Gli studi sulla lirica trobadorica sono il fulcro della Filologia romanza in Italia. Dopo il Medioevo, però, cala un disinteresse assoluto per il paese che fu patria dei trovatori, ormai annesso alla corona di Francia. Solo si ridesta, anche in Italia, una certa attenzione per l’opera di Mistral, continuando tuttavia a restare del tutto sconosciuta ai più la poesia e la prosa occitanica del XX e XXI secolo. È pur vero che la poesia del Novecento italiano continua di fatto a guardare a quella lirica delle origini, da Pasolini a Giovanni Giudici (Salutz, 1986), sino a Roberto Rossi Precerutti (da Entrebescar al recente Midons: raccolta di trovatori provenzali, 2010), ma la filologia romanza tributa non troppa attenzione ai poeti occitani delle nostre vallate piemontesi, che da quei poeti provenzali vantano una filiazione più intima (Antonio Bodrero e Claudio Salvagno), o a una poetessa del Friuli quale Ida Vallerugo (Mistral).
Eppure, come hanno ben messo in evidenza Fausta Garavini (Parigi e provincia), Robert Lafont (Le Sud ou l’Autre), e da ultimo Philippe Gardy, L’ombre de l’occitan, questa nobile lingua ha affiancato da presso la produzione di molti romanzieri di lingua francese lungo i secoli sino ad oggi. Ma “ombra” sembra restare il confino obbligato dell’occitano ed infatti compare quale parola-emblema della prima raccolta di Claudio Salvagno (L’empèri de l’ombra).
Questo nostro libro, Viaggio in Occitania, però, non ha l’ambizione di ripercorrere e sagomare ulteriormente la silhouette di queste due alterità, la francese e l’occitana o di ridistribuire luci ed ombre, ma di uscire francamente allo scoperto, facendo conoscere ai lettori italiani l’opera di tre autori occitani attivi nel XX e XXI secolo. Né intende affiliarsi di nuovo a polemiche su nomenclature (provenzale o occitano?) che, fuori di quell’ambito, non credo giovino alla loro causa comune. Infatti ho usato “Occitania” in un’accezione vasta, ovvero quella parte dell’attuale Francia dove ancora si parla la lingua d’òc, indifferentemente da scuole di grafia opposte o forme di purismo residuo.
Dal punto di vista tematico, grande protagonista della letteratura occitanica, a tutt’oggi sconosciuta fuori di Francia, è il paesaggio: quanto agli autori qui antologizzati, la Camargue, il Rodano con il suo delta palustre e la Nouvelle-Aquitaine (Limousin e Périgord), con i suoi boschi ed i sui mille ruscelli. Data questa matrice paesaggistica, varie componenti culturali e antropologiche danno anima a questa letteratura suggestiva e misteriosa: il tema dell’esilio e il ritorno degli dèi pagani (d’Arbaud), già caro all’Ottocento; la versione occitanica della barca dei morti (Delavouët) diffusa nel medioevo anche in area rodaniana; il paganesimo ancestrale delle foreste dominate dai lupi, e la maison hantée del racconto gotico (Ganhaire).
La Bèstio dóu Vacarés (1926) di d’Arbaud evoca l’incontro pieno d’orrore tra un pio gardian di una Camargue medievale ed una sorta di dio Pan, decrepito e languente, che ha trovato l’ultimo rifugio in questa sconfinata landa palustre: lo stagno del Vacarés. Ma la primitiva potenza del fauno sul regno animale (i cavalli indomiti e i tori bradi della Camargue) riaffiorerà in una ridda notturna in cui le mandrie roteano attorno al loro antico signore. Tra il gardian (questa sorta di nuovo centauro, quale cavaliere di distese solitarie) e il semidio dall’ibrida natura, demonizzato dal monoteismo cristiano, si stabilirà una nuova, toccante fratellanza. La storia celebra e insieme compiange il crepuscolo di una terra dominata dagli elementi naturali, con i suoi numi tutelari antichi e moderni, a causa dell’avanzare del progresso.
L’Istòri dóu Rèi mort qu’anavo à la desciso (1961) di Delavouët canta il percorso notturno della nave-feretro di un re alla volta degli Alyscamps, venerato sepolcreto della cristianità, situato presso la città di Arles. Il tono è ieratico e celebra il mistero della regalità terrena che si libera delle spoglie mortali per ambire ad una palingenesi celeste. L’autore conosceva le leggende medievali relative al celebre camposanto tardoantico, riesumate da Mistral, autore a sua volta di un altro grande poema, che è matrice dell’ennesima desciso cantata da Delavouët: Lou Pouèmo dóu Rose (Il Poema del Rodano), capolavoro della fine del XIX secolo. La “storia del re morto che discendeva il fiume” resta un’opera enigmatica e sfuggente. Alla ricerca di affinità, abbiamo riscontrato una consonanza inedita e suggestiva (benché Delavouët - come mi conferma Arlette, sua moglie - non ne conoscesse l’opera) con le poesie di Fernando Pessoa, tra Mensagem, la saga dei primi re del Portogallo, e lo spirito della nota poesia Abdicazione («Corpo ed anima, la regalità / deposi, e alla tranquilla e antica notte / tornai, paesaggio nel morir del giorno»).
Lo darrier daus Lobaterras (1987) di Ganhaire narra la storia di un medioevo sperduto nel minuscolo priorato di Merlanda. Un viluppo di fiere che si dilaniano a vicenda, gruppo marmoreo scolpito su un capitello, ed ecco rievocato l’epos di un annoso conflitto in cui la foresta di Feytaud assiste alle battaglie tra uomini disboscatori e lupi, antichi dominatori di quel luogo ancestrale. Ma le due stirpi conosceranno ibridazioni infauste (il leberon, sospeso dolorosamente tra la natura umana e l’istinto ferino) ed alla fine sarà proprio la damnatio memoriae della Chiesa e il muto impegno della foresta nel riscattare il suo dominio vegetale, a cancellare le tracce di tutto il sangue versato in dissennate guerre.
Lo sendareu daus genebres (2000), ancora di Ganhaire, è un racconto gotico che rievoca con eleganza e fine intelligenza una storia macabra e “fuligginosa” di un rapporto malsano tra un medico ed un giovane, ultimo rampollo di un’aristocrazia putrescente. Lo scenario di quella morte ciclica (cercata dal paziente e dispensata dal medico-sacerdote) è il Grande Bosco, dove tutto inizia all’insegna di una caccia rituale; una maison hantée, abitata dai fantasmi di una nobiltà in declino, è il luogo dove la vicenda trova il suo tragico epilogo.
Ognuno di questi autori ha dunque celebrato, ma anche vissuto pienamente la Natura: d’Arbaud, figlio di un’aristocrazia terriera, abbracciando per otto anni la vita del manadier, allevatore di bestiame in una Camargue aspra e selvaggia. Il secondo, intellettuale coltissimo, scegliendo di vivere da agricoltore nel suo Bayle-Vert, e componendo i suoi versi al ritmo del lavoro diurno. Ganhaire, contagiato da una ruralità (i suoi pazienti di una vita passata nella sua boscosa Dordogne, esercitando la professione di medico di campagna) da cui ha riappreso la lingua occitana e scoperto un tesoro di narrativa popolare.
Tre “notturni” ambientati in una Natura panica che difende misteriosamente le sue antiche leggi e pronuncia i suoi sortilegi; dove la cerva, il cinghiale, le querce, i castagni, i ginepri combattono la loro tacita battaglia contro le ferite inferte alla terra. Il bosco, i pascoli, il grande fiume, le saline e la palude: le terre d’Occitania che la storia ha silenziato e che una letteratura dei “quattro elementi” riprende a sillabare. In quale lingua? L’occitano di oggi, lingua viva ma che parla troppo sommessamente perché il mondo di fuori la distingua. La voce che fu dei trovatori, ma che non ha mai cessato il suo canto. La lettura di d’Arbaud, Delavouët e Ganhaire ci introduce in questo universo letterario inesplorato in Italia, negletto dai traduttori e dalla ricerca. Con questo libro, seppur consapevole di tutti i limiti di una filologa romanza prestata ad un ambito di ricerca non consueto per le sue competenze, intendo offrire un piccolo risarcimento e un’occasione per iniziare a scoprire questo tesoro letterario.
Viaggio in Occitania - Aicurzio, Virtuosa-Mente, 2019 (€ 29,00)
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