(LV, 1974, N.8):
È arcinoto che, fra due aree linguistiche contigue scelte come termini di paragone, non esiste quasi mai una separazione assoluta. Il passaggioda un tipo di dialetto ad un altro avviene solitamente attraverso una fascia di transizione costituita da una o più varianti e nella quale certe caratteristiche dell'uno scompaiono, o si trasformano, mentre appaiono quelle dell'altro, e viceversa. Facciamo un esempio: tra Pomaretto e San Germano si trova Inverso Pinasca, il cui patouà può esser considerato come variante di transizione nei confronti di quelli degli altri due comuni messi a confronto. Soltanto quando si passi da una lingua all'altra la fascia di transizione può ridursi più o meno ad una linea. Così tra Inverso Pinasca e Villar Perosa si passa da un'area anticamente provenzale ad un'area piemontesizzata in epoca relativamente recente senza percorrere un'area di transizione. Affermando ciò, tralasciamo di considerare l'influsso che il piemontese esercita sia per irradiazione (cioè influendo sulla lingua contigua), sia per infiltrazione disseminata (cioè insediandosi a chiazze nell'area vicina).
La variante di transizione sulla quale intendiamo soffermarci, sia pure sommariamente, è quella di Villaretto Roure, la quale rappresenta altresì, per così dire, una variante "di frontiera" nel senso che il patouà di Villaretto è, risalendo la Val Chisone, il primo tipo di alto-chisonese ("Oberchisonetalische" del Hirsch), confinante a valle con Bal ma, dove si colloca l'ultima variante
di frontiera del basso-chisonese ("Germanascatalische" del Hirsch).
Il patouà di Villaretto è un notevole caso di un dialetto che, pur possedendo gl'indubbi lineamenti di un gruppo ben determinato (quello alto-chisonese), per motivi amministrativi, sociali, ed economici si trova da tempo nel campo magnetico del basso-chisonese, di cui assume via via certi caratteri che lo giustificano sempre più come variante di transizione. A ciò si va sovrapponendo, da alcuni decenni, una spregiudicata azione del piemontese, il quale provoca alterazioni evolutive di tipo alienante.
Il Centro di Villaretto (Lë Viaaret) è situato a circa 1000 di quota. Esso si trova a 10 km. a monte di Perosa Argentina e a 6 km a valle di Fenestrelle. La parrocchia comprende l'abitato di Villaretto attorniato, sulla sinistra del Chisone (Cluuzon), dalle frazioni D'lae lou Rioû, Flandre, Chitaasec, Lë Sère, Loungëfòm , La Greizolo, Lë Pëcì Faè, Lë Faè, con le sue tre borgate Lê Mèi, Lë Touront e Lë Bergiè. Sulla destra del Chisone, in un vallone solitario, presso la mulattiera che conduce da Villaretto a Bourset, ecco La Cleò (Cleò dâ mèi, Cleò d'avòl). Altri casali (Chan dâ Filh, Sëleiraut, L'Albournö, La Cleò d'amount, ecc.), per quanto si ricorda, non furono mai abitati stabilmente.
Da alcuni anni La Cleò (m. 1300) è affatto deserta. Al Sère (m. 1230) ci sono solo più due abitanti stabili, a Loungëfòm una sola famiglia; anche la poderosa vicaria del Faè (m. 1270), una volta più popolata di Villaretto, è ridotta ormai a un manipoletto di abitanti stabili.

L'evoluzione del patouà di Villaretto può essere ripartita in tre periodi. Il I va da un'epoca indeterminata fino alla prima guerra mondiale. Il II comprende il ventennio fra le due guerre. Il III inizia coll'ultimo dopoguerra e dura tuttora.
La comunità del Roure venne costituita probabilmente nel XV secolo per distacco da quella di Mentoula (Mentoulles), della cui parrocchia Villaretto continuò ancora a far parte per un paio di secoli. A quell'epoca le parlate dei due borghi (distanti. fra loro 2 km. 1/2) dovevano essere praticamente identiche. Ma il costituirsi del Roure collocava già il centro di gravità amministrativo a Villaretto stesso, diventato sede comunale, avvicinandolo al davòl , cioè alla zona a valle, almeno per gl'interessi comunitari.
Una prima prova di ciò ci è offerta proprio dal Codice Gouthier con la transazione del Chardounè, (cfr.La Valaddo, n.5, p.6-9) in cui vediamo appunto Villaretto schierato col Roure contro Mentoula, e ciò nell'anno 1514.
Tuttavia le conseguenze dialettali di questo spostamento furono minime fino alla soglia del nostro secolo. Villaretto, oltre che sede comunale del Roure, era anche la più grossa parrocchia dell'alta Val Chisone, comprendendovi la vicaria del Faè. Tutto ciò gli conferiva un certo prestigio e vi favoriva una notevole autonomia di vantaggio nei confronti delle rimanenti frazioni del Roure: Balma, Charjau (Roreto), V'lou Boc (Cartel del Bosco) e Bourset, dalle quali lo separava un antagonismo dalle radici eminentemente dialettali, con la solita riottosa distinzione fra damountins e davalins; antagonismo che, ovviamente, poco si notava nei confronti di Mentoula.
Fino alla prima guerra mondiale l'economia della zona rimase prevalentemente fondata sull'agricoltura e sull' allevamento i quali, aiutati da un'emigrazione diretta soprattutto in Francia, permettevano alla popolazione residente di tirare avanti alla meno peggio.
Nel periodo che intercorre fra le due guerre mondiali avvennero due fatti importanti per il destino linguistico di Villaretto: uno di carattere locale (trasferimento della sede comunale); l'altro di carattere più vasto (nuova situazione sociale ed economica).
Il trasferimento della sede comunale da Villaretto al Casè, presso Balma, venne decretato nel 1929 ed attuato l' anno successivo, quando fu inaugurato l'attuale palazzo municipale. Questo avvenimento, giustificato dalla posizione eccentrica di Villaretto, concludeva una lunga aspirazione del davòl
ma costituiva anche una grave perdita di prestigio per Villaretto, a cui venivano a mancare, con gli uffici comunali, certe prerogative ad essi attinenti, come la sede del medico condotto. Ciò non poteva non determinare una svolta decisiva nell'evoluzione del dialetto; tanto più che su Mentoula incombeva un pericolo ancor più grave: l'antico e glorioso comune veniva infatti incorporato a Fenestrelle, cittadina con un nucleo maggioritario piemontesizzato (sebbene costituito originariamente da famiglie patouasanti) e pertanto portato ad un antagonismo talvolta puntiglioso, dialettalmente poco tollerante e tendenzialmente accentratore nei riguardi delle frazioni.
La nuova situazione sociale ed economica, conseguente alla prima guerra mondiale, è distinta dal graduale sviluppo delle industrie nella zona. Si ebbe perciò una prima partecipazione notevole della popolazione alto-chisonese alle industrie di Perosa Argentina, di Villar Perosa, di Pinerolo e perfino di Torino, il che diede il via al fenomeno dell'urbanesimo, che fino a quel momento aveva avuto un'importanza trascurabile. Intanto l'emigrazione tradizionale verso la Francia registrava un forte regresso in seguito agli ostacoli frappostile dalla politica fascista e alla grave crisi economica mondiale scoppiata nel 1929.
Ne derivò una rapida decadenza del francese parlato.
La nuova situazione aprì le cateratte al piemontese, che si rivelò non meno divoratore di patouà di quanto l'auro chaudo sia divoratrice di nevi.

Nel secondo dopoguerra il primitivo antagonismo fra Villaretto e il davòl è andato via via attenuandosi , con tanto di guadagnato per la serenità della vita municipale. A ciò hanno contribuito anche i frequenti matrimoni fra persone dei vari borghi ed il contatto quotidiano sui luoghi di lavoro. Le ripetute riunioni del Consiglio Comunale dettate da interessi collettivi, le manifestazioni promosse dalla Pro Loco, gli incontri organizzati dalle associazioni d'Arma, ecc. contribuiscono ad amalgamare usi, costumi e mentalità, e pertanto influiscono anche sull'espressione orale, beninteso in senso reciproco.
Inoltre è venuta consolidandosi la situazione economica abbozzata nel periodo precedente: si è moltiplicata la partecipazione all'industria e si è aggravato lo spopolamento, con la
scomparsa quasi totale degli addetti all'agricoltura. Attualmente la popolazione del Roure corrisponde a circa un terzo di quella precedente alla prima guerra mondiale.
Il piemontese, pur essendo in ritirata sul fronte dell'italiano, ha accentuato la sua invadenza, favorito in ciò dai numerosi matrimoni fra patouasanti e piemontesizzanti. D'altra parte i lavoratori dell'alta Val Chisone si trovano riuniti in fabbrica non solo fra loro, ma anche con compagni di lavoro provenienti dalla Val Germanasca e dal versante destro del basso Chisone; tra questi operai avvengono scambi dialettali che ancora pochi decenni fa erano eccezionali o per lo più avvenivano specialmente all'ambiente dei minatori di talco.
Nel prossimo numero daremo una esemplificazione essenziale a sostegno di questo nostro abbozzo storico geografico.

(LV, 1974, N.9):
La distinzione, stabilita dal dott.Ernst Hirsch, in patouà alto-chisonese e patouà germanasco, separati da una linea ideale che corre fra Villaretto e Balma, è senz'altro accettabile. Chi però sia originario dell'alta Val Chisone è tentato di parlare di un dialetto medio-chisonese, estendendosi da Villaretto a Fenestrelle, sia pure incorporato nell'area dell'alto-chisonese, ma sufficientemente caratterizzato; proprio come il basso chisonese, estendentesi da Perosa a Balma, è incorporato nel tipo germanasco pur possedendo notevoli caratteri distintivi. Scartiamo intenzionalmente l'esame dell'intercapedine costituita dal Faè e dalla Cleò la quale, appunto perchè interessantissima per graduare la transizione fra basso e medio-chisonese, richiederebbe un approfondimento ben più vasto di quanto non consenta il carattere succinto della presente trattazione.
Ciò premesso, entriamo nel vivo della materia affermando che, all'inizio di questo secolo, il patouà di Villaretto presentava, rispetto all'attigua variante basso-chisonese, certe particolarità di cui ecco le più salienti:

I - VILLARETTO
1)ô, tonica lunga, invece di â: mòrs = marzo, soubrô = rimanere, la palhòso = il pagliericcio, encòro = ancora.
2)prefisso e- oppure ē- (ei- nel Codice Gouthier): ecarsô = lacerare, l'ēpallo = la spalla.
3)aumento del grado di apertura delle vocali toniche brevi, centrali o posteriori: naesö' = nato, l'abitöddo = l'abitudine, l'arsinon = il cenone, la fèlho = la foglia; mentre u protonica breve passa ad ë: fëmô= fumare.

I - BALMA
1)â tonica lunga, rimane inalterata: mars, soubrâ, palhaso, encaro.
2)prefisso ei-: eicarsâ, eipallo.
3)nessuna alterazione: naisù, abituddo, arsinoun, fölho; fumâ.

II - VILLARETTO
1) 1)Articolo determinativo maschile: sing.lë, pl.loû (nel Codice Gouthier lou, lous)
2) 2)plur. maschile degli aggettivi possessivi: moû, toû, soû.
3) 3)plur. in -s per sing. in consonante o semivocale: lapin - lapins (coniglio), rèi - rèis (re), gënoulh -gënoulhs (ginocchio), moul - mouls (molle), clot - clos (orizzontale).
Plur.in -aus per sing. in -òl, in -eaus per sing. in -el, -èl: cavòl - cavaus (cavallo), fournel - fourneaus (camino), troupèl - troupeaus (gregge), nouvèl - nouveaus (nuovo, nel senso di "un altro").
0) 4)-oun desinenza atona della III pers.plur.: î chantoun = essi cantano.
4) 5)accordo del participio passato: al ee perdö'- î sioûn perdû = è perduto, sono perduti.
5)
II - BALMA
l)art.determ. masch.: lou, lî.
2) plur. Masch. degli agg. Possessivi: mî, tî, sî.
3) plurale uguale al singolare
4)desinenza -an: î chantan.
5)part. pass. invariabile: al ee perdù - î sioûn perdù.

Da Villaretto prendeva (e prende) inizio quella frazione dell'alto-chisonese che abbiamo or ora indicata come medio-chisonese. In essa si verifica, come regola assoluta, il passaggio a dittongo di due vocali in iato: Balma vio, Vill.viò (strada), brouo - brouò (pendio), leo -leò (slitta), bluo- bleò (scintilla), buou - beoû (bue) , ofisìe-ofisiè (ufficiale). Questo fenomeno, assente dalla Cleò ma presente a Bourset, cessa a monte di Fenestrelle. Esso ha provocato notevoli conseguenze fonetiche e semantiche. Fra queste ultime scegliamo appunto come esempio il termine "scintilla": sing. la bleò (per la bluò), plur. lâ bleô, che già era in decadenza all'inizio del secolo a vantaggio del francesismo l'etensèllo perché si confondeva con il termine omòfono indicante la bietola.
Accanto alla desinenza -oun della 3a pers. plur. si era già affiancata quella in -an propria non solo del basso-chisonese, ma anche del Faè e della Cleò, sicchè essa irradiava sul Pëchì Faè, e, secondariamente, anche nella zona propria di Villaretto presso elementi che avevano subito una qualche influenza del Faè o della Cleò.
Intanto si stava diffondendo a Villaretto una peculiarità locale costituita dal rilassamento in -a delle vocali lunghe in finale atona assoluta: dèa, vea, gia, la vëlhòa, groa, doua, sua (dieci, vedere, "point de", la veglia, grosso, due, sopra ) invece di dê, vee, gî, la vëlhô, groo, doû, sû.

DIFFERENZE CON MENTOULA.
Nel numero precedente si é affermato che, all'epoca della formazione del Roure, a Villaretto e a Mentoula si parlava praticamente lo stesso patouà.All'inizio del secolo presente, nel patouà di Villaretto si notavano però già alcuni cedimenti e incertezze quanto al plurale sigmatico dei nomi e degli aggettivi. Di questo fenomeno parleremo ancora in seguito, poichè esso diventerà più marcato fra le due guerre.
Sempre all'inizio del secolo, esisteva già la differenza nel presente del verbo dire: a Mentoula mi dizou, të dizi, î dizoun (dico, dici, dicono), a Villaretto mi diouc, të diô, î diôn. Questa duplice forma esiste anche in piemontese (i disu e i diu) nonchà in provenzale (dise, ma a Marsiglia diéu).
Quanto al'accordo del participio passato (cfr. supra II, 5), i verbi in -ô (I coniug.) cessavano di praticarlo al maschile: al ez aribà - î sioûn aribà = è arrivato, sono arrivati (a Mentoula î sioûn aribô). Tale anomalia - la prima a manifestarsi nell'evoluzione di quest'accordo - era dettata non solo da un adeguamento alla situazione in atto nel basso-chisonese, ma era anche favorita da un'esigenza di chiarezza. Infatti a Mentoula, come in tutto il rimanente dell'area alto-patouasante, per "arrivare-arrivato-arrivati-arrivate" troviamo aribô - aribà-aribô-aribô-aribô. Queste forme, impeccabili secondo le regole fonetiche, sono però ambigue per il senso; perciò si giustifica in parte la più marcata differenziazione introdotta a Villaretto con aribô-aribà-"aribà"-aribô-aribô. Il plur.masch. in -ô si conservò tuttavia per i sostantivi di analoga desinenza, anche per quelli di origine participiale, come lë saudà = il soldato, pl.loû saudô.
Il pronome dimostrativo quèllou = quelli, ed il pron. personale èllou = essi, passavano rapidamente a quèlli, èlli, preludendo al prossimo e più vistoso mutamento degli articoli.
In campo lessicale va notato che, già all'inizio del secolo, non esisteva più traccia, a Villaretto, dell'alto-chisonese parié = così, poichè la sola forma in uso era parelh, come a Balma.
Non c'è alcun indizio per supporre che a Villaretto siano mai esistiti i pronomi possessivi femminili la miònno, la tuònno, la suònno, propri dell'area Mentoula-Chambons-Fenestrelle (dopo Mentoula, la -o finale si attenua o scompare addirittura), al posto di la miò, la touò, la souò. E già all'inizio del secolo era praticamente scomparsa a Villaretto la -r etimologica finale nella desinenza -aur: Ment. paur, chasaur (paura, cacciatore), Vill.pau, chasau, germanasco pòu, chasòu.
Un altro fatto evolutivo, interessante perché rivelatore di un mutamento di costumi e di coscienza linguistica, si profilò già prima del 1915. Esso riguarda i nomi di battesimo. Per secoli avevano predominato a Villaretto nomi come Pière (Plin), Pol, Jouzèp, Jagque, Batisto, Jan, Coutiddo, Gin, Mariò, Juspino, Adëlaìddo, Catlino ecc. che, come si vede, erano stati talvolta plasmati dall'uso francese. A un dato momento questi nomi cominciano a sembrare arcaici, anacronistici, terra terra. L'ambizione dei genitori, abbandonato il campo francesizzante si rivolge a risonanze italiche. Uno dei primi nomi a portare insolitamente la desinenza -o , fino ad allora sentita come femminile, fu Guido (pron.Guiddo), che fu seguito da una sfilza di Silvio, Remo, Mario (non più Marius) ecc.; si andò a frugare nel mondo greco con gli Ercole e gli Ettore, si rese omaggio all'alta poesia con i Dante, ecc. Viceversa, in campo femminile, tranne qualche sperduta Beatrice, l'onomastica battesimale rimaneva tradizionalista.

Nel secondo periodo, cioè quello fra le due guerre, l'innovazione morfologica più vistosa è costituita dall' estendersi delle forme in -î per l'articolo ed i possessivi (cfr. supra II 1-2); ecco quindi coesistere loû-moû-toû-soû con le innovazioni lî-mî-tî-sî, specialmente in Villaretto e alla Greizolo, e ciò sotto la spinta congiunta del davòl e del Faè, il quale era stato intaccato per primo dall'innovazione.
In pari tempo la relativa compattezza del plurale sigmatico (che nel periodo precedente aveva registrato le già accennate esitazioni, specialmente con le desinenze -m, -p, -c, per esempio per poum, champ, feoc = mela, campo, fuoco), cominciò a sgretolarsi a partire dagli aggettivi e dai participi passati. A ciò contribuì anche il fatto che, per un'avversione tipica dei patouà alla polisemia (il che è una delle cause del loro impoverimento lessicale), certi plurali richiamavano parole con altri significati, per es.: il plur. lours di lourt = ubriaco, era disturbato dall'omofonia con l'ours = l'orso; così vèrt = verde, ha come plurale vèrs, omofono di lë vèrs = il chiasso; chaus, plur. di chaut = caldo, richiamava all'orecchio le assonanze di chauso, chausô = calza, calzare, e così via. Fra i nomi lasciarono cadere la -s del plurale, oltre a quelli già citati in -m -p -c, anche quelli in -ch ed -f, come baboch, moutif = bamboccio, motivo.
L'accordo del participio passato maschile (cfr.supra II, 5) andò sempre più affievolendosi, ad imitazione del participio passato in -à. Ci si avviò quindi dalla forma î sioûn perdû a quella î sioûn perdö'.
La desinenza verbale -oun rivela una netta tendenza a snasalizzarsi mediante la perdita di -n: î chantou invece di î chantoun; così î s'amuzòvou = si divertivano. La già citata forma in -an non segna e non segnerà, a Villaretto, alcun progresso né alcun mutamento.
Sotto l'influsso del piemontese e per irradiazione del germanasco incomincia ad affermarsi il futuro perifrastico costituito da presente +pèu (= poi): venou pèu per venarèi = verrò.
La sintassi resta generalmente stabile. Il lessico, invece, dopo avere imbarcato termini francesi nei secoli precedenti, a poco a poco li butta a mare (putroppo anche insieme con tanti termini tipicamente provenzali) e, in compenso, prende ad imbarcar parole dal piemontese, o dall'italiano, tramite il piemontese. Ecco quindi che, per es., accanto a la plòso, siouplet, coumprènne, lë calignaere (il posto, per piacere, capire, il fidanzato) appaiono lë post , per plazee, capî, lë fidansà. Nel gioco delle carte, le figure lë vaalet e la fènno diventano lë fant e la regino (barbarismo italico che ha scalzato il barbarismo francese la reno, il quale a sua volta aveva eliminato il termine genuino la rèino). Certe assonanze prettamente francesi vanno scomparendo (italien passa ad italian). L'accentazione propria del medio-chisonese si adegua spesso alla pronuncia ufficiale: Itàlio per Italiò, Rössio per Rusiò, mentre resistono bene Roumaniò, Albaniò ecc., poichè una desinenza -ìo appare inapplicabile in mediochisonese.
I nomi di battesimo di stampo italico dilagano ormai senza freno. Negli anni venti gode di simpatia speciale il nome Aldo, al quale si accodano i vari Armando, Renato, Giorgio (Jors sembrerebbe antidiluviano); la romanità fa capolino con i Livio, i Fulvio, gli Ezio, i Celso. Intanto entra in scena il nome Franco, destinato a grandi fortune. Qualche brava mamma villarettese, stanca delle sante del calendario, va nei boschi in cerca di Violette o nei giardini a coglier Gelsomine, oppure si accontenta di generiche Fiorelle. Ma, nonostante l'apparire marziale del nome Elsa, si rimane ancora nel pacifico filone della tradizione, sia pure con qualche aggiornamento fonetico, con Giovanna, Onorina, Natalina, ecc.
Una vera sciagura si abbattè sui toponimi con la loro italianizzazione imposta nel 1935. Notissima è la trasformazione di Roure in Roreto. Ma l'assurdo si raggiunse affidando a persone assolutamente incompetenti l'eliminazione di quella santa toponomastica spicciola che è per una contrada, ciò che il colore è per un quadro. Così Flandre divenne Filande, Loungëfôm fu raccomodato in Lungavia (Lungafame non avrebbe fatto abbastanza "chic") e via di questa solfa, tra l'appena divertita noncuranza della popolazione.

Nel terzo periodo, tuttora in corso, sono andati accentuandosi, od aggravandosi i fenomeni abbozzati nei due periodi precedenti.
Così il plurale sigmatico degli aggettivi è praticamente scomparso, mentre per i sostantivi il suo spazio si è maggiormente ristretto. Hanno perduto la -s del plurale i nomi in -gn (come pugn = pugno) e c'è esitazione per quelli in -lh (come travòlh = lavoro). In compenso , la -s rimane salda dopo l (chols= cavoli), n (fens= fieni), r (flours= fiori), t (ts si riduce a s: ort - ors).
Il genere di certi sostantivi vacilla. Infatti i nomi di cosa in -our, che sono tradizionalmente femminili, mantengono senza esitazione questo genere soltanto in la flour, mentre gli altri si avviano verso il maschile, come la-lë vapour, la-lë chalour, la-lë doulour (che resta femminile al plur. nel senso di "i reumatismi"), ecc. Dall'ambiente operaio si è dilatato la matin, accanto a lë matin, poichè il femminile indica un turno di lavoro.
La ł, cosiddetta l faucale, che a Villaretto si è tanto rilassata in certe posizioni da esser mal percepita da chi non abbia l'orecchio esercitato (così da udire Greizo-o anzichè Greizoło), è in regresso e, invece di volgere ad u come nel passato (aut da "alt-u"), tende ad elle naturale. Per es. colbe - colpo, invece di cołbe. Resiste bene in posizione postonica intervocalica, come ouło = pignatta, e soprattutto in finale assoluta, come choł.
In talune persone influenzate dal piemontese (specialmente nell'ambiente operaio) si rivela la tendenza a palatalizzare la s (che in patouà è una sibilante nitidamente alveolare) di modo che si = sì (in caso di risposta affermativa a domanda negativa) viene pronunciato quasi come "sci". Questa tendenza è particolarmente viva nei più giovani.
La stabilità della sintassi è minacciata in due campi: la regolarità della costruzione e la forma interrogativa.
La chiara costruzione tipica del patouà, fondata sullo schema soggetto + verbo + complemento oggetto + altri complementi, è sì ancora predominante, ma sempre più di frequente si odono frasi come â l'a vit el = l'ha visto lui, accanto alla forma tipica l'eez el quē l'a vit; il che crea una certa ambiguità.
Più grave appare la decadenza, presso individui meno che quarantenni, della forma interrogativa. Frasi come siouc-iè pâ bon a zë fô? (non son capace di farlo?), soqquë chantà-ou? (che cosa cantate?) vengono alterate in siouc pâ bon a zë fô? soqqu'ou chantà? con grave scapito delle possibilità espressive.
Questo fenomeno si presenta ancor più vasto a Mentoula, dove il patouà si trova non solo a dover subire la situazione illustrata nel numero precedente, ma anche a dover fronteggiare in casa propria un nucleo piemontesizzante più che mai irrecuperabile.
L'influsso del basso-chisonese sul lessico villarettese è scarso, anche perché le differenze profonde nei termini più necessari non sono numerose. Si può notare la penetrazione del pronome tötti, in basso-chisonese tutti, che, specialmente in Villaretto e alla Greizolo, si affianca al normale tut, plur. di tout per metafonèsi, e già modificato da un precedente tus, poco adoperato per l'omofonia con â tus = egli tossisce.
Iniziatasi nel periodo precedente è la penetrazione della locuzione negativa papì = non ... più, normale in basso-chisonese e in germanasco, la quale fa concorrenza a pâ mèi: al ee pâ mèi (papì) vengö' = non è più venuto.
E' chiaro che in papì il piemontese ci ha messo lo zampino. E qui occorre dire che l'invadenza in campo lessicale è quasi un monopolio del piemontese. Fenomeno questo doppiamente devastente poichè il piemontese non si accontenta di introdurre forme lessicali sue, ma, nella sua grave fase attuale di decadenza, si fa intermediario di un'infinità di italianismi più o meno mimetizzati; fenomeno doppiamente umiliante per il patouà, il quale chiede linfa vitale ad un malato. Si tratta di un'azione tanto vasta e complessa che rinunciamo a trattarla qui. Diremo soltanto che le innovazioni intrufolatesi nel villarettese durante il periodo precedente si sono ormai consolidate a tal punto che certe forme - ridicole qualche lustro fa e sentite ancora come ridicole nell'alta valle - vengono ora accettate imperturbabilmente.
È il caso del verbo capì (invece di coumprenne) della II coniugazione, di cui certe forme, come ou capiseen, capisò-ti? (capiamo, capisci?), non urtano più tutti i timpani con la loro risonanza, a dir poco, indecente.
In compenso, in campo lessicale c'è da segnalare un caso su cui vale la pena di soffermarsi:
In tutta l'alta Val Chisone, da Meano in su, il saluto "arrivederci" è rappresentato da arvee, che ha validamente resistito per secoli all'invadenza petulante del francese "au revoir" pronunciato arvouar. Ma in fabbrica i Chisonesi, sempre più numerosi, si trovano a contatto con un nugolo di loro compatrioti di patouà germanasco, i quali non dicono arvee, ma
arveise. A forza di udire e di ripetere giorno per giorno questa parola sul luogo di lavoro, ecco che i Chisonesi si son messi da alcuni anni a scambiarsi gli arveise, come se di quest'innovazione sentissero un'impellente bisogno. Di tanti termini, bellissimi, genuini, offerti dal patouà germanasco, i quali potrebbero validamente rinsanguare il lessico locale, nessuno è stato adottato. Si doveva andare a scegliere proprio un termine fra i più inopportuni, non tanto perchè superfluo, quanto perché urtante nella sua composizione assolutamente aberrante. Infatti, tanto il basso quanto l'alto-chisonese non conoscono la posizione del pronome complemento dopo il verbo, tranne all'imperativo. Il germanasco invece se n'è imbevuto ad imitazione del piemontese, adottandola anche in relazione al participio passato. Perciò in alta val Chisone quell'arveise è quanto di più innaturale e forzato possa immaginarsi. Eppure ....
I rami di battesimo, in questo dopoguerra, sono entrati in una fase d'innegabile progresso, sulla scia trionfale dei Franco ecco manifestarsi l'inflazione degli Osvaldo, il che reca una tremenda confusione nell'individuare i vari titolari, soprattutto perché sono in decadenza i soprannomi distintivi delle famiglie. Mai come in questo tempo di democrazia si sono avuti tanti Patrizi e Patrizie; in compenso, nessun Plebeo. Si è diffusa a macchia d'olio l'usanza del duplice nome di battesimo, costruito in genere sulla base Pier + gli esponenti Mario, Giorgio, Nando, Carlo, etc., a cui tengon bordone i femminili fondati su Maria + quel che segue; nei quali, se non altro, sotto la crosta italica si ritrova qualche reminiscenza di altri tempi. Non bisogna però credere che la fantasia dei genitori sia rimasta legata ad un campo così ristretto. Neanche per sogno! I giornali a fumetti, i film, infine la televisione hanno consentito una messe abbondante di nomi battesimali inconsueti, singolari, sensazionali, specialmente quelli femminili, i quali, cristianamente sopportati dalle dirette interessate, sono spesso difficilissimi da tenere a mente, per cui tralasciamo di menzionarli.

Come conclusione, accenneremo ad un importante fattore di evoluzione alienante del patouà. Noi si può certo accusare la curia pinerolese di avere mai dimostrato speciale premura o sensibilità o interesse nei riguardi del carattere etnico dei Provenzali della diocesi. In alta Val Chisone ci sono dieci parroci, tutti originari dei dintorni di Pinerolo; persone senza dubbio piene di santo zelo, ma di solito completamente estranee al fatto linguistico locale (tranne una sola eccezione), tutte comprese del loro "piemountèis" che ci spiattellano con indubbia buona fede. Omnia munda mundis! Intanto, dei sacerdoti patouasanti c'è chi si barcamena a San Germano, chi cova la sua nostalgia ai margini della pianura, chi sta facendosi le ossa nel seminario pinerolese, chi pastoreggia in quel di Torino, chi fa carriera a Roma e chi fa il missionario in Brasile. Come se la Val Chisone, per la sua sopravvivenza etnica, non avesse bisogno anch'essa di missionari che parlino patouà!
A Villaretto, già nel 1900, veniva assegnato don Felice Bonansea di Bricherasio, che per primo predicò in italiano, mentre in precedenza si era predicato per secoli in francese. Ciò aveva poca importanza, perchè anche il francese era minaccioso per la nostra espressione provenzale; si cadeva semplicemente dalla padella nella brace. Il fatto più grave era che il piemontese entrava spavaldamente in canonica, s'insediava come lingua d'uso nei rapporti tra parroco e fedeli, s'imponeva nel confessionale etc., cosa che mai era riuscita al francese e ancora adesso non riesce all'italiano (salvo nella liturgia e nella catechesi). Una lieve ripresa del patouà si ebbe con il successore di don Bonansea, cioè don Giuseppe Gay del Faè, il quale aveva già retto la parrocchia di Laval. Con la sua scomparsa, nel 1933, anche il patouà scomparve dalla canonica di San Giovanni Battista in Villaretto. Il fatto che al latino - che è il latino!- non sia toccata sorte migliore non ci consola per niente e non ci consolerà mai. Un giorno non lontano (non c'è tempo da perdere!) si dovrà pur riparlare di questo problema scottante; riparlarne in modo più incisivo, e non solo con deferenti lagnanze le quali lasciano sempre il tempo che trovano.