FILMOGRAFIA PARZIALE
2020 “Bogre – la grande eresia europea”, 200’. Regia.
Prod. Chambra d’Oc - IncandenzaFilm - Lontane Province (girato in Bulgaria, Francia, Italia, Bosnia);
“Volevo nascondermi”, film lungometraggio, soggetto e sceneggiatura con Giorgio Diritti e Tania Pedroni (Nastro d’Argento 2020). Regia Giorgio Diritti, con Elio Germano.
Orso d’argento al festival di Berlino (miglior attore). Premiato al David di Donatello con cinque statuette.
2017 “Non ne parliamo di questa guerra”, 68’
– Regia. Prod. NefertitiFilm / Istituto Luce.
2015 “Più alto delle nuvole / Plus haut que les nuages”,
52’ – Regia.
Prod. Graffitidoc / Les Films du Tambour de Soie.
2013 “Un giorno devi andare”, film lungometraggio,
soggetto e sceneggiatura con Giorgio Diritti.
Regia Giorgio Diritti. Prod. AranciaFilm, Lumière
& Co. Groupe Deux (Sundance Film Festival).
2011
“Sono gli uomini che rendono le terre vive e care”,
30’ – Regia. Prod. Arialpina.
2009 “Medusa storie di uomini sul fondo”, 60’ – Regia.
Prod. Maxman/Arealpina.
2009/10 “Feste storiche italiane”, 52’ – Regia. Serie televisiva
per TV 2000 (nove puntate). Prod. Duea.
2008 “Gli stati del welfare – Gran Bretagna”, 55’
– Regia, Serie televisiva per TV 2000 (due puntate), Prod. Duea.
2007 “Il vento fa il suo giro”, soggetto e sceneggiatura
con Giorgio Diritti. Regia Giorgio Diritti - Prod. AranciaFilm (5 candidature al David di Donatello).
2005 “A est di dove?”, 55’ – Regia. Serie televisiva
per TV 2000 (undici puntate), Prod. Duea ;
“La strada dei capelli”, 20’
– Regia.
rod. Museo dei raccoglitori di capelli, Elva.
2004 “Le stagioni”, 5’ x 5 – Ideazione e Regia.
Video installazione per il Museo della Montagna
di Bard (Valle d’Aosta). Prod. Museo di Bard.
2002 “Novalesa una storia d ́ inverno”, 38’
– Regia. Prod. Provincia di Torino / Pubbliviva.
BOGRE. LA GRANDE ERESIA EUROPEA
di Paolo Bertini
Hell is empty and all the devils are here
L’inferno è vuoto e tutti i diavoli sono qui.
W. Shakespeare, La Tempesta
Sin dalle prime immagini, Bogre abbandona la rassicurante orizzontalità del cammino in avanti, rinuncia da subito ad un narratore onnisciente ed esterno che tende a un fine da raggiungere, sia esso un’idea o una tesi da enunciare. Alla stabilità della linea retta che presuppone il racconto classico, il film preferisce l’apparente immobilità della figura circolare, meglio ancora, preferisce il lento discendere verso il basso della forma a spirale. Per questa ragione Bogre ad un primo livello di lettura racconta la storia di un’eresia medievale sconosciuta ai libri di storia e alla maggior parte delle persone. Più in basso diventa un film politico, soprattutto quando si interroga su come e perchè quel “potere” che, come scrive Danilo Dolci, nella sua natura implica “potenzialità”, “forza”, “virtù”, possa ammalarsi e diventare “dominio”, ovvero sottomissione passiva dell’altro fondata sulla paura. Ancora più a fondo Bogre è un film filosofico: perché la morte? Qual è l’origine del male? Da dove tanta sventura? Perché viviamo? Durante le oltre tre ore di proiezione queste domande accompagnano lo spettatore come una sorta di controcanto sommesso al fluire delle immagini sullo schermo. È però nel punto più profondo e nascosto della spirale che Bogre si trasforma in una preghiera laica, in un rivolgersi al mistero del “sacro” attraverso la compassione, attraverso il “sentire” su di sé tutto il dolore e l’amore per un’umanità da sempre ferita, calpestata e offesa.
Nel viaggio alla ricerca dell’eresia catara servono a poco le suggestive mappe che compaiono lungo il racconto, con quelle macchie rosso sangue a segnare i luoghi delle stragi e dei roghi.
Le trame dei percorsi della Storia sono segnate da sempre sulla pelle degli uomini, su ogni ruga dei nostri corpi, anche se abbiamo disimparato a leggerle e decifrarle.
Non so se il pensiero cataro avesse o meno ragione ad asserire che il corpo fosse solo la tunica di carne che riveste l’anima. A sostenere che il corpo, essendo di natura materiale e non spirituale, traesse la sua origine dal male. Di certo, il corpo è il luogo della nostra identità, la fragile sostanza che coincide con l’io e che contiene tutte le storie; l’unico mezzo in nostro possesso per relazionarci con il mondo.
Per questo Bogre è un film percorso da corpi, a cominciare da quello esile, quasi etereo di Fredo che deve tenersi stretto alle pareti di pietra di uno dei numerosi castelli che visita per evitare di farsi trascinare via dal vento. La sua presenza discreta attraversa tutto il film ed è proprio quella figura assorta, stupita e, a volte, affaticata l’autentica bussola e mappa del viaggio. E poi c’è la presenza di Olivier de Robert, con quella fisicità che lo fa assomigliare a uno dei protagonisti dei film del grande Jean Pierre Melville. Quando Olivier ripete, parlando della figura dell’inquisitore “Il peut tout” e accompagna la frase con un gesto perentorio del braccio e della mano che unisce l’indice e il pollice, un brivido ti percorre la schiena. Tu sei lì davanti all’inquisitore, di fronte a quell’uomo dalla figura triste e, solo allora, comprendi sino in fondo che “Il peut tout”. Poche rappresentazioni della forza annichilente del potere/dominio hanno raggiunto tale efficacia.
Altre presenze attraversano lo schermo, da quella moderna/antica dell’attore Giovanni Lindo Ferretti, ai corpi degli intervistati, fino alle presenze mute della troupe del film. E poi c’è la presenza più importante: quella assente di poveri corpi silenziosi e senza volto portati via dalla Storia e bruciati sui roghi, o nei forni di Auschwitz, corpi negati, cancellati, martoriati. “Il peut tout”.
Se il racconto rinuncia al tempo della linearità narrativa, prende allora il sopravvento la dimensione spaziale. Non solo Bogre è un film di corpi ma è anche un film di luoghi: quelli pubblici delle strade, delle città, dei canali di Venezia o della biblioteca violata di Sarajevo. I luoghi degli spazi aperti, quelli della memoria, quelli della Storia e delle storie; i luoghi intimi e privati delle case, i luoghi dell’anima, quelli della coscienza e della memoria.
Al termine del viaggio, un ultimo luogo aspetta di essere abitato: quello segreto dello sguardo di Fredo: il punto più profondo della spirale, il posto dove tutto inizia e tutto finisce. Quello sguardo formula una domanda silenziosa e, allo stesso tempo, apre ad un bisogno di complicità e di aiuto. Seduto in platea, non ho risposte, non ho parole. Posso solo restare lì in silenzio accanto a Fredo; in due la notte sembra meno buia e, forse, ci si sente meno soli.
Eppure ne sono certo: è proprio nella sincerità di quello sguardo rivolto allo spettatore che nascono il Cinema e tutte le storie del mondo.
LETTERA di Paolo Bertini a Fredo Valla
Presenze
“Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri
che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue, vorresti che l’autore fosse tuo amico per la pelle
e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira.”
J.D. Salinger, Il giovane Holden.
I tuoi film sono te e tu sei i tuoi film. Il tuo corpo, fisicamente presente tra i fotogrammi, è una necessità, un bisogno di mettersi in gioco, di non rimanere nascosto dietro l’obiettivo della macchina da presa. I tuoi film sono te e tu sei i tuoi film. Per chi guarda è l’occasione per contaminarsi, per essere testimone vivo della presenza di un altro da sè e di un altrove mai visto. Per chi guarda è l’opportunità preziosa di fermare, nel continuo e caotico flusso del tempo, un “qui ed ora” che contiene al suo interno il mistero di un incontro.
Assenze
“Prima di formarsi la sua atmosfera e i suoi oceani,
la Terra doveva avere l’aspetto di una palla grigia roteante nello spazio. Come ora è la Luna:
là dove i raggi ultravioletti irradiati dal Sole arrivano
senza schermi, i colori sono distrutti.”
I. Calvino, Le Cosmicomiche
La luce incandescente dello schermo bianco mette a tacere tutte le immagini, sospende il tempo di qualsiasi racconto. Lo schermo bianco rivela quel punto assoluto dove nasce il cinema. Lasciando vagare lo sguardo, se si ha pazienza, si può intravvedere, tra il bianco, un treno che arriva in una stazione. Per contrasto, nell’abisso dello schermo nero tutte le immagini trovano il loro fine, tornano alla loro casa. Nessuna di loro viene abbandonata al proprio destino. È come un grande ultimo abbraccio, più forte di qualsiasi tempo.
Tra gli estremi del nero e del bianco ci sono le infinite variazioni del grigio, spezzate da un’improvvisa screziatura d’azzurro, dove una nuvola leggera cerca di farsi nel suo disfarsi.
Tempo
“In che cosa consiste l’essenza del lavoro dell’autore
di cinema? Convenzionalmente lo possiamo definire una scultura nel tempo. Analogamente a come lo scultore prende un blocco di marmo e, guidato dalla visione interiore della sua futura opera, toglie tutto ciò che è superfluo, così il cineasta dal 'blocco di tempo’ che abbraccia l’enorme
e inarticolata somma dei fatti della vita, taglia fuori e getta via tutto ciò che non serve, lasciando solo ciò che deve divenire un elemento del futuro film.”
A. Tarkovskij, Scolpire il tempo.
Solo lavorando per sottrazione si può ottenere quell’immagine capace di rivelare un frammento di verità nascosto dietro l’apparenza delle cose. Solo nell’atto di annullarsi, di togliere ogni intenzionalità, ogni volontà esplicita di ricercare il bello e il buono è possibile fermare il tempo in un fotogramma. Solo in quell’atto, nel continuo divenire di tutte le cose, si può ritrovare il tempo perduto, il tempo per fermarsi a guardare l’acqua intrecciarsi con gli anelli di una catena, o il gesto di un monaco che toglie, quasi per gioco, un’ape dalla rete che gli protegge il viso. L’immagine, in quell’istante, diventa unica e necessaria, capace di racchiude in sè un riverbero di eternità.
Spazio
“Camminando passano tante idee per la testa,
il cervello ferve.”
W. Herzog, Sentieri nel ghiaccio.
Lo spazio lento del camminare a piedi, con il ritmo dettato dal respiro. Mappe segnate da percorsi disegnati dalle impronte sulla neve, destinate a scomparire, a non lasciare traccia di chi e per dove qualcuno sia passato. Lo spazio di un’inquadratura, ancora bianca e ancora svuotata di tutto; spazio filmico attraversato da una figura scura che si allontana, scomparendo dietro il margine dello schermo. Figura di viaggiatore che lascia il tempo di aspettarla dall’altra parte del bordo. Lo spazio dello sguardo. Quello dei tuoi monaci di Pra d’Mill, nel tuo film “Sono gli uomini che rendono le terre vive e care”. Mai ostentatamente sicuro, ma pieno di dubbi, di insicurezza, perché il cammino della fede è arduo, difficile da decifrare, e, soprattutto, senza approdi sicuri.
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