Tutte le volte che Enrico si sedeva su quella pietra piatta per vedere da vicini il suo Monviso e il sole che piano piano si coricava giù dietro al colle delle Traversette gli tornavano in mente le ultime parole di suo padre “Enrico, il campo della Tampa de la Fònt è poi tuo”. Suo padre aveva preso a cottimo a tagliare un bosco di faggi, aveva anche assunto uomini, ma quel brutto giorno, quando già avevano fatto il cuneo ad un bel faggio che ci volevano due persone per abbracciarlo ed avevano quasi finito di segarlo con la grossa sega a due manici, chissà per quale cattivo destino, quel faggio invece di cadere a destra era andato a cadere proprio dalla parte di Antonio che, mentre cercava di fuggire era stato colpito da un grosso ramo che gli aveva dato un colpo sulla spina dorsale come una frusta. Di lì Antonio non s’era piu mosso. aveva solamente più avuto il tempo di dire a suo figlio Enrico quelle parole.
Certo, il campo della Tampa de la Fònt era il più bel campo del paese e forse della valle: un campo piano come la mano con in un angolo un ciliegio dritto come una candela e sotto la pietra piatta; lì potevi seminarci patate o segale ed eri sicuro che l’inverno l’avresti passato tranquillo.
Quel campo per diritto sarebbe toccato a Emilio, il fratello maggiore di Enico, ma Antonio sapeva bene che questi non avrebbe saputo che farsene: la sua più importante occupazione era di passare da un’osteria ad un’altra a farsi cuocere il cervello dal vino con quei quattro soldi messi da parte dalla sua famiglia.
E così il campo era di Enrico.
Ma dalla borgata i giovani partivano uno dopo l’altro: patate e segale non bastavano più e così anche il campo fertile aveva iniziato ad essere terreno buono per le ortiche.
Così anche Enrico era arrivato in quella terribile città che ti soffoca con il fumo dei suoi motori ma che con il suo fumo ti da anche qualcosa di più che patate e segale.
Enrico era andato avanti così per anni ed anni accontentandosi di vedere per la maggior parte dell’anno il suo Monviso da lontano e a sognare il suo campo avvolto e soffocato dalle ortiche.
Ma Enrico era un buon operaio, intelligente, e un po’ di carriera l’aveva fatta tanto da permettersi di vedere tutte le settimane la sua montagna da vicino e sedersi sulla sua pietra piatta al fondo del campo all’ombra del ciliegio.
Ma non era più come una volta, quel giovane era cambiato, si diceva nella borgata, parlava poco, era sempre solo e qualcuno giurava d’averlo sentito urlare mentre correva tra i prati di notte.
Si, si sentiva soffocato dal vuoto che lo circondava ma ancora di più dal vuoto che gli cresceva dentro come uno di quei mali che ti succhiano tutto dal tuo corpo per farsi sempre più forti e potenti.
Un mattino d’autunno quando quella nebbiolina già fredda ti penetra nelle ossa, Giacomo, cugino primo di Enrico, saliva a testa bassa per il sentiero della Balma de la Fònt per rastrellare qualche lenzuolata di foglie secche per le sue quattro mucche ma arrivato alla Tampa ci mancava poco che prendesse un colpo: una scarpa gli aveva buttato a terra il cappello dalla testa, era la scarpa di Enrico che col suo volto livido pendeva da un ramo del ciliegio diritto come una candela.
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