IL GIOCO.
Il ludo di San Martino ha preso il nome dal piemontese "crin-a",la femmina del maiale, che un tempo era il premio in palio, e dal patais "cavilholo", piccola caviglia o cavicchio di legno, l'attrezzo occorrente per giocare. Nei tempi andati la "crino" fu sostituita da una brenta o, più modestamente, da alcuni "dubloun" di "rëzì" o "ramìe", il buon vino della Val Germanasca, offerti dalla squadra perdente.
La "crino-cavilholo" non è un gioco spettacolare, ma l'interesse per esso è ancora assaivivo nella popolazione locale e mi auguro, proprio perché puro, semplice e paesano, che possa conservarsi a lungo ed essere maggiormente nota agli studiosi del folclore alpino.
I concorrenti, in numero indeterminato, un tempo certamente in costume, sono muniti di un ramo di legno di nocciuolo lungo 30-50 cm. a forma di y greca, la "cavilholo" , con le tre estremità appuntite, una delle quali di solito è più lunga, per favorirne il lancio e la successiva caduta.
C'è pure un capo-gioco, "lou cap dë la crino", la cui carica si tramanda di generazione in generazione tra i membri maschi della famiglia del proprietario di una "granjo" della borgata Giordanengo, un tempo sede della Confraternita cattolica, da dove ha inizio il gioco, la "boino". Il capo-gioco è depositario di un bastone di rustico legno lungo circa un metro, la "maire", che, dalla "granjo", getta sul campo da gioco, il prato sottostante, facendolo roteare verticalmente a mo' di antica arma lignea. I giocatori, da parte loro, lanciano i propri attrezzi cercando di avvicinarsi alla "maire" (come si fa nel gioco delle bocce con il pallino) e il capogioco stabilisce quali sono i più vicini e i più lontani da una tacca, l'"ocho", fatta alla metà della "maire", da dove prende la misura con un altro bastoncino. Vengono così costituite le due compagini: "lou caire d'aval" o "dësout" e "lou caire damount" o "dësoubbre" secondo se le cavigliole si trovano a monte o a valle della intaccatura della "maire".
Ha quindi inizio il gioco vero e proprio. Il capo torna a lanciare il più lontano possibile il suo bastone e, a turno, uno per "caire" , i partecipanti alla competizione gettano i loro attrezzi che vengono controllati da "cap": sulla cavigliola che è più vicina, "la pi prê", e su quella più lontana, "la pi lögn", dalla tacca della "maire" viene pratica un'"ocho".
Il gioco riprende, con ripetuti lanci del bastone e dei cavicchi da parte del direttore di gara e dei concorrenti, fino alla borgata Salengo, da dove, se nessun giocatore ha raggiunto il numero prestabilito di intaccature, si ritorna alla "boino" di Giordanengo. Quando una "cavilholo" presenta tale numero di tacche, di solito dalle sei alle dodici, la squadra cui appartiene il proprietario dell'attrezzo ha perso e, secondo il regolamento, deve pagare da bere. La tattica delle squadre è quindi tutta rivolta ad allontanare nel tempo il momento del raggiungimento del numero stabilito di tacche per rendere più avvincente il gioco e chi ha già subito qualche "ocho" cerca di lanciare il suo attrezzo né troppo vicino né troppo lontano dalla "maire", facendo possibilmente "marcare" l'avversario oppure, nel peggiore dei casi, un compagno ancora immune da tacche: il gioco può così durare alcune ore.
Al termine i giocatori gettano i loro attrezzi sul tetto della "granjo" di partenza; poi, all'invito del capo-gioco a "sautâ", a "mountâ" o a "rampiâ", i concorrenti manifestano la loro gioia e la loro abilità compiendo il percorso del campo da gioco saltando la cavallina. Inutile dire che la giornata termina con una buona bevuta e, talvolta, con un'abbondante cena, tra risa e lazzi, canti e balli.
ORIGINE E ANEDDOTI.
Come e quando i montanari di San Martino si siano dedicati a questo gioco non ci è dato di sapere: tradizione o leggenda vuole che fosse anticamente praticato dai giovani di Abbadia Alpina nei pressi del Ponte di San Martino, e che qui fosse stato notato da alcuni valligiani, i quali, interessati alla cosa, desideravano di portarlo in VaL Germanasca.
Ecco che cosa ebbe a scrivermi al riguardo l'amico Osvaldo Peyran che, su questo argomento, presentò una relazione al Convegno Piemonte-Provenza svoltosi nel 1967 a Fenestrelle.
Ad Abbadia, come ora a San Martino, si era deciso che il gioco dovesse svolgersi regolarmente una volta all'anno: se per un qualsiasi motivo non si fosse effettuato, il diritto a giocarlo "scadeva" e qualunque altro villaggio della Valle avrebbe potuto "rubarlo". I buoni montanari stavano attenti ad una eventuale distrazione dei giovani di Abbadia e un anno in cui questi, volutamente o meno, non si sa, lasciarono trascorrere la data tradizionale senza giocare, si affrettarono all'Abbadia per impadronirsi della "crino". Arrivarono per primi quelli di San Martino, quali, dopo avere contestato agli abbadiesi la loro infrazione alla consuetudine, si affrettarono a portare al loro paese la tanto agognata competizione, saltando la cavallina come voleva la norma.
Saltare e correre, senza mai fermarsi un solo istante, da Abbadia a San Martino, non dovette certo essere fatica lieve: sono difetti più di venti chilometri con un dislivello di ben mille metri, e, forse, è proprio a ricordo di tale corsa che alla fine della partita i giocatori usano tuttora percorrere il campo da gioco "alla cavallina".
A San Martino legalizzarono il loro diritto al gioco con un atto notarile, di cui purtroppo si è perso traccia, col quale un montanaro della borgata Salengo si impegnava solennemente a permettere che la "crino" si svolgesse a Pasqua su un suo prato; non solo: il proprietario si riteneva anche obbligato a mettere a disposizione una "granjo" e a tenerla sgombra dal fieno e dalla paglia per permettere ai giocatori di riunirsi al coperto per le operazioni preliminari riguardanti la costituzione delle squadre. A testimonianza del diritto di gioco rimangono sul bel mezzo del lastricato della grangia alcune scanalature e un grosso foro a coppella dove il capo-gioco appoggia il suo bastone prima di dare inizio alla gara.
Molti aneddoti vengono narrati dai sanmartinesi sulle competizioni giocate in passato. Si racconta che durante gli anni della prima guerra mondiale, quando i giovani montanari erano tutti alle armi, furono le loro spose, fidanzate e sorelle a giocare la "crino" , onde evitare di perderne il diritto. Un anno, invece, ci fu una nevicata tardiva che ingombrò di un metro abbondante il campo da gioco: i concorrenti non si impensierirono per così poco e, dato mano a pale e vanghe, liberarono completamente il prato per giocarvi subito dopo. Un altro anno, la Pasqua cadeva alla fine di Aprile, l'erba era già alta, ma vane furono le rimostranze del proprietario del prato che vedeva minacciato il raccolto del foraggio per le sue bestie da latte: i giocatori, forti del diritto sancito dall'antico atto notarile, non si lasciarono impietosire e la "crino" si svolse tra l'erba alta. Nel 1944 un reparto tedesco era in rastrellamento sull'opposto versante del vallone, ciò nonostante la competizione si svolse regolarmente.
Nel gioco della "cavilholo" il compianto prof.Silvio Pons ha voluto ravvisare la spiegazione di forme di armi da getto da lui trovate in alcune sculture rupestri, di età difficilmente databile, ma certamente assai remote, della zona di Pramollo, che lasciano intravvedere una strana rassomiglianza con gli attrezzi di San Martino. Affatto contrastante è l'opinione del prof. Teofilo Pons, suo conterraneo, il quale afferma, infatti, che il vocabolo piemontese "crin-a" rivelerebbe un'origine assai recente del nostro gioco. Pur senza fare propria la prima tesi, altri studiosi ritengono che si possa accettare l'ipotesi dell'arcaicità della "crino", poichè non si può escludere che il vocabolo piemontese sia una semplice aggiunta, una sovrastruttura posteriore, così come se ne possono trovare in altre tradizioni popolari di origine montanara; senza dimenticare, come ebbe ad osservare anche l'amico dott.Gustavo Buratti, che il gioco, svolgendosi soltanto il giorno di Pasqua (festa della Resurrezione divina, ma anche della rinascita della natura, della Primavera) con la partecipazione di soli uomini e con molti richiami alla natura del maschio (i bastoni del cavo-gioco; gli attrezzi triforcuti che si piantano per terra e che vengono lanciati verso la "maire", la donna; gli inviti del capo a "sautâ", a "mountâ", a "rampiâ" e lo stesso salto della cavallina...), potrebbe far pensare a un ludo simbolico, ad un rito agrario e religioso in onore della Primavera, di cui si è perso l'antico significato.
IL "COINCHON".
Prescindendo da tali contrastanti e ipotetiche affermazioni, è interessante rilevare che il nostro gioco presenta alcune somiglianze con un'altra antica manifestazione del folclore alpino, diffusa nella Savoia, il "jeu du coinchon". Proprio tale accostamento, una volta ancora, ci fa parlare di una comune situazione culturale dei due versanti delle Alpi e conferma un'antica e ampia diffusione di apporti etnici convergenti, paralleli e spesso simili, conservati da quella forza spirituale che è la tradizione popolare.
Il gioco del "coinchon" o del "coinston", del "cornichon" o del "cuchon", secondo la località dove si svolge, è ancora in onore nel Haut-Faucigny, nella valle del Giffre e nella regione di Albertville della Savoia e, come il nostro ludo, si pratica soltanto nel pomeriggio della domenica o del lunedì di Pasqua. Vi partecipano giovani e vecchi e, un tempo, era giocato da montanari di borghi e paesi diversi.
Consiste nel lanciare un pezzo di legno triforcuto, "le coinchon", il più vicino possibile ad un bersaglio,"le dame", dato a volte da un anello di legno o, più spesso, da un "bâtonnet", facendolo sempre passare dove l'ha fatto passare il primo lanciatore: sopra la spalla, tra le gambe, sopra un ramo di un albero...Chi perde, ossia chi ha lanciato l'attrezzo lontano dal segno, deve fare una "entaille" sul suo "coinchon". Segna pure una tacca il primo giocatore (il perdente della mano precedente) che, lanciando l'attrezzo, non ha detto: "La dame est loin", la signora (ossia, il bersaglio) è lontana; chi, lanciando, ha tralasciato di designare il giocatore successivo; chi non ha imitato nei gesti o non ha seguito l'ostacolo stabilito da chi ha iniziato il gioco; chi, lanciando il "coinchon", non ha tenuto il piede sulla "marque du jeu", che è data da un bastoncino detto "servante" e che è raccolta dall'ultimo giocatore o dal perdente per fissare il nuovo limite di gioco.
Il "coinchon" ha, quindi, regole fisse e si snoda su strada o per i campi; il primo lanciatore può tirare "la dame" o il "batonnet" dove più gli piace: in un ruscello, in una siepe, al di sopra di questa, tra l'erba alta... Di solito si cerca di fare il giro del paese, salendo e scendendo, seguendo percorsi sempre differenti e facendo ritorno solo al tramonto.
Il gioco termina con il pranzo, mangiando, secondo la tradizione, un "cabri"; la spesa è divisa tra i partecipanti al gioco secondo il numero degli intagli fatti sul loro attrezzo (cfr. Almanach du vieux Savoyard, 1972).
Lo svolgimento del gioco, come il lettore avrà notato, si differenzia notevolmente dalla nostra "crino"; ciò nonostante alcuni particolari sono stranamente somiglianti. Il "Coinchon" viene giocato solo nel giorno di Pasqua, in paesi di montagna, nei prati; l'attrezzo è dato da un ramo triforcuto come la nostra "cavilholo" e, come questa, dà il nome al gioco; il "batonnet" che serve come bersaglio, corrisponde chiaramente alla nostra "maire", e più ancora "la dame", la signora, data da un oggetto a forma di anello che dev'essere raggiunto e colpito dall'attrezzo triforcuto lanciato da un uomo; e proprio questa fatto sembra avvalorare l'ipotesi posta per la "crino" di gioco propiziatorio per la rinascita della natura e per la specie umana; "la servante" è il nome che si dà, nel nostro patois, al bastoncino che indica in alcuni giochi il limite (es. il gioco delle bocce); le "entailles" fatte sull'attrezzo corrispondono alle nostre "oche"; chi perde, paga...
Non solo; proprio il gioco in sè, ossia il lancio del "coinchon" a imitazione del lancio della "dame" da parte del primo partecipante alla competizione, con regole fisse (tenere il piede sulla "marco" , dire al momento del lancio una determinata frase, indicare il giocatore successivo...), se si allontana dalla "crino", è però simile ad antichi e rustici giochi valligiani che, già entrati nell'attività ludica infantile fin dai primi decenni del nostro secolo, io stesso ebbi ancora modo di veder fare da fanciullo senza nulla sapere, allora, del "coinchon" savoiardo.
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