Ines Cavalcanti: Il secondo volume della traduzione integrale della Bibbia è appena uscito per le edizioni “Letras d’òc”. Joan Roqueta-Larzac ha atteso al suo enorme compito, ciò che Lutero ha fatto per la sua lingua germanica dandole così dignità, o San Girone traducendo l’intera Bibbia in latino, ed ora è stato compiuto per la nostra lingua, come diceva Pèir de Garròs: “per l’onore del paese sostenere e per la sua dignità mantenere”?
Joan Larzac: Sì. Max Roqueta prese la penna “perché non si dica che quel dolce angolo dovesse rimanere muto e l’opera di Dio svanirvi senza apparire agli occhi degli uomini per restare sconosciuto”. È per questo che Ives Roqueta divenne “scrittore publico”. Io invece, perché non si dica che Dio parlava alla pietra nella sua lingua e che non abbia parlato al cuore dei miei fratelli occitani nella loro.
Ines Cavalcanti: Avevi tradotto l’Antico Testamento. Cinque anni di lavoro per cinque ore al giorno. Sarai stato impaziente di darci la traduzione del Nuovo!
Joan Larzac: Soprattutto perché gli occitani come Josèp Deltelh, come i catari, hanno sempre pensato che gli scrittori dell’antica Bibbia avessero mal compreso il messaggio di Dio quando lo vedevano ancora a immagine dell’uomo che sogna di dominare il mondo. Ma dovevano attraversare questo percorso per poter forgiare l’uomo nuovo non padre padrone, ma “misericordioso”, diceva Gesù, come misericordioso è vostro padre. Se leggete le note a piè di pagina dell’Antico Testamento, vedrete che poco a poco si appresta il grande riversamento della violenza e del sacrificio del prossimo al perdono e al sacrificio di se stessi. Le note e le introduzioni del Nuovo Testamento mostrano come l’esperienza d’essere il popolo eletto è il dono che il popolo ebreo offre attraverso Gesù, figlio diletto, a tutte le nazioni.
Ines Cavalcanti: E quanto tempo ti ci è voluto per tradurre il Nuovo Testamento? Dev’essere stato più breve, poiché il testo è meno lungo e tutto in greco.
Joan Larzac: Ci ho messo tre anni, comunque. Non bisogna credere: il greco non è molto più malleabile che l’ebraico. Chiedete al mio editore Joan Eigun, il quale trovava le mie frasi troppo lunghe, come nell’originale, con periodi contorti, soprattutto nelle lettere di San Paolo. Ho dovuto spezzarli almeno un po’. Per i Vangeli, è un’altra cosa. Ci sono più racconti che discorsi, la lingua è più semplice e sotto il greco degli vangelisti si sente l’aramaico parlato da Gesù. Ma sono almeno tre i Vangeli che contengono gli stessi termini, le stesse frasi e per poterli paragonare ho dovuto a lungo verificare che un’espressione non fosse tradotta in Luca o Matteo in modo diverso che in Marco. In genere i traduttori non si fanno tali scrupoli.
Ines Cavalcanti: La tua introduzione mostra come i vangeli sembrano copiarsi, forse perché i primi documenti messi per iscritto sono stati ripresi e ampliati in edizioni successive…
Joan Larzac: In breve, diciamo che tutto San Marco si ritrova in San Luca e San Matteo, ma con cambiamenti nell’ordine della narrazione, dettagli o aggiunte là dove si vede che i testimoni della vita di Gesù hanno voluto ricordare avvenimenti o parole del Maestro che non trovavano nel testo di Marco. Per esempio i detti raccolti in un vade mecum destinato alla predicazione e che Luca e Matteo, ciascun dal canto suo, integrarono nel filo narrativo di Marco. Sono inoltre le diverse situazioni dei discepoli, nell’ambiente rabbinico nel caso di Matteo, in quello pagano per Luca, che portarono a quelle aggiunte o quegli adattamenti, e la mia introduzione mostra com’è possibile leggere la storia delle comunità cristiane primitive attraverso quelle nuove edizioni. Quando le diverse comunità poterono comunicare fra di loro i vangeli, così come si erano costituiti nel loro luogo, avrebbero potuto serbarne soltanto uno, ma preferirono ricopiarli tutti con la stessa devozione.
Ines Cavalcanti: E San Giovanni?
Joan Larzac: In questo Vangelo Gesù ha un modo di parlare che sembra discostarsi da quello adoperato nei “sinottici”, come appare nelle edizioni in “sinopsi” del Nuovo Testamento. Per decidere la mia traduzione, ho iniziato col creare una sinopsi ancora più letterale che la mia traduzione finale. Un giorno la affiderò al CIRDOC, fondato da mio fratello Ives. Tornando a San Giovanni, appare chiaro come l’evangelista consideri Gesù alla stregua di Dio, vedendo in egli la parola di Dio fattasi carne, ciò che i primi discepoli probabilmente percepivano in modo chiaro, ma senza occuparsene esplicitamente. E per Giovanni era il Verbo di Dio che parlava attraverso i detti di Gesù. Tuttavia, integrando il suo testo in una quarta colonna nella mia sinopsi, mi sono accorto che anch’egli riprendeva un filo narrativo e, più sovente di quanto non appaia, detti della tradizione primitiva, ma rielaborati in un ambiente diverso da quello degli altri Vangeli. Il suo testo racconta la storia di una comunità cristiana che da Gerusalemme e la Betania si diffuse in Samaria e fin a Efeso, nella Turchia odierna, e ci fornisce indicazioni e precisioni che solo un testimone del ministero di Gesù si sarebbe premurato di aggiungere. Ma, come si disse, “con lo sguardo dell’aquila”, ossia l’altezza di vista della letteratura colta ebrea praticata nell’ambiente ellenistico.
Ines Cavalcanti: E San Paolo?
Joan Larzac: Ho pubblicato in francese un libro intitolato “San Paolo, in nome dell’unità”. Mi ricordo di averne parlato a lungo con mio fratello quando era stato all’ospedale di Montpéllier. A quel libro, che mi ha preparato moltissimo ad affrontare la traduzione degli Atti degli Apostoli e delle Lettere, mancava una mappa per districarsi nella cronologia delle lettere e del racconto di Luca. Questa volta la mappa ci sarà (ridisegnata apposta in tre giorni dal mio amico architetto Nicolàs Lebunetel, quando già ero disperato di presentarne una che soddisfacesse il mio editore, pignolo sulla qualità) e si potrà comprendere come San Paolo, non volendo imporre ai credenti giunti dal paganesimo le leggi ebraiche, prese il rischio che i cristiani non fossero più riconosciuti come ebrei, il che li privava così della tolleranza che l’Impero accordava agli ebrei, ma in questo modo rifiutò un cristianesimo a due velocità. Da qui la persecuzione.
Ines Cavalcanti: E l’apocalisse?
Joan Larzac: Ci siamo. Esistevano già delle Apocalissi (ossia “rivelazioni”) ebraiche, che sostenevano la fede degli ebrei quando erano perseguitati dagli imperi successivi. Per sostenere la fede dei cristiani quando furono perseguitati dai pagani furono ripresi quegli schemi della letteratura di resistenza. Nell’Apocalisse di Giovanni di possono anche distinguere degli strati, come in una cipolla, che evidenziano edizioni diverse e dunque ci informano sulle tappe della persecuzione, dalla croce di Gesù al martirio di Pietro e Paolo. Ma il lettore avrà difficoltà a distinguere il trionfo finale dell’Agnello su Satana dalla violenza tutta veterotestamentaria contro i persecutori.
Ines Cavalcanti: Se ho capito bene, questo volume è più che una semplice traduzione. Non è un po’ troppo faticosa da leggere?
Joan Larzac: Vedrai. Basta leggere senza preoccuparsi troppo delle note o perfino dei titoli, che sono presenti per aiutare chi vuole approfondire, ma non sono indispensabili. Ci si rifà finalmente all’abitudine degli autori biblici di dare una circolarità all’opera, riprendendo a spirale temi e vocaboli da un passaggio all’altro. Così, invece di sezionare il testo, si legano gli episodi fra di loro e ci si accorge che contesti differenti evidenziano delle simil-contraddizioni.
Ines Cavalcanti: Ho rilevato nel complesso di note che spesso il testo delle versioni medievali del Nuovo Testamento è reso in lingua d’oc – versione “catara” di Lione e in versioni “valdesi” delle nostre valli alpine.
Joan Larzac: È un omaggio agli occitani senza frontiera che, dalla Guascogna alla valle d’Angrogna, mi hanno tracciato il cammino.
La prefazione è di Mons. Pontièr, presidente della Conferenza dei Vescovi di Francia. Ma se gli avevo chiesto una prefazione (nel suo occitano di Cahors) è perché aveva celebrato in Mons. de Mazenod, un santo che lo precedette come vescovo di Marsiglia, il suo amore per la lingua del suo popolo. Ciò per sottolineare l’intento pan-occitano della mia traduzione in occitano centrale. E ho chiesto a Elian Cuvillièr, docente alla facoltà di Teologia Protestante di Montpéllier, la presentazione (nella sua lingua “raiola”) di una traduzione che, benché opera di un prete cattolico, vuol essere ecumenica.
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