Che io sappia, eccetto le argute councherella d'aprê sine del nostro Remigio Bermond (in «Pancouta e broussée» Escolo dòu Po, n. 7, 1971, Paltrinieri Novara), nessuno ha mai pensato di raccogliere tutti gli aneddoti fioriti sul Dzouvent, l'allegra compagnia della gioventù pragelatese d'un tempo che in fatto di feste, di scherzi e di storielle la sapeva lunga; le vecchie storie dei giovani delle Gròndza, i «corvi», che andavano a mangiare le calhetta in casa delle ragazze, lâz oulivetta, di Allevé, così come ricorda la filastrocca: lâz oulivetta - fon lâ calhetta - e lou courbô - von lâ malhô; le fecezie e le storielle sulle bestie da soma di La Ruà; sull'astuzia, sull'arte di arrangiarsi e del saper fare e, bonariamente, sull'ipocrisia dei pragelatesi: faous coumà 'n prajelenc, ancora si dice nella media e bassa Valle; e sulla dura esistenza dei montanari che seminavano ad agosto per raccogliere a settembre, ma nel mese di settembre dell'anno dopo: cattre mée d'enfern e euch d'uvern, quattro mesi d'inferno e otto d'inverno, sentenziavano i nostri Vecchi.
Così come nessuno mai, poiché «La-z-istoria ëd barboun Giuanin» (racconti tratti dalla tradizione popolare della Val Chisone, Fenestrelle, 1972, Tip.Ferrando, Torino) sono frutto della viva fantasia di Andrea Vignetta senza però avere richiami diretti alla vita fenestrellese, difatti potrebbero riferirsi indifferentemente a personaggi di Meano o di Prali; nessuno, ripeto, ha ritenuto opportuno raccogliere tutti gli aneddoti, e sono tanti, sulla «società dei François», alla quale poteva fare parte soltanto chi avesse subito con spirito una grave beffa o avesse detto una grossa menzogna.
Sorta per iniziativa del notaio Martin di Villaretto e sviluppatasi a Roure ed a Fenestrelle (tra gli allegri compari è doveroso ricordare il buon dottore Tessore, un vero missionario della Valle, e il pretore Malinverni), la «società» è tutta una miniera di storie umane, di scherzi e di beffe: tra l'altro ai François si deve il nome di Port-Arthur alla località d'ingresso al paese. Cirillo Gay ha ricordato qualche
«momento» su «La Valaddo», ma una attenta ricerca sull'argomento potrebbe senz'altro riservare molte sorprese e il rag.Gay, anche per avere vissuto giovanissimo tali fatti, potrebbe esserne il narratore ideale.
E sempre per rimanere a Fenestrelle, perché non raccogliere le storie «campanilistiche» tra i fenestrellesi e gli abitanti di Usseaux: curiose, bizzarre, allegre, talvolta drammatiche; o le vecchie ed oscure storie del forte centenario e dei disciplinot, i soldati appartenenti alla compagnia di disciplina là di stanza nel secolo scorso e nei primi del Novecento, di cui ancora parlava mia madre per averle ascoltate da ragazza al ginnasio di Fenestrelle.
È, come si vede, una «riscoperta» continua del nostro mondo valligiano, che, purtroppo, mancando una documentazione scritta, è destinata a morire.
Anche a Roure i François fecero rumore, a Villaretto ed a Charjaou in particolare, ma nessuno più lo ricorda; così come nessuno ha mai raccolto le storie drammatiche e di violenta ribellione dei giovani disertori dal servizio militare, che. estratto il numerò attraverso le liste di proscrizione dei Savoia, dalla val Sangone e talvolta anche dalla bassa valle di Susa si davano alla macchia nelle miande della Pìtoniero e del Pra dâ Col di Gran Faetto in attesa di potere espatriare oltr'Alpe; quelle altrettanto umane dei primi minatori di talco della Roussa, degli scioperi dei trasportatori della peiro blanco dalle cave a Balma con le slitte, dell'ardita costruzione in tralicci di legno del Cavalet 'd Trento (alto 30 metri) per la prima teleferica; le altre, tante, ridanciane e bonarie, talvolta commoventi sulle vicende dei Pass(ë)col valsegusini, dei Javënins, i pastori e i commercianti di bestiame di Forno, di Coazze e di Giaveno che a Gran Faetto, nei loro passaggi da valle a valle, erano di casa; sulle avventure del Plen e delle Plenche valchisonesi, pastori e mandriani abusivi sul versante segusino. Gli sconfinamenti per pascolo erano difatti frequenti nei tempi andati: i valchisonesi si spingevano con la greggia e con le mandrie, al di là dello spartiacque, a Selery e oltre nell'alta val Sangone, verso gli alpeggi dell'Orsiera di Mattie e il Cret Brunin di Meana in val di Susa, lasciando spesso a custodia del bestiame una donna giovane, la plencha:
«Oh! No, no, saran pa
les beaux garçons de Meana
che veniran larghé
su sta bela muntagna!»
Così si vuole che cantasse la giovane pastora in un miscuglio di francese e di italo-piemontese, bonariamente, per difendersi dai giustificati interventi di protesta dei montanari della valle di Susa (Cfr.E.Patria - W. Odiardi: «Mediana», tip. Melli, Borgone di Susa, 1978): e i «piemontesi» non osavano infierire contro di lei.
Così come sarebbe opportuno raccogliere le storie sugli aspri contrasti tra davalins e damountins: i balmarins, ad esempio, e purtroppo se ne faceva sovente un sol fascio, fino ai primi decenni del Novecento erano un po' le «pecore segnate» dei feioulins, i quali avevano motteggi ed aneddoti beffardamente ironici per quelli «da valle», dimostrando nei loro confronti anche una aperta presa di posizione campanilistica sempre sostenuta da una presunta o reale consapevolezza di superiorità culturale; sui soursiés da Sere: da ragazzino nelle mie scorribande nelle borgate vicine con i coetanei feioulins evitavo di proposito il Serre di Villaretto, e un perché c'era: le storie fantastiche su questi strani esseri dotati di facoltà soprannaturali provocavano in noi paura e sgomento: orbene, anche queste storie si sono perse con il dopoguerra, quando venne meno la vëlhô.
D'altra parte sono molti i racconti, caustici e beffardi, e le facezie, quasi d'obbligo un tempo nelle veglie invernali di montanari della media e alta valle Chisone, sugli abitanti di Bourset, sul rustico amore alla boursëtino, sulla loro triste realtà quotidiana in un vallone inospitale e selvaggio, sulla loro povertà di vita: A la feto dë Bourset-lë dou dë julhet-lou Boursëtins dësendan abou un sâc dë fourchetta e caseu-e soun ventre plen dë lait creu, ossia: per la festa di Bourset, il 2 di luglio, i Boursëtins discendono con un sacco pieno di forchette e di mestoli, ma con il ventre pieno di latticello. E qui il mio invito è rivolto a Cirillo Gay, ancora una volta, e all'amico Ugo Piton, i quali, vicini ai vari Talmon o Charriet, ormai tutti discesi a valle, potrebbero avere la memoria delle antiche storie prima che sia troppo tardi.
Così come vorrei ancora ricordare le storielle sapide e un poco cattive che si raccontavano sugli «uomini selvatici», ombrosi e tristi del Selvaggio, le stesse che intesi, fanciullo, da un tipico e vecchio ambulante che saliva, con la gerla a spalle, a vendere i suoi aspri cale(t)s al Gran Faetto; o sugli abitanti del Meano: sul loro vino, che la vent(o) 'l beoure 'n trê, ossia: uno beve e due lo sostengono, tanto è aspro; sulle loro fattucchiere e sui loro setmins naturalmente soursies e mediconi, e, soprattutto, sul gozzo che, secondo l'antica tradizione, «tutti» i mianench avevano, non per niente erano detti lou gouitrou dâ Mian: gli aneddoti amaramente ironici e cattivi sui peirouzins, sulle miniere di «argento» della Boucardo, sul mercato settimanale e soprattutto sul «loro» concetto della giustizia, così come un tempo si vuole venisse amministrata a Perosa: è noto il richiamo alla vacca munta dal giudice e dall'avvocato a tutto scapito dei poveri montanari parti in causa.
Spunti narrativi destinati all'oblio, che pure dovrebbero godere dell'interesse folclorico e che mi auguro possano essere motivo di un'indagine narrativa, sono anche i racconti e le storie vive ed originali proprie della Val Germanasca. Nonostante i brevi e saltuari interventi su alcuni periodici di Maria Bonnet e di Silvio Pons, di Osvaldo Peyran e soprattutto di Teofilo G. Pons, manca tuttora un'opera organica di raccolta: anche Arturo Genre ha avuto modo di annotarlo.
Mi riferisco alle storie sulla dolorosa vita dei minatori del Saplatè o dei cavatori di pietre della Majera; alle storie burlesche e canzonatorie talvolta boccaccesche che circolavano a decine nella Valle, «occasionate da fatti reali, scherzi, beffe più o meno deformati»: ai racconti che ancora si possono ascoltare dalla bocca delle persone anziane sugli antichi e crudeli nostri castellani; alle tristi vicende, storiche e/o storico-romanzate, delle persecuzioni religiose; alle belle storie fiorite sulle università delle capre; alle avventurose imprese di contrabbandieri in lotta con le avversità del tempo e dei luoghi e con i douanìe; alle storie sul contrabbando del sale al tempo della Serenissima Repubblica di Perrero: alle amare vicende di preti indegni o di valdesi rinnegati; ai gustosi, ma talvolta dolorosi, aneddoti sul gretto antagonismo campanilistico di questa o di quell'altra borgata; sui margari che salivano al Laouzoun o sugli stagnari ambulanti da paese a paese.
E perché non ricordare la facete storie raccontate a Chiabrano o a Pomaretto sui festini e su bevute «storiche», sulla bontà dei vini Ramiers e Ricopauso, sull'uva bianca della Valle, di cui 's la donno sabìo la vërtu d'l'oùo blancho -i n'ën chavarìo fin la planto, ossia: se la donna conoscesse la virtù dell'uva bianca, ne caverebbe persin la pianta; sui soursies di Pomaretto; i bonari aneddoti sulla dabbenaggine e sull'avarizia degli abitanti di Massello: Lh'aze d'Masèel î chariën lou vin e beuvën l'aigo (gli asini di Massello portano vino, ma bevono acqua); su quelli di Maniglia, che di notte ascoltano i latrati dei carni di Bourset, non potendo dormire a causa della cena troppo parca: ouvì japà lâ vesa dë Bourset; gli aneddoti che ancora si raccontano a Riclaretto od a Massello sulla bouticco o përtur clavà, sulla crino-cavilholo di San Martino, antichi e popolari giuochi che si effettuano all'aperto.
Così come sarebbe interessante una lettura delle storie che ancora si potevano ascoltare nel 1948 sui pecorai e sui caprai del Gran Dubbione e sui freschi toumin del Talucco, stranamente fatti con il latte degli ovini e dei caprini al pascolo nel vallone del Dubbione; le storielle sui poveri carbonai del Tagliaretto e del Gran Dubbione; sui soursiés di Pomeano e sui tristi e contrastati amori tra i cattolici di Feugiorno e di Faetto e le valdesi di La Ruà, e, sempre nel vallone di Pramollo, tra i giovani dei Pellenc e le ragazze di Pomeano «tutte» in odore di streghe.
Non solo: motivi di richiamo letterario potrebbero essere le vecchie avventure e le burle subite da cacciatori spacconi: nell'alta Valle era tipica la figura di don Berger, cacciatore incallito, ma burbero ed amato vicario del Laux, che ha dato motivo a curiosi e numerosi aneddoti; o di pescatori sbruffoni del fondovalle che giuravano di pescare trote gigantesche nelle acque gelide dei laghi della Motta o della Manica; le sapide storie che si raccontavano su alcuni parroci valligiani, poveri sì ma ospitali sempre e spesso da dotati di un non comune spirito caustico, faceto e ribelle. E poiché sono in argomento, le querelles, le controversie aspre e pungenti che spesso sfociavano in burle reciproche audaci e rumorose, spesso coram populo, tra sindaci e parroci; così come le avventure sentimentali di giovani preti, poveri «cuori solitari» in sperdute borgate della Valle, ebbero sempre nei racconti delle veglie una loro forma originale di scandita e sorridente ironia, in cui lo schema tradizionale della «beffa al galante» «veniva trasportato nel contesto più preciso della satira contro i religiosi»,
pur restando in chiave di scherzo bonario.
Né un tempo facevano difetto i racconti sui valligiani latitanti alla legge, dediti, ai margini della società, ad azioni di brigantaggio; le pietose storie di tanti nostri emigranti, stagionali o temporanei, in terra d'oltr'alpe con le loro tristi avventure attraverso colli impervi e una natura ostile, per evitare i posti di confine e per ritrovare la forza di vivere: un vero cammino della speranza, la descrizione di poveri paesi desolati da nevicate abbondanti e da valanghe rovinose, da siccità o da piogge insistenti in un contesto culturale ormai lontano, con situazioni, vicende e personaggi che si richiamano alle cronache romanzate; i temi e le motivazioni di denunce e di controversie per il possesso di un pascolo, di una sorgente, per una boino di proprietà illecitamente rimossa; la vita di strati tribali che si presentavano come casta a se stante, spesso chiusa e privilegiata e, di conseguenza, i conflitti sovente aspri fra la classe dominante ed una società subalterna.
E potrei continuare. Ora, proprio questi racconti, questi aneddoti, come i diari, i souvenirs, le ricordanze, già ebbi modo di scriverlo altrove, potrebbero porsi non soltanto come fatti letterari, ma come «naturale» trait-d'union tra il fenomeno demologico ed il contesto economico e socio-culturale in cui quel dato fenomeno viveva, permettendoci di avere una visione etno-antropologica a livello teorico e soprattutto a livello di ricerca sul luogo stesso dell'indagine.
Partendo da tale presupposto potremmo quindi avere una conoscenza dei diversi aspetti, forme e livelli dei conflitti, dei rapporti con le istituzioni e con le diverse classi sociali sul piano familiare e parentale, socio economico e politico, di norme ideologiche e dì comportamento, di morale ufficiale e di morale del costume, di culture differenti, poiché nell'ambito di ogni società (e quindi anche della nostra) erano operanti diverse subculture connesse alla stratificazione sociale.
E con la testimonianza scritta potremmo anche parlare di letteratura valligiana.
(N.d.R.) - Questo articolo é stato scritto prima della pubblicazione del secondo volume di «Vita montanara...» di T.S. Pons, opera che colma molte lacune della narrativa della Val Germanasca e che, per la ricchezza di spunti culturali, rientra degnamente nel patrimonio linguistico ed etnografico delle nostre valli.
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