas tant, mas seria pas mancat e devo dir que per lo viatge d’anada foguec efectivament parelh, nos emplírem pas, mas avem pas nimanc patia la fam.

Arribats al país de Rossosh chaminérem encara na mesa jornada per arrubar sus las espondas dal Don ente finalament prenérem posicion.

En veritat nosautri deviam anar sus las montanhas dal Caucaso, mas puei a lo darrier moment an mandat lhi alemands. La decision foguec presa tant en retard que lhi foguec pas nimanc lo temp d’adaptar las resèrvas alimentaras e a nosautri chalgut lo minjar di nòstri aliats.

Sus lo Don restérem a pauc près tres mes, sensa chambiar jamai pòst.

Fasiam garda al flum tuiti lhi jorns, dal temp que lhi rus eren sus l’autra esponda a far lo nòstre mesme trabalh; de sera reüssian fins a mai a comunicar embe lhi megàfons.

Dins lhi premiers dui mes lhi fogueren pas gròs problèmas. Eriam ben posicionats e pro ben armats per poler ben defendre nòstra linha.

Tochava en tot cas far atencion a pas se far prene preisoniers, al s’era espanteaa la votz que lhi rus auguessen un pònt sotmarin embe lo qual reüssian en qualque maniera a traversar lo flum passant dessot e, sensa se far veire, far de preisoniers, donca obtenir enformacions sus nòstra formacion.

Mas lhi jorns passaven e, coma natural, s’anava vèrs l’uvèrn.

Lhi rus nos coselhaven de contuni de nos consenhar, arriberen fins a nos lançar de fulhets sus lhi quals a claras letras era reportaa la frasa: “Italians consenhat-vos! Atendem masque lo grand freid e puei vos prenem”.

Evidentement degun de lhi oficials prenec en mínima consideracion aquilhi fulhets, que veneren adobrats per tot d’autre.

Mas lo grand freid arribec pontualament.

Tot a l’entorn a nosautri tacava a jalar, decò lo flum.

Un jorn particularament freid, foguérem obligats a esparar per esquasi vint e quatre oras consecutivas masque per rómper la glaça, que se formava a vista d’uelh, e empachar parelh ai rus que traversessen lo Don abo lors cararmats.

Lo freid era tal que las mitralhas legieras que aviam en dotacion se blocaven, l’ueli lubrificant jalava e esparaven pas pus, sensa comptar que eriam vestits embe de vestimentas legieras e chauciers de carton que reüssian pas minimament a nos parar da las temperaturas polars qu’arribaven de bèl avant a trenta grads sot zèro.

Malaürosament veiam arrubar aquò que lhi fulhets rus nos avien preanonciat.

Era na man de jorns que auviam bombardar a qualque quilòmetre a costat e de filhas di vilatges da pè nos avien dit que “Italijanski cikai” es a dir que lhi Italians eren per escapar, daus que lhi rus avien rot la linha e istaven avançant.

S’istava aprochant l’ora de la retirada.

A lhi far las espesas d’en premier fogueren las divisions Julia e Tridentina tragicament sacrifiaas, a travèrs las qualas lhi rus se durberen lo passatge.

Entramentier la companhia dal “genio guastatori”, dins lo temptatiu de opausar resistença a l’avançada di rus, cerchava volontaris.

Iu e mon amís, un cèrt Paolo Pace de Alba que per ironia de la sòrt portava un cognòm que fasia a punhs embe la situacion, embe lo qual aviu passat la pus gròssa part dal temp durant aquesta darriera campanha de guèrra, decidérem de se presentar.

Voliam passar al gèni perqué, vist coma s’istaven butant las causas, aviam crenta que nòstre tenent, embornhit da un òdi de venjança fins dai temps de l’Albania, esfruchesse l’ocasion per sacrificar l’entiera companhia nos delançant còntra al nemís coma de kamikaze.

En tot eriam na quinzena de volontaris e foguérem transferits lo jorn d’après dessús d’un càmion.

Abo lo geni restérem a pena dui jorns e foguérem assinhats a l’aprovisionament de provistas. Mas já lo second matin, dal temp que qualqu’un de nosautri darriers ajontats eriam fòra a far forniments, tot es fenit.

Quora tornérem arreire la companhia ilh era pus.

Qualque bersac desmentiat o una man d’esquís encara plantats dins la neu e pas pus recuperats eren las soletas traças que restaven.

Semelhava foguessen partits en tota prèssa. En soma nos avien desmentiats aquí.

Çò que far? A nòstra companhia originala, sabiam pus retornar perqué per arrubar fins aicí aviam fait un lòng percors embe lhi càmions.

Sabiam que lo Pieve de Teco era a gaire quilòmetres da nosautri e parelh lhi anérem encòntra.

De fach eriam já “desbandats” denant de començar la retirada.

Partérem lo mesme matin e vèrs metzjorn encontrérem lo Pieve.

Lo Comand de la companhia nos prenec en consenha nos comunicant que istaven atendent l’òrdre de retirada, donca eriam pregats de nos aparear per la partença que seria capitaa d’aquí a gaire.