«Difendere tutte le specie linguistiche, oggi che la loro sopravvivenza è minacciata, è un compito ecologico, e dunque politico, del traduttore. Ogni lingua sembra attendere il transito in una nuova lingua per potersi rinnovare … (A. Prete, All’ombra dell’altra lingua, pp. 12-13).
Nel 2015, il fortunato incontro con Fausta Garavini, importante per più di una ragione, valse a curvare i miei interessi circa i conflitti storici tra lingue egemoni e lingue subalterne verso le sorti dell’occitano (si vedano gli Atti de L’Europa romanza, «Lengas» 79/ 2016). L’occitano contemporaneo, quella terra di nessuno cui la Filologia romanza, almeno in Italia, destina interessi scarsi e distratti. Presto ne nacque a Ferrara un insegnamento accademico, un convegno internazionale (2018) e un libro (Viaggio in Occitania, Virtuosa-mente, 2019). Escono oggi nella Biblioteca di Carte Romanze gli Atti di quel convegno ferrarese dal titolo «E nadi contra suberna». Essere “trovatori” oggi. Gli studiosi, italiani e occitani, hanno potuto scegliere liberamente la lingua in cui redigere i loro saggi: italiano, occitano, francese. Molti di loro, occitani di origini italiane, hanno deciso di omaggiare la nostra lingua per questa occasione. I contributi vertono in larga parte sulla letteratura occitanica post-mistraliana sino ad oggi. Gli autori presi in esame comprendono dunque Frédéric Mistral, Joseph d’Arbaud, Max-Philippe Delavouët, Max Rouquette, Marcela Delpastre, Joan-Luc Sauvaigo, fino a Joan Ganhaire (autori misconosciuti anche in Francia), e i poeti occitani Sergio Arneodo, Antonio Bodrero, Piero Raina e Claudio Salvagno (stessa sorte in Italia).
Roland Pécout, poeta e scrittore, ci ha regalato un ampio saggio su quell’autentico capolavoro che è Il Poema del Rodano (1897): « L’ancienne batellerie, dont Mistral met en scène le dernier voyage, nous est devenue aussi lointaine que les aventures d’Ulysse, et les navigateurs du Caburle, aussi mythiques que ceux des anciennes épopées».
Amore per il Rodano, la Camargue e venerazione per il maestro, Mistral, che furono alla base dell’esperienza letteraria – questa volta esercitata sulla prosa – di Joseph d’Arbaud (1874-1950) nel bellissimo La Bèstio dóu Vacarés (1926). Grande e suggestivo romanzo panico -- di cui ancora si lamenta la mancanza di una traduzione italiana -- che celebra il ritorno del ‘Signore degli animali’ nella terra incantata dei cavalli e dei tori. Sul difficile processo di riconoscimento dell’Altro pagano da parte di un gardian, stati d’animo che dall’orrore approdano alla fratellanza, si indaga nella relazione di chi scrive (Università di Ferrara). Da Mistral prende le mosse anche l’opera poetica di Mas-Felipe Delavouët; come Estelle Ceccarini (Aix-Marseille Université, CAER, Aix-en-Provence) constata amaramente in apertura del suo saggio: «La poesia di Mas-Felipe Delavouët (1920-1990) è ignota a molti anche in Francia, sicuramente in gran parte perché scritta in provenzale, idioma disprezzato in quanto “lingua regionale”». Opera immensa che affonda le sue radici in quella terra che il poeta arò tutta la vita, ma che s’innalza ad una meditazione universale. Su questo autore grande e misterioso, tra i suoi versi scanditi dal lavoro dei campi, ma « dove Delavouët convoca di volta in volta Piero della Francesca e Cézanne, Beethoven e Mozart, Shakespeare e Mistral, d’Arbaud e Mallarmé», Estelle ha scavato la figura del Principe e della sua musa-regina. D’altro canto, su una sua via crucis suggestiva, adattata al mondo dei mandriani in Camargue «che venne recitata per la prima volta, strofa dopo strofa, in ciascuna stazione, lungo un sentiero del tragitto di tredici chilometri che percorsero processionalmente i gardians a cavallo», in occasione del venerdì santo del 1979, ha relazionato Giacomo Pavan (oggi docente di Scuola Superiore), già studioso di un Camin de la Crous più dottrinale dello stesso Delavouët. Come nel caso di Mistral per l’Ottocento, non potevamo ignorare Max Rouquette (1908-2005), uno dei più grandi scrittori del Novecento occitano. Alla sua condizione esistenziale di stare al mondo, vivendo “anche” (ma non esclusivamente) il suo attaccamento alla terra natale, al suo Verd Paradís, ci ha accompagnato lo studioso più solido di questa letteratura, nonché poeta e scrittore, Jean-Yves Casanova ("Université de Pau e PLH-ELH Université Toulouse-Jean Jaurès), osservando di «non considerare questo paesaggio mediterraneo alla stregua del pittoresco, perché il fatum ordinato attorno a questo mondo, terra, uomini e bestie, appare terribile: questo Verd Paradís non è in alcun modo un locus amoenus, né Paradiso, né verde, né sicuro». Coetanea di Delavouët, e come tutti gli altri autori legatissima alla sua terra di cui fu poetessa ed etnologa, è Marcela Delpastre (1925-1998), la voce femminile più alta della letteratura occitanica. Se n’è fatta ambasciatrice a Ferrara Joëlle Ginestet (ELH-PLH Universitat Tolosa-Joan Jaurés). L’imponente produzione della Delpastre costituisce una sorta di Libro della Natura compendiata nei saperi rurali della sua piccola comunità limosina. Ma, come per Delavouët, l’arte della scrittura e la religione della Natura nobilitano e trasfigurano questa pura matrice: «Femna dels camps e de l’ostal o de l’estable, sa reflexion se virava cap a l’interioritat e a la question de la memòria. E aquela reflexion l’aprigondiguèt amb Jan dau Melhau e los collègas de Lemouzi o del Leberaubre tot en abordant l’escritura de novèlas, de dramas poëtics e tot en trobant puèi sa votz amb de poèmas-psaumes en lemosin (Saumes Pagans et Paraulas per questa terra), en francés o bilingües».
E di frontiere, di confini smarginati dalla storia (la Nizza di Pepin Garibaldi) e di difficili appartenenze parla l’opera di Joan-Luc Sauvaigo (1950-), una figura singolare, poliedrica e refrattaria a qualsiasi etichetta, ma emblematica di uno stato, quello dello scrittore nizzardo, ancora più isolato in un non-luogo dagli incerti confini, anche quelli identitari: «lo mieu nom es Degun, alias Degun, «s’es debanat tant vito e m’a ‘scapat lo mieu nom». Ci introduce alla sua opera e al suo pantais Olivier Pasquetti (Université Côte d’Azur).
Per i nostri Atti ferraresi, sulla lingua dei poeti delle Valli occitane del Piemonte, Sergio Arneodo, Antonio Bodrero, Piero Raina e Claudio Salvagno ci regala un denso contributo Matteo Rivoira (Università di Torino). Ed è occasione per noi tutti di ricordare Salvagno, che ci ha lasciato nel giugno scorso, con le sue parole poetiche estratte dal saggio di Rivoira: «Ma quarquebòt, quarcòsa nos junh, / un lenh da tramerar ensem, ‘na caissa da portar, / alora mai quarcòsa se balança, / es lo braç dal temp que tròba encara un pontalh / dins la charn, ‘na caire que ten / bele que lo gueddo es pus lo mesme», (Salvagno 2013: 31; Lo cotel de Tbilisi). Altra appartenenza problematica quella dei poeti delle Valli (Occitania grande, Piemonte, Italia), sfuggente, in dileguo « di una lingua e di una cultura che da decenni appaiono condannate al silenzio e tuttavia ancora non tacciono».
In questa lingua maudicha, negata a tutti questi scrittori, Joan Ganhaire, tra gli autori più prestigiosi d’Occitania, ha redatto esclusivamente le sue opere letterarie. A Ferrara, nella sua lingua limosina, ci ha parlato della serie da lui ideata del commissario Darnaudguilhem, raffrontandola con quella del Montalbano di Camilleri. E questo è il suo impegno militante per la lingua e la cultura occitana: «Chas Darnaudguilhem, tot se passa en occitan, revenja de l’autor per far viure quela lenga maudicha, mostrant sa vitalitat e sa capacitat de tot dire».
Inutile ribadire che di tutti questi grandi autori occitani ( a parte la recente antologia curata da Fausta Garavini in «Paragone», 2015 e qualche mia traduzione parziale in Viaggio in Occitania) mancano traduzioni italiane. Quindi io, non calcolando le tante difficoltà di questa lingua a noi non familiare, e senza francese a fronte, mi sono arrischiata a duettare con Ganhaire, traducendo uno dei suoi polizieschi, Vautres que m’avetz tuada (Voi che mi avete uccisa), di cui negli Atti do una semplice anteprima. La traduzione integrale, con introduzione e note (e con una nota linguistica di Matteo Rivoira) uscirà presso Virtuosa-mente ( «Testo a fronte») nei primi mesi del 2021. Terzo della serie poliziesca, narra una vicenda toccante di una paziente, vittima di certa classe medica che Ganhaire conosce per professione, e di cui in più occasioni ha denunciato gli abusi, tributando la sua pietà per le sofferenze dei deboli e degli oppressi (si veda per esempio Un tant doç fogier, sui disabili). Misto di macabro e di umorismo, la sua prosa è un chiaroscuro stilistico continuo, croce e delizia di chi si sobbarchi l’onere, ma anche l’infinito onore di diventare la ‘voce italiana’ dell’autore.
Un ringraziamento particolare va ai colleghi Alfonso d’Agostino e Matteo Milani, che con vero senso di amicizia non hanno esitato a darci ospitalità nella loro prestigiosa collana «Biblioteca di Carte Romanze». Grande riconoscenza da parte di noi curatrici degli Atti va a tutti quegli studiosi che in quest’anno difficile anche per la ricerca, a causa della pandemia (perciò ho intitolato la mia Introduzione «Giornale di guerra e di prigionia»), si sono industriati a redigere i loro contributi, rispettando i tempi serrati della consegna.
Gli Atti sono dedicati a Fausta Garavini, senza la cui passione, dottrina e dedizione di una vita questo nostro tributo alla letteratura occitanica novecentesca non sarebbe stato possibile.
Il libro è disponibile a questo link.
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