Brics: ogni cima vuole più percorsi per essere raggiunta, ogni poesia un carico di esperienze per essere composta e cosi i percorsi in senso materiale e poetico si mescolano attraversando la montagna per salire elevandosi non soltanto d’altitudine ma anche d’attitudine. Brics vuole essere anche un attrezzo utile per connettersi al mondo letterario dell’ occitania francesee per questo si spiega la scelta della grafia normalizzata, un modo per uscire dall’ isolamento territoriale e culturale delle nostre valli.
Presentazione a cura di Matteo Rivoira.
Le poesie di Luca Martin Poetto si inseriscono senza difficoltà nel solco della tradizione letteraria occitana cisalpina. Egli ne riprende i temi e le linee di sviluppo e, tra questi, l’inevitabile evocazione della montagna che è menzionata sin dal titolo: Brics. Estremità superiore di un’opposizione tra l’alto e il basso, tra le cime e la pianura, che innerva e sostanzia la produzione poetica di queste valli, perché è la stessa opposizione che attraversa la loro storia, soprattutto quella più recente. La discesa a valle è vissuta in termini di alienazione, una sorta di trauma collettivo (a osare parole forse eccessive) che idealmente potremmo far risalire al momento in cui le valli, culturalmente e linguisticamente secolarmente rivolte alle terre transalpine, si trovano da queste isolate e rivolte invece verso la pianura e i suoi centri, linguisticamente e culturalmente diversi, come diverse erano le condizioni di vita che offrivano. Una ferita la cui cicatrice rimane e, attraverso le generazioni, si ripropone – sul piano poetico, se non esistenziale – a un giovane che sceglie con riconoscenza la lingua del nonno (Sènher; La velhaa), prima per parlare e poi per creare: Fraire Cluson coma tu / L’es una vita que vauc aval / Sença janmai quitar cèstas montanhas (Fraire Cluson).
La creazione assume, inevitabilmente, toni rivendicativi:
Los autris escapats à cherchar l’America iqui-bas dins la plana: / D’un caire las eitièlas / De l’autre los ribans. / Un puèple sença conciènça D’una tèrra sença puèple (Siuc d’eici). Sioux di qui/sono di qui: identificazione con i vinti della storia, ma al contempo voce che trova nella lingua di questi lo strumento per raccontare un mondo diverso, che potrebbe essere (e forse non sarà mai). Non si illude, tuttavia, Poetto: la lingua da sola non salva dall’alienazione: E la lenga es pas la clau (La ròida); Mistral è lontano (e purtuttavia ancora inevitabilmente sullo sfondo).
Non solo alienazione e racconto mitico di ciò che non è stato, però, ma anche momenti di quiete e di gioia, che aprono – questi sì – alla possibilità di un mondo diverso: lo poaile alumat, / Aic mon vèire plen, / De caire ma vèça duerm ben. / Mon cuer es apaizat (Apaizat).
Sullo sfondo il crinale dei monti, che lungi dall’essere un confine invalicabile, è luogo di passaggio, come lo è il Monginevro in A la Rèina.
È possibile riappropriarsi della propria lingua e di una cultura originale e attraverso questa riappropriazione ricomporre il trauma? Probabilmente no. Non si ricostruisce un passato, che peraltro si vorrebbe emendato dalla povertà, dall’assenza di prospettive e di mobilità sociale. Non si rivitalizza una lingua senza il concorso della comunità nella sua interezza (e forse delle istituzioni). Non torneranno dunque mai le rondini (En agachent las alandras)? La domanda rimane sospesa, ma l’attesa apre alla resistenza: le montagne sono lì e si possono risalire seguendo i sentimenti e cercando nell’eredità ricevuta la sostanza per vivere diversamente il presente.
La lingua diventa allora strumento per narrare poeticamente (e creare) questa possibilità di ritrovare verso l’alto la via di fuga dall’alienazione, e la lingua si salva, a sua volta, trovando sulla pagina scritta uno spazio per esistere. Il nipote-poeta ha fatto fruttare la sua eredità e grazie alla sua creatività il solco della tradizione letteraria si fa più largo e accogliente e questo è un bene per la cultura delle nostre valli.
Matteo Rivoira
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