Della serie tv sulla piattaforma Netflix parlano abbondantemente i giornali e la rete. Pare sia un successo. Eppure… Cominciamo dal cognome di Lidia, nata nel 1855 in borgata Traverse de Lo Prie (Perrero), val Germanasca, o San Martin se preferite, in una famiglia valdese di economia abbiente e per quel che ci risulta praticante. Lei, particolarmente dotata negli studi, con scuole frequentate a Ginevra e Losanna. Si presume che, dati i tempi, parlasse francese in famiglia, l’italiano e forse l’occitano, o per lo meno che il patois lo capisse (il patois occitano, come amano definirlo i nostri connazionali valdesi, benché patois significhi “parlare con i piedi”, quindi abbia una connotazione spregiativa). Altre notizie biografiche: fratello avvocato con studio a Pinerolo, Lidia si iscrive contro la volontà paterna alla Facoltà di legge dell’Università di Torino. Si laurea nel 1881 con una tesi sulla condizione della donna nella società, in particolare sulla questione del voto femminile a quel tempo negato. E’ la prima donna in Italia a laurearsi in giurisprudenza. Supera gli esami per diventare procuratore generale e chiede l’iscrizione all’albo degli avvocati. L’Ordine degli avvocati di Torino si spacca ma viene ammessa a maggioranza. Decisione impugnata dal procuratore del Re presso la corte di Appello, che adducendo motivi legali dovuti a mancanza di norme sull’esercizio della professione da parte del sesso femminile, blocca tutto. Lidia, nel suo lungo percorso di vita e professionale, conosce Victor Hugo, Paul Verlaine, De Amicis, Lombroso. Probabilmente si nutre di idee socialiste. Sceglie la difesa degli emarginati. Partecipa come delegata a vari congressi internazionali sul regime carcerario, sulla difesa in tribunale dei minori… Sono notizie che traggo dalla rete e che il lettore interessato potrà approfondire.
Il cognome dicevo: nella serie televisiva Poët, è diventato Pòet, pare, così è stato detto nella conferenza stampa di presentazione del film, “per rendere il cognome più pronunciabile e la serie più fruibile”. Vabbé, con l’invasione scioccamente provinciale di parole anglofone che impazza in Italia, questa proprio non me l’aspettavo. Che un nome dalla sonorità vagamente francese potesse distogliere pubblico alla serie! Di questo passo che ne facciamo del celebre investigatore Hercules Poirot? Forse un Puarotto? Naturalmente nella serie, che pur dice di rifarsi a un personaggio storico (senza volerne fare “una ricostruzione storica”: scelta più che mai legittima e condivisibile) delle origini valdesi, quindi protestanti, di Lidia, che – non posso non crederlo – avranno influito sulle sue scelte etico-morali, NON SI FA CENNO. E qui mi dispiace rilevare l’atteggiamento della comunità valdese che, per lo meno in un primo tempo, non ha espresso sconcerto, bensì un quasi assolutorio “l’importante è che se ne parli”..
Che dire? Ogni autore è libero nelle sue scelte, benché io non riesca a non trovare in queste scelte qualcosa di strano, di immotivato, di culturalmente limitato. Della vita privata di Lidia così come appare nella serie su Netflix, si conferma che la nostra prima “avvocata” era una donna libera, energica e combattiva. Ma come? Mostrandola fin dalla prima inquadratura, nuda, fare l’amore in posizione dominante? Era davvero necessario per sottolineare che era una donna – scusate la volgarità – che non si faceva mettere sotto? I nudi si sprecano pure nella seconda puntata. Non ce l’ho fatta a veder le altre… Non sono bacchettone, considero il corpo della donna la prova della perfezione della creazione di Dio. In un film va mostrato dove veramente serve mostrarlo, per lo meno a me pare. Non mi pronuncio sulle storie di sangue che la brava Lidia, novella Signora in giallo, risolve a ogni puntata, sostituendosi al fratello un po’ tonto. Certamente non memorabili. Chiedo invece ragione di alcuni dettagli. A fine Ottocento a Torino (o a Pinerolo, dove in realtà Lidia esercitò la professione) si beveva whiskj o vermouth e cognac? Le donne “libere” come Lidia usavano intercalare i discorsi con la parola cazzo?
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