Luogo dell’intervista: Susa

Luogo di cui si tratta nell’intervista: Gravere

Intervistatori: Insegnante Morello Silvana in Bussolotti e alunni della classe V

Intervistati:

  • Morello Edoardo nato a Gravere il 5-8-1917. Residente a Susa, residente a Gravere per 40 anni, pensionato (meccanico AEM); nel tempo libero coltivatore diretto e artigiano.

  • Morello Luigi nato a Gravere il 20-1-1919. Residente a Susa, residente per 38 anni a Gravere, pensionato (ferroviere); nel tempo libero coltivatore diretto e artigiano.

  • ..fratelli, pur residenti a Susa hanno continuato i lavori di campagna a Gravere. Hanno vissuto fino al 1931 con l’anziano nonno che ha insegnato loro i giochi e le attività manuali appresi in età giovanile, quindi tramandati dallo scorso secolo.

L’infanzia e la fanciullezza nelle comunità alpine dei tempi passati: le attività ludiche e di lavoro del fanciullo e della fanciulla e la loro partecipazione alle festività.

Nei paesi, un tempo, i bambini erano più liberi dei bambini di oggi. Essi si divertivano scorazzando per strade e campi. Si sentivano liberi e padroni dell’universo, imparando a scoprire nuovi misteri a contatto con la natura e i propri simili. Erano quasi “protetti” da tutti gli adulti del paese. Questi infatti se era necessario, rimproveravano o ammonivano i bambini.

Li méinàa” quindi vivevano quasi sotto la guida di tutti gli anziani. Sapevano rispettare e godere delle piccole cose che avevano a disposizione; non avevano tanti divertimenti come i bambini di oggi, ma la loro vita si svolgeva serena, giocando con gli amici o imparando a lavorare con gli adulti, per passatempo, acquistando anche abilità manuali che li avrebbero aiutati a rendersi sicuri di sé e indipendenti.

I bambini, sia maschi che femmine, giocavano quasi sempre insieme; pochi giochi erano prevalentemente femminili, come giocare alle bambole o a vendere , " a la poune o a vendre”, oppure maschili come “cevilha, ciaretta, arbro fourciu” o costruirsi “cicacelh, s-ciop e sublèt”.

Erano gruppi di bambini che insieme, i più piccoli sotto la guida dei più grandicelli, fanciulli e fanciulle, giocavano o lavoravano. Se qualcuno piangeva o aveva paura per qualche cosa, veniva per u momento consolato, ma poi, se continuava, veniva deriso con un “Ciu-ciula, ciu-ciula”, mentre i compagni fregavano insieme gli indici. Il maschietto era chiamato “pus” e la bambina “pussa”. Così la paura o il dolore, “la pour o lou mal”, passavano in fretta. Se un corpuscolo entrava in un occhio era pronta la formula per farlo uscire:

Borda à l’ouelh, borda au prà. La Madona pacò pasà, ma corra paserat, la borda s-nalherat” – “Corpuscolo nell’occhio, corpuscolo nel prato, la Madonna non è ancora passata, ma quando passerà, il corpuscolo se ne andrà”.

Anche per ritrovare oggetti smarriti si usava una formula convenzionale:“Sant’Antonio plein de vertu fa trouvée senque l’ei perdu”.

Bambini e adulti avevano molte occasioni per stare insieme. Gli adulti seguivano con interesse i progressi infantili anche quelli scolastici e partecipavano volentieri con “li méinàa” anche alle feste.

I BAMBINI E LE FESTE

Le feste non religiose a cui partecipavano i bambini in età scolare, erano: la festa degli alberi e la festa dei fiori. Alla festa degli alberi, in primavera, allo scioglimento delle nevi, i bambini con l’insegnante, “lou magistre”, il parroco “lou préire”, il Podestà e la guardia comunale, “lou ciampìe” si recavano su di una proprietà comunale o privata. Scavavano da soli, la buca nel terreno e vi sistemavano l’albero, “la plànta”: un larice, o un pino o un abete, “blétoun, pin o sap”, schiacciando, con i piedi, le zolle. Al termine il parroco impartiva la benedizione.

Alla festa dei fiori, i bambini raccoglievano grandi mazzi di fiori, “bouquet de flou”, nei prati. Erano prevalentemente narcisi, “le pantecoute”; i prati di Gravere erano coperti di questi profumatissimi fiori. Nel piazzale del Municipio e delle Scuole veniva collocato un palco. A scuola si preparavano canti, poesie, teatrini, che, alla festa, avrebbero allietato gli intervenuti. Al termine della manifestazione i bambini offrivano i fiori ai presenti, sempre molto numerosi.

Tra le festività religiose, molto attesa, era la festa della patrona del paese, Santa Barbara, al 4 Dicembre. A Santa Barbara, i bambini erano felici perché si faceva festa in casa, con parenti ed amici provenienti anche da altri paesi. A messa, poi, c’erano anche la banda musicale, le due priore e due uomini che portavano i “ram”. “Li ram” erano formati da bastoni legati a piramide, alti circa tre metri con due intelaiature a croce, interne. Ad essi si legavano fiori e grappoli d’uva finti, nastri e palline multicolori. I pompieri, “li poumpista” portavano in processione la statua della Santa attorno alla chiesa e, assieme agli altri fedeli, partecipava anche la scolaresca al completo. Purtroppo si è persa la consuetudine di portare i “ram” e di far intervenire la banda musicale. L’ultima volta in cui sono apparsi “li ram” fu circa 67 anni fa; gli intervistati avevano 6 e 8 anni circa.

A Natale, “Cialendre” i bambini attendevano Gesù Bambino, “llou Bambin”; lucidavano ben bene gli zoccoli, “le soce”, e li sistemavano accanto al cuscino. Gesù Bambino passava a deporre qualche nuovo indumento, “le ghicce o le robe nueve”, o fichi secchi “fié sëcce”, arance, “pourtigal” e arachidi “le pistace”. I bambini si svegliavano presto ed erano felici per i doni. Non sempre si recavano alla Messa di mezzanotte soprattutto i più piccoli, per la lontananza o la neve abbondante. Rari erano i presepi e non vi erano alberi di Natale. La mamma degli intervistati, però, aveva la consuetudine di appendere un ramo di pino o abete nella stalla (in cui ci si trasferiva d’inverno) e di decorarlo con caramelle. Aveva portato questa consuetudine forse dalla Francia, da Marsiglia, dove aveva vissuto per anni in età giovanile.

Alle Palme, “a Armeliva” i bambini portavano in processione rami di Alloro “lourìe”; pochi avevano rami di ulivo. Il ramo dei bambini veniva infilato in una mela o in un’arancia, (solo per i bambini più ricchi); erinfine ornato con qualche caramella e noccioline americane, “caramèle e pistace”.

Al Giovedì Santo, al pomeriggio alle tre, iniziava la processione con i fedeli e tutti i bambini che rappresentavano i Giudei alla ricerca di Gesù, “li Fisio”. Il parroco dava il segnale di partenza alla processione che si snodava nelle borgate più vicine alla chiesa. Precedeva il sacrista che portava una grossa croce con il Cristo coperto da un panno viola; veniva, poi, il parroco con le figlie di Maria. Erano signorine anche anziane con un camice bianco e cintura azzurra e un grande velo bianco in testa. Al collo portavano un medaglione raffigurante l’Immacolata Concezione, appeso ad un nastro azzurro; prima di infilarlo baciavano sempre il medaglione. Seguivano i cantori e poi coloro che appartenevano alla Confraternita, “li blàn”. Costoro indossavano un camice bianco coon un cordone in vita e una specie di cappuccio, cucito all’abito, con due buchi per gli occhi, che però veniva buttato indietro quando camminavano. Questo vestito caratteristico si chiamava “abi”. Venivano poi le donne ed infine gli uomini. I bambini, invece, correvano intorno ai partecipanti, schernendoli. Avevano cantirane, “le tenëbbre”, corna di capre, forate, “corna di cevre fouràa” , latte su cui sbattevano bastoni e, con urla e fischi, schiamazzi, suoni e rumori accompagnavano la processione fino in chiesa.

Al Venerdì Santo si recavano con i famigliari ad adorare, in chiesa, il Sacro Sepolcro.

Al Sabato Santo, alle ore 9, le campane dopo un silenzio di tre giorni riprendevano a suonare. Avrebbero suonato solo in caso di incendio. Tutti, allo scampanio, ovunque si trovassero, andavano immediatamente a bagnarsi la faccia e le mani, perché durante il suono delle campane l’acqua era benedetta e proteggeva gli occhi da ogni male.

Alla festa del Corpus Domini i bambini erano impegnati a spargere in processione, prima del Santissimo i fiori raccolti il giorno precedente. Erano fiori campestri, perché i giardini non erano numerosi, e i bambini li sistemavano in cestini di vimini, “cavagnin”, per questa processione attorno alla Chiesa.

Per Sant’Anna, festa del 26 luglio alla Madonna della Losa, la processione si svolgeva da Gravere alla cappella lungo la mulattiera.

Al 5 Agosto, festa della Madonna delle Nevi, alla frazione Deveis il parroco veniva a celebrare la messa per i fedeli, la maggiorparte dei quali si trovava in questa località per la fienagione.

Nelle varie borgate si festeggiavano i Santi protettori; all’Olmo ad esempio era Sant’Antonio Abate che si festeggiava il 17 gennaio; in quei giorni i bambini erano molto felici, perché, come per Santa Barbara, giungevano parenti e amici anche da lontano.

I BAMBINI E IL GIOCO

Nelle stalle, in inverno, si trascorrevano la maggior parte della giornata e vi dormivano i bambini; se lo spazio era sufficiente vi dormiva anche qualche adulto. I bambini vi facevano i compiti, poi, di sera dopo cena, alcune famiglie si radunavano nelle stalle più confortevoli della borgata e si dava inizio alla vigliàa.

Le donne filavano con l’arcolaio, lou rouèt e i bambini le aiutavano a dipanare matasse e fare gomitoli. Tutti sentivano i racconti degli anziani e i bambini si divertivano a risolvere numerosi indovinelli e a giocare tra di loro.

Gioco dei bambini più piccoli, con un numero illimitato di partecipanti, era “Petiva, meniva”.

I bambini erano seduti in cerchio e uno conduceva il gioco dicendo la filastrocca:

Pétiva, muniva, la fava, la griva,

corèl, courou, gira la flou dédìn e défora.”

Tutti aprivano le palme appoggiandole sulle sèle, i sedili a quattro piedi, alti circa 40 cm., che venivano usati anche per mungere.

Colui che diceva la filastrocca partecipava con una mano aperta come gli altri e con l’altra toccava un dito per volta, compresi i suoi. Quando la filastrocca terminava, il dito su cui veniva pronunciata l’ultima parola, veniva piegato. Vinceva chi per primo aveva piegato tutte le dita.

Gioco di gruppo era “paramèla”.

Un bambino stava con il capo chino sulle ginocchia, con un braccio ripiegato sulla schiena e con la mano aperta a palma in su. A turno gli altri bambini davano un colpo di mano su quella del compagno, chiedendo: “Chi è?”, “Qui èt?”

Se egli indovinava vinceva ed era sostituito da colui che aveva battuto il colpo.

Altro giochino per i piccini era quello di nascondere un oggetto in un pugno e chiedere loro in quale fosse, presentandoli in tutti e due e chiedendo:

Calin, calò, cal met, cal toi?”

Chi indovinava faceva a sua volta il giochino.

Si poteva fare in due o tre “Pan pignét”

Si mettevano su di un tavolo, alternandoli uno sopra l’altro, tutti i pugni dei bambini. Al via della filastrocca:

Pan pignét, l’arcia nueva

serque à i èt din?

Pán e vin

Qui l’à bitaio ? pari e mari

Qui l’à mingiamo?

Cin e ciat

Pan pignét la madia nuova

che c’è dentro?

Pane e vino

Chi l’ha messo? Padre e madre

Chi l’ha mangiato?

Cane e gatto

Chi aveva il pugno sottostante lo metteva sopra gli altri e così via fino al termine.

Si proseguiva dicendo: “La pel, la pel” e si fingeva di andare contro le altre mani; poi alle parole: “Bataia, bataia” battevano, a piccoli colpi, le mani, gli uni contro gli altri.

Un gioco da fare a coppie era “Con cornicon”.

Un bambino seduto nascondeva la testa tra le braccia conserte sulle ginocchia.

L’altro dava piccoli colpi sulla schiena con alcune dita aperte o chiuse a pugno, chiedendo con la filastrocca:

Con con cornicon

ghiro corne

a i èt su toun plán?”

cioè quante corna avesse sul piano, battendo ad esempio con tre dita aperte.

Il bimbo per vincere doveva indovinare il numero esatto e andava al posto del compagno.

Se, invece, non indovinava, il compagno gli diceva il numero esatto con la seguente filastrocca:

Trèi l’avisa dit, saràa fora de toun béstìc”

e ricominciava « Con, con cornicon… » fino a quando veniva indovinato il numero esatto e si poteva effettuare il cambio.

Gioco per i maschi più grandicelli, era la “crava morta”. Un bambino portava un altro a cavalcioni sulla schiena e i bambini presenti chiedevano:

Serque porte?” – “Cosa porti?”

Alla risposta “Porto la crava morta” esclamavano: “Port-la daré la porta ca l’è pà nostra!”

Il bambino dopo aver deposto la capra accanto alla porta, ritornava dai compagni che gli chiedevano: “Andoua l’è la crava morta?”

Egli dopo la risposta: “A l’è daré la porta” ubbidiva al comando: “Ve-la pié ca l’è nostra!” e riportava il compagno a cavalcioni; appena giunto, però, vicino a loro, si sentiva proporre: “Sacagna, sacagna, fin-a ca perde la bagna!”

Incominciava così a scuotersi mentre i compagni continuavano a gridare “Sacagna, sacagna” e calcolavano il tempo impiegato per far cadere “la capra”.

Le bambine per giocare, anche all’esterno, possedevano bambole costruite con un pezzo di stoffa. Sistemavano al centro della stoffa uno straccetto, chiudevano i lembi e legavano il rigonfiamento; vi cucivano due bottoni per gli occhi e con due tratti di matita disegnavano il naso e la bocca ed ecco la bambola (la pouna) era pronta.

Gli animali fornivano “oggetti” per i giochi e i divertimenti dei bambini.

La vescica del maiale, “la boutiffla”, ben lavata e ben sbattuta per essere allargata, gonfiata con una cannuccia di canapa, “lou ciandevelh” diventava una palla.

Le corna delle capre tagliate a punta diventavano corni per suonare.

L’osso esterno del ginocchio della pecora o di altri animali era “l’osëlé”.

Dopo averlo buttato in alto, i bambini gareggiavano per indovinare la parte che sarebbe rimasta visibile, dopo la caduta. La parte dove era più gobbo si chiamava “goeba”; ai lati “batoun” e dove c’era il buco “pertut”.

Se durante i giochi, il chiasso diventava eccessivo, per ricondurre alla quiete i bambini si minacciava l’arrivo “dou Mago de sat cabose”, l’arrivo del Mago delle sette teste, oppure “dou magnin”, il calderaio.

All’aperto, però i giochi e i passatempi erano innumerevoli. Liberi, scorazzavano combinando anche marachelle, ma raramente venivano puniti.

La raccomandazione principale che i genitori facevano ai figli era contro il pericolo del fuoco. I bambini non dovevano prendere fiammiferi e neppure tenerli in tasca. Potevano usarli con gli adulti, ma mai da soli.

Essi conoscevano i pericoli derivati da erbe velenose o da animali e riuscivano ad evitarli e, anche con i vari giochi, acquisivano destrezza e diventavano più robusti.

Ovunque si poteva giocare a nascondino, “ a accese o a coucc”, ad acchiapparsi, “a touk”, a rialzo, “a tèra auta e tèra basa”.

I ragazzini giocavano a birille, “a ghibilhie”, con biglie di argilla da mattoni; “al palèt”, gioco simile alle bocce ma al loro posto si usavano pezzi di “lose”, cioè pietre piatte che non rotolassero. Si adoperavano i bottoni come birille, da lanciarsi in piccole buche del terreno.

Si giocava anche al cerchio, “lou cërclo”.

Si preparava un cerchio in robusto fil di ferro e mantenendolo dritto con un altro ferretto, sagomato a gancio, lo si faceva rotolare per lunghi tratti di strada.

La cirimèla era un gioco che cadde in disuso per la sua pericolosità, soprattutto per gli occhi. Con un bastone si batteva violentemente su di un pezzetto di legno tagliato obliquamente, poggiato per terra. Vincitore risultava colui che era riuscito a far andare più lontano il suo tronchetto.

I ragazzini, poiché tutti quanti maneggiavano con abilità i coltelli, sapevano costruirsi “cicacelh” e “s-ciop, castlèt, fléce e fronde”.

Lou cicacèlh era un pezzo di canna, che con un legnetto funzionava come una pompa. Un’estremità doveva presentare un nodo a cui veniva praticato un piccolo foro. Ad un legnetto resistente, più lungo della canna, ma che vi potesse passare comodamente, si sagomava un manico. Alla punta si attorcigliava della canapa, “lou cenòvvo”, per circa un cm. e mezzo di lunghezza. Doveva essercene tanta da passare con precisione nella canna, aderendo bene alle pareti. Si metteva l’estremità della pompa dell’acqua e se ne aspirava tanta per riempire la canna. La gara consisteva nel far andare il proprio getto il più lontano possibile..

Lou s-ciop: si levava il midollo ad un ramo di sambuco lungo circa 20cm.; si masticava un po’ di canapa e si attorcigliava per farne un tappo ben duro. Questo tappo veniva spinto, con un legnetto, fino in punta al pezzo di sambuco in modo che fosse ben chiuso. Si metteva un secondo tappo, spingendolo dentro circa 1 cm.. Con un legnetto si spingeva poi, fortemente, dalla parte del secondo tappo, il legnetto contro la pancia.

La compressione dell’aria faceva partire il primo tappo, emettendo un forte colpo. Il secondo tappo veniva spinto al posto del primo e avveniva una rotazione di tappi “li coulp”. Vinceva il bambino la cui pallottola andava più lontana.

Lou castlèt era un incastro di otto pezzi di legno lunghi 8 cm. e larghi 1 cm. che formava una specie di palla in cui mettevano un sassolino per far rumore.

La flècia e la fiounda lanciavano sassolini. La flècia era costruita con camere d’aria di biciclette.

La trottola, la soetila, richiedeva abilità. Era un giocattolo di legno di pero o di melo che veniva costruito dai parenti o acquistato nei negozi. Aveva forma conica con un perno legnoso; alla estremità presentava una punta di ferro. Occorreva una cordicella lunga circa un metro con un occhiello in cui infilare il dito medio. Si attorcigliavano attorno al perno legnoso due giri di funicella, poi, tirando bene la funicella sulla trottola, la si faceva giungere fino alla punta di ferro sottostante. Qui si facevano tanti giri attorno alla trottola ben aderenti, finché si esauriva la funicella, serbando in mano, nel dito medio, l’occhiello. Tenendo poi la trottola capovolta nella mano, la si lanciava con forza facendola girare per terra, trattenendo la funicella. La corda, svolgendosi, imprimeva il movimento rotatorio. Naturalmente era vincitore il bambino la cui trottola faceva per ultima la “poulenta”, cioè dava gli ultimi giri molto disuguali prima di fermarsi.

Un altro tipo di trottola era ricavato dal rocchetto del filo, in legno, tagliato circa a metà, appuntito, a cui si applicava un perno generalmente di legno. Il rocchetto diventava anche una specie di carretto. Piantando due chiodi accanto al foro, collegandovi un elastico che poi si faceva passare all’interno e uscire all’altra estremità e attorcigliando questo capo ad un bastoncino, dando il via al rocchetto per terra, esso avanzava, mentre l’elastico si srotolava. Mentre alla trottola giocavano tutti, “lou ciaretin” era un divertimento dei maschietti.

I bambini si divertivano anche a “baroutése”, cioè ad andare in altalena. L’altalena poteva farsi semplicemente con una corda legata ad un ramo robusto, oppure si poteva preparare un “baroutou”. Occorreva sistemare un asse in modo che appoggiasse, circa al centro su di un sostegno che poteva essere anche un cavalletto su cui si segava la legna. I bambini, seduti ai due capi dell’asse, alternativamente salivano e scandevano. Si doveva calcolare bene il punto di appoggio dell’asse secondo il peso dei bambini. Il bambino meno pesante aveva la parte più lunga dell’asse.

Anche i carri, “li cartoun”, diventavano bellissime e divertenti altalene. Un bambino si sedeva tra le due sbarre anteriori, sulle catene, incrociate, che servivano ad attaccare le bestie da soma e si sforzava di far salire in alto i compagni, seduti o in piedi sulla parte posteriore. A volte, però, i carri cadendo violentemente a terra sulle sbarre anteriori potevano causarne la rottura, per cui i genitori non permettevano sempre questo gioco.

Ci si poteva dondolare anche aggrappandosi ai rami più robusti degli alberi con le mabni, a testa in giù con i piedi. A testa in giù, però appoggiando le braccia a terra si poteva fare “l’arbro fourciù” l’albero forcuto. Tra tanti “arbro fourciù” vinceva colui che manteneva più a lungo l’equilibrio con le gambe leggermente divaricate.

Oltre all’arbro fourciù, giochi maschili erano: “la cavalin-na”, “la cevilhia” e “la ciarëtta”. Vi erano due tipi di cavallina: “cavallin-na vada” e “cavalin-na lungia”.

A “cavalin-na vada” tanti bambini, distanziati, si curvavano con la testa china sulle ginocchia, ma con le gambe diritte. Erano messi di fianco. Il ragazzo rimasto in fondo, prendeva la rincorsa e, saltando uno alla volta tutti i bambini chinati, giunto in cima si chinava a sua volta. Quello in fondo si alzava e faceva il percorso come il primo; così il gioco non finiva mai e proseguiva per lunghi tratti di strada.

Invece “cavalin-na loungia” si giocava così: si mettevano 3 o 4 bambini chini, uno dietro all’altro, con il capo vicino al fianco del compagno precedente. Il bambino che prendeva la rincorsa, per portarsi avanti, appoggiava le mani sul dorso del primo, e si sedeva sugli altri più avanti che poteva. Giungeva un secondo, poi un terzo bambino e, a turno, saltavano vicino al primo. Giungevano ancora altri e si formava una “catasta” di ragazzi che stavano lì, finché gli altri, sotto, gridavano: “Ceda! E si scambiavano i posti.

La cevilha”: due ragazzini sedevano a terra, con i piedi che si toccavano. Tenevano in mano lo stesso bastone; ognuno, tirandolo verso di sé, tentava di far staccare il compagno.

Anche “la ciarëtta” era un gioco per ragazzini. Un bambino appoggiava le mani a terra, un altro, tenendolo per i piedi lo faceva procedere come una carretta.

Giochi quasi esclusivamente femminili erano: il gioco della corda e quello del mondo, “sáoutée a la corda e giouée au mondo”. Alla corda si giocava individualmente oppure due bambine facevano ruotare la corda mentre altre due o tre, una per volta, entravano all’interno.

Per giocare al mondo si tracciava sul terreno un grande rettangolo, largo un metro circa e lungo un metro e mezzo, suddiviso in sei quadrati in cui si segnavano le iniziali dei giorni della settimana, esclusa la domenica. La partecipante, voltando le spalle al gioco, buttava un sassolino nel rettangolo. Se il sasso cadeva fuori dal rettangolo o si fermava su di una riga, la partecipante era “ciouc” e perdeva il turno. Se centrava il quadretto, saltando su di un solo piede, andava nel quadretto della pietra e, facendola scorrere con il piede, la spostava da un quadretto all’altro. Occorreva essere abili nel non calpestare le righe, facendo sì che neppure la pietra si fermasse sulle righe e che si spostasse solo di un quadretto per volta. Al termine del giro, questa volta guardando il gioco, si buttava ancora la pietra, ma nel quadrato successivo a quello dove era caduta la prima volta e si riprendeva il gioco e così via fino all’ultimo quadretto.

Ammesso che tutto fosse andato bene, la concorrente doveva poi percorrere a passi, indietreggiando ad occhi chiusi, senza calpestare le righe, tutti i quadrati. Ad ogni passo chiedeva: “I soun?”, “Chi sono?”, per sapere se poteva procedere. Al termine di tutto, nuovamente con le spalle al gioco ributtava la pietra. Nel quadrato in cui andava a finire, veniva, con una X, segnata la domenica.

La concorrente successiva aveva dinnanzi ancora maggiori difficoltà, perché la domenica non poteva essere calpestata, per cui quel quadrato doveva essere saltato e con un solo piede!

Neppure la pietra doveva esservi gettata! Questo gioco era chiamato del mondo (lou giuve dou mondo) perché occorreva molto tempo per far partecipare tutti i bambini. I maschietti, più grandicelli giocavano raramente.

Andando al pascolo vi erano poi altri giochi e passatempi che potevano essere fatti con materiale reperito sul posto. Erbe, foglie, rami si animavano nelle mani dei bambini. I più grandicelli insegnavano ai più piccini ad essere abili e ad avere delicatezza nel maneggiare il fragile materiale ed ecco: animali, oggetti o personaggi fantastici prendevano vita.

Le foglie di castagno (dou ciategnìe) tenute insieme da steli d’erba diventavano cestini, cinture, corone o copricapo per principesse, principi o indiani.

Invece i frutti, “le cavale”, del Colchico autunnale, “lou fréidoulin-e” diventavano “vivi”. Questi frutti, maturati sottoterra, spuntano in primavera, protetti dalle foglie. Pur essendo velenosi venivano maneggiati senza che procurassero danni. Ecco perciò “nascere”, con rametti e foglie, dalle manine dei “méinaa” animali in miniatura dello zoo o della fattoria, che in grandi quantità allietavano i più piccoli e i più alti.

Fili d’erba, rami, frutti o altro diventavano “strumenti musicali”.

Trattenendo una foglia di graminacee ben tesa tra i due pollici, con le altre dita raccolte, si emetteva un fischio penetrante, soffiando nella cavità libera tra i due pollici. Con i rami di castagno selvatico giovane, “le brope”, o quelli di salice “li ven”, in primavera, quando erano in piena linfa si costruivano i fischietti “li sublèt”.

Si prendeva un rametto grosso come un dito e ungo circa 20 cm., si toglieva circa 5 cm. di corteccia per poterlo tenere in mano. Sulla corteccia rimasta si passava il manico del coltello per farla staccare dal legno. La corteccia veniva ritorta bene e poi si tirava dalla parte più grossa verso la più piccola per farla scivolare fuori dal legno, “farla savée”. Si faceva un’incisione lunga circa un terzo della circonferenza nel tubo di corteccia a circa 2 cm. del termine e poi un altro taglio a mezzaluna. Ad un pezzettino di legno, di circa 2 cm., che poi sarebbe stato infilato nella sommità della corteccia prima del taglio, si toglieva, nel senso della lunghezza circa 1 mm. di spessore. Si chiudeva col dito il fondo e si fischiava allegramente nel “sublèt” che andava bene anche quando era secco. Se si voleva il fischietto dei “ladri”, “lou sublèt di ladre”, al fischietto precedente si infilava anche l’altro pezzo di legno da cui era stata tolta la corteccia. Facendo scorrere lentamente su e giù il pezzo di legno, mentre si fischiava si ottenevano tonalità differenti. Si doveva avere, però, l’avvertenza di non lasciare seccare il pezzo di legno all’interno della corteccia perché la linfa li avrebbe fatti attaccare insieme.

I più piccoli che non sapevano ancora maneggiare con sicurezza il coltello fischiavano, mentre aspettavano i “sublèt” preparati dai più grandicelli, nelle noccioline bucate o emettevano strane melodie con i pettini. Mettevano un rettangolo di carta velina su di un pettine; la tenevano ben ferma e poi soffiavano sfregando in fretta le labbra su di un lato. Questo strumento musicale era molto usato anche dalle bambine; mentre una suonava, le altre compagne ballavano.

Anche le foglie dei porri, “le pourëtte”, servivano da strumenti musicali. Si tagliava un pezzo di foglia lungo circa 2 cm.; a metà di esso, fin dove c’è una linea di separazione, si toglieva la parte carnosa lasciando la pellicola. Si metteva poi sulla lingua, con la pellicola verso la punta e fischiando vibrava la pellicola emettendo un suono strano. I piccioli delle foglie di zucchino diventavano trombe, “le trombe de cousot”.

Come bastoni per il pascolo erano usati i rami giovani, flessibili e resistenti, di castagno selvatico, “le brope”, o di nocciolo, “lou doulagnìe”. Si sceglievano diritti e senza biforcazioni e si intagliava la corteccia con varie incisioni ottenendo eleganti “batoun”.

La stipa delle fate cresce e cresceva in luoghi soleggiati; i bambini ne raccoglievano, tirandole con colpetti verso l’alto, le reste piumose bianco argentee, “li plumèt”. Legate a mazzolini, venivano lanciate verso l’alto e lasciate cadere a terra per ben allinearle. A casa, poi, con l’aiuto dei genitori, mettevano i mazzolini nella calce per farli diventare gialli o nel verderame perché assumessero un colore rosa. Servivano per ornare la cucina, la camera da letto o le cappelle.

Invece i frutti secchi del “Geranium pratense”, “li arlogio”, a forma di becco e muniti di una resta diventavano orologi. Quando seccano, si avvitano, allora si bagnava l’estremità con la saliva e “lou arlogio” incominciava a ruotare lentamente. Il vincitore era colui che aveva l’orologio “svitato” più in fretta.

I papaveri dei campi, “le pippe”, si animavano prima della fioritura o appena sbocciati.

Si tagliava il bocciolo con un pezzettino di stelo. Si aprivano leggermente i due sepali. Delicatamente si toglieva la cassula e la si infilava sul pezzettino di stelo: diventava una testina. I petali, ancora racchiusi nei sepali, venivano tesi e diventavano un abito. Poiché i petali dei papaveri prima della fioritura sono bianchi e poi, man mano, da rosati diventano rossi, ecco una serie di personaggi con vestiti di varia tonalità, “li préiri”. Si formavano generalmente delle processioni, con il prete seguito dai chierichetti, con cotta e talare.

Si usavano anche della Colutea o Vescicaria i baccelli gonfiati a vescica quando erano ancora verdi, “li counflèt”. Si facevano scoppiare tra il pollice e l’indice e producevano un rumore secco.

In alta montagna erano le genziane “li rei coucouc”, che diventavano dei palloncini. Soffiandoci dentro, tappandole subito, si facevano scoppiare battendole anche sulle natiche.

Le bambine, quasi tutte con i capelli lunghi e le trecce subivano i bombardamenti, soprattutto in testa dei frutti di Bardana, “li taca-pelh”. Gli apici, piegati ad uncino, si attaccavano facilmente e i frutti venivano ancora ben schiacciati, dai monelli, sulle teste delle malcapitate. Esse venivano ripulite per alcuni giorni prima di poter essere pettinate facilmente.

Le spighe di orzo selvatico, che cresce spontaneamente lungo i muri e le strade, venivano infilate capovolte nelle maniche, al polso. Movendo avanti e indietro il braccio e dicendo la formula magica: “ Perou, Perou/ mounta su,/cala, cala/ mai pì giù” queste spighe, “le éipié”, salivano fino al collo e si effettuavano gare e scherzi. Per fortuna, in quel periodo, nessun bambino soffriva di asma o raffreddore da fieno!. Le spighe, anche delle altre graminacee, racchiuse ad anello, infilate in uno stelo o in un bastoncino, diventavano piccole girandole soffiando contro le reste.

In inverno i bambini, incuranti del freddo, si divertivano lanciandosi palle di neve, “le malote” e gareggiando con gli “sgabèl”. Erano simili a slittini, costruiti in Larice, “Malëzo”, Castagno “Ciatégnìe”, e i più robusti in Noce “Nuìie”. La lunghezza variava da circa 40 cm. a 1 m., per una o anche tre persone; erano alti circa 25 cm. e larghi circa 35 cm. Avevano due lamine di ferro per farli scivolare meglio. I bambini, di sera, di nascosto, buttavano acqua per le strade in discesa: il giorno successivo, ben ghiacciate avrebbero reso le gare più spericolate e divertenti! Le gare potevano proseguire fino a notte o anche dopo cena e senza luce, perché a Gravere in quel periodo non c’era ancora la corrente elettrica. Se non c’erano “sgabèl” si usavano le slitte per il trasporto di legna o fieno, “le léiie”. Su queste salivano sette o otto bambini. I più forti facevano da timonieri e deviavano la direzione con il tacco. Questo si poteva fare bene perché tutti anche i bambini, sia maschi che femmine, calzavano “le soce”, zoccoli con tomaia in pelle e suola di legno con le borchie.

Anche gli animali, soprattutto gli insetti divertivano i bambini. Se per caso trovavano una Mantide Religiosa essa diventava “La Signora”. Tenendola con il pollice e l’indice, tra il torace e l’addome, le chiedevano dove fossero alcune località:

Dounq’èt Turin?”, “Dounq’èt Cimoun?”

Dov’è Torino?” , “Dov’è Chiomonte?”

e l’insetto tentando di liberarsi e movendo le zampine, indicava la direzione probabile. A volte, però, gli animali dovevano subire le angherie dei monelli e anche delle monelle.

Venivano ad esempio infilati nell’estremità dell’addome dei tafani, “li taván”, dei fili d’erba o dei fiorellini; gli insetti venivano poi lasciati volare verso il triste destino.

Questo “divertimento” veniva usato raramente da alcuni discoli che erano presto dissuasi dagli altri. Esso era doppiamente pericoloso sia per gli insetti che per i bambini. I tafani, infatti, succhiano il sangue degli animali (mucche, asini, muli, cavalli) che per liberarsi da questa molestia scalciano. I bambini perciò correvano il rischio di essere involontariamente colpiti dai calci.

Le chiocciole, con uno spago e un pezzo di legno, diventavano animali da traino “ lou tréinoo”. In primavera, dopo la pioggia, muniti di cestini di vimini, “cavagnin de ven”, “li méinàa” si divertivano ad andare in cerca di chiocciole, “le limase”. Le chiocciole erano raccolte solo in primavera, nel primo mese, e non in grande quantità per non impedirne la riproduzione. Anche le rane erano numerose. Ora purtroppo, chiocciole e rane con l’inquinamento da diserbanti e da prodotti chimici di acque e prati e la raccolta indiscriminata, non ci sono quasi più. Una volta si raccoglievano le chiocciole per mangiarle, lesse, con la salsa “aié”, l’aioli francese, una specie di maionese con aglio. Si mangiava questo piatto, tipico di Marsiglia, perché molti Graveresi, emigrati laggiù per lavoro l’avevano fatto conoscere.

Le chiocciole, ancora percolate, “le limase querviselàa”, rinvenute quando si zappavano le vigne o gli orti, venivano abbrustolite sulla piastra della stufa a legna ed erano una leccornia per i bambini.

Anche i funghi, le Spugnole, “le pungole”, in primavera e porcini e linaioli, mazze di tamburo e vesce, “poursin, giaunèt, cucumèle e souflatèra” erano ricercati dai bambini. Essi andavano con gioia anche a raccogliere le fragoline dei boschi per mangiarle con lo zucchero in deliziose macedonie, “le supine”. I mirtilli e i lamponi, “le ambrune e le ompie”, venivano anch’essi consumati freschi.

Un divertimento grandissimo per i bambini, soprattutto i maschi, in età scolare e anche oltre, era andare a “ma ronda” cioè andare a rubare la frutta primaticcia: ciliegie, fragole, pere, pesche. Non la raccoglievano per venderla o portarla ad altri, ma per mangiarla sul posto ridendo e facendosi beffe del padrone. A volte, però la sorpresa era per i monelli. Il proprietario, pensando a loro, si nascondeva vicino alle piante, quando la frutta era ben matura. Ma i bambini, prevedendo la presenza del padrone, riuscivano a scoprire quasi sempre in anticipo il suo nascondiglio e prudentemente se la davano a gambe. La scoperta, però, era ugualmente uno spasso.

Procurare spaventi soprattutto a persone paurose o che credessero a “le soursiére” o “a li spirit foulèt” cioè alle streghe e agli spiriti, era generalmente il compito dei più intraprendenti, che però, non venivano lasciati soli nelle loro imprese; anche i più piccoli, per essere all’altezza, li seguivano.

Si poteva, ad esempio, prendere di nascosto una bella zucca o un grosso zucchino, “na coussa o in groo cousòt”, levare ben bene la polpa, praticare dei fori per occhi, naso e bocca e sistemare, come foulard, “in moucioul”, un grembiule, “in foudal”.

Prevedendo, di notte o all’imbrunire, il passaggio di qualcuno, soprattutto in un luogo isolato, si sistemava “la testa”, “la têta”, su di un muretto, con la candela accesa all’interno. Ben nascosti, era uno spasso ridere per lo spavento procurato.

Altro grosso divertimento consisteva in questo: si acchiappava un gatto, “in ciat”, si metteva sotto le sue zampe della pece dei calzolai se poi si infilava ogni zampa in mezzo guscio di noce “’na mèza grolhia de nuéiza”, tenendolo ben aderente per un momento. Si lasciava libero il gatto sui tetti di lose e il malcapitato non riusciva a tenersi ritto, scivolava facendo molto rumore. Una volta, una signora restò tappata tutto il giorno in casa avendo sentito, la sera precedente, i rumori degli “spirit foulèt”. Non aveva sentito, però, i monelli mentre si sbellicavano dalle risate!

Le déilouiàa”

Alla vigilia dell’Epifania i bambini si divertivano alle spalle degli abitanti delle frazioni. Di sera, dopo cena andavano a prendere gli attrezzi da lavoro agricolo, lasciati davanti alle abitazioni, e li nascondevano, andando a legarli o metterli sulle piante, più in alto che potevano, mescolando gli arnesi dei vari proprietari. Al mattino, i proprietari indaffarati andavano in cerca di gerle, “garbin”, carrette “barote”, zappe “sape e beciard” e altri utensili e sorgevano anche piccoli litigi e i bambini osservavano queste scene divertiti.

Alla vigilia del 1° Febbraio i bambini avevano l’abitudine di chiamare, tentando di farli uscire dalle proprie abitazioni, gli uomini delle borgate. Quando gli sprovveduti, non ricordando la ricorrenza, sentendosi chiamare per nome, uscivano, i bambini si mettevano a gridare a squarciagola: “L’ors ou fora!” “L’orso è fuori!”. Alcuni accettavano lo scherzo, ma altri si arrabbiavano e i bambini si affrettavano a cambiare casa.

A Carnevale, “a Carlevée”, i bambini si mascheravano con cenci e abiti degli adulti, maschere preparate da loro con carta e cartone, barbe di lana, pelli di pecora o capra sulle spalle. Tutti i bimbi della frazione giravano insieme bussando alle porte. Molti, generosi, offrivano qualche dolce o caramelle, altri, invece, li facevano fuggire minacciandoli con il bastone.

La sera della prima domenica di Quaresima, dopo cena, si bruciava il carnevale “se brusava lou carlevee”.

I bambini preparavano un fantoccio di paglia su due bastoni incrociati e rivestito con abiti smessi, portavano la legna in un luogo dove non potesse esserci pericolo e preparavano con cura il falò. Quando faceva buio, tra grida di gioia, canti e girotondi, si dava fuoco “aou Carlevée”.

I BAMBINI E IL LAVORO- LE MÉINÀA E LOU TRAVALH

Nel periodo estivo i bambini più piccoli andavano a gruppi al pascolo delle pecore. Ogni bambino aveva due o tre pecore di proprietà di famiglia. Dovevano badare con cura ad esse, ma molto spesso per i divertimenti e i giochi di gruppo, al momento di ritornare a casa non si trovavano più le pecore e succedeva pure che i genitori, sul far della notte, andassero a cercare figli e pecore.

I più grandicelli, dai sette o otto anni, fino ai quattordici anni, da metà luglio a metà agosto, poiché le mucche a cui badavano in precedenza erano all’alpeggio, conducevano le bestie da soma.

Le famiglie, durante la fienagione, vivevano nelle baite, in alta montagna e i ragazzi avevano il compito di trasportare a casa, in paese, il fieno raccolto. Dovevano anche sistemarlo nel fienile, a volte aiutati dagli anziani rimasti a casa, per poter riportare in montagna le corde, “li ciaruvve” e “li barioun”, cioè due bastoni collegati a corde per legare fasci di fieno.

Per la fienagione a circa 1200 m., si facevano circa quattro viaggi al giorno. Ogni viaggio durava due ore.

I più fortunati, che avevano bestie più robuste, ritornavano a tratti o per quasi tutto il percorso, a dorso del mulo o dell’asino. Quando una famiglia non aveva bambini per il trasporto del fieno, prendeva con sé, come conducente, qualche ragazzo o ragazza anche forestieri. I ragazzini erano detti “rousatìe” e le ragazze “rousatiére”. Il fieno era raccolto in “bote” cioè grossi mucchi racchiusi da tre corde, “li ciaruvve” oppure in “bariounàa” cioè in grossi mucchi racchiusi da quattro corde collegate a due grossi bastoni detti “barioun”. Ogni carico era composto da tre o quattro “bote” oppure “bariounàa” ed era ben legato al basto.

Compito dei conducenti era di badare se il carico fosse sempre ben equilibrato e i proprietari, alla partenza, raccomandavano:

Gheita pì se a vire pì!” – “Guarda poi se non si sposta lateralmente!”

questo soprattutto per non lasciare rovinare con ematomi il dorso degli animali da soma, perché essi erano molto importanti per una famiglia, per i lavori di campagna.

Durante questi viaggi le mulattiere risuonavano di grida e di canti e a volte avvenivano incontri insoliti. Gli intervistati, a cavallo di asini, in compagnia di alcuni amici incontrarono il principe Umberto che poi divenne re. Il principe, in quel periodo, dirigeva, come maggiore, le grandi manovre militari sulle montagne di Gravere e si mise a parlare affabilmente con i ragazzini, rivolgendo loro domande sulle occupazioni svolte e su che cosa avrebbero voluto fare.

Di sera, compito dei conducenti era controllare che l’animale mangiasse e bevesse a sufficienza.

Dopo cena, terminati i loro doveri, si divertivano a giocare tra di loro nelle piccole frazioni montane. Capriole, nascondino, la cavallina, andare a ciliegie e a lucciole erano i divertimenti preferiti. Le lucciole, “li luminèt” si raccoglievano in scatolette e poi si lasciavano libere nelle baite per vederle luccicare di notte.

Però, nelle frazioni dove c’erano cappellette, tutti bambini e adulti, si recavano al rosario, al Devesi per esempio. La vigilia del 5 agosto, festa della Madonna delle Nevi, i bambini andavano a raccogliere la legna per preparare il falò. Attorno al falò si cantava fino a notte inoltrata. Questi lavori terminavano verso il 15 agosto, a seconda del tempo.

Fin da piccoli i bambini aiutavano gli adulti nei lavori agricoli. Verso luglio, alla mietitura con piccole falci, “li voulam”, tagliavano il grano. Lo legavano in piccoli fasci, “le giàvèle”, e poi le accatastavano in grandi covoni, “li bourlìe”. Le “giavèle”, a trenta per volta, erano sistemate in appositi teli bianchi di canapa, “le cuverte dou blàa”, usate solo per questo lavoro.

La soumàa”, il carico completo della bestia, era composto da 90 o 100 “giavèle” racchiuse in tre “cuverte”. “La soumàa” era quindi formata con tre “patina”. La bestia, sotto la “soumàa”, quasi non si vedeva.

Il trasporto a casa era compito, invece, unicamente degli adulti, perché era troppo difficile scaricare il grano. I bambini conducevano le bestie da soma durante l’aratura, perché potevano guidare agevolmente l’animale nel solco, e durante il trasporto del letame, “lou liam” nei campi.

I maschietti imparavano, fin da piccoli, a costruire i rastrelli, “li ratèl”, con i rebbi di frassino, “de fréise”, il regolo traverso in noce, “de nuiie” e il manico in nocciolo, “de doulagnìe”, che rendevano lisci con l’aiuto di un pezzo di vetro. Costruivano anche “manuvèle” cioè piccoli attrezzi in legno di frassino per bloccare le corde per il trasporto di carichi. Vi erano le “manivèle da ciaruvve” e le “manuvèle da souta”. Queste ultime erano collegate a corde che legavano il carico sul basto.

I maschietti aiutavano i padri e i nonni a togliere la corteccia ai salici e a intrecciare i vimini per i canestri; a pulire la canapa e a fabbricare scope con i rami di betulla o di faggio per raccogliere le foglie. Verso i 10- 12 anni andavano con il padre a falciare, mentre le ragazze rastrellavano e rivoltavano il fieno per farlo seccare. Entrambi raccoglievano i sarmenti, dopo la potatura nelle vigne.

Poiché “lou foui-ie” il camino non poteva riscaldare tutta la casa, per difendersi dai rigori invernali, si viveva nella stalla dai primi di dicembre ai primi di marzo. Le stalle venivano attrezzate opportunamente. Si faceva il pavimento con tavole di legno, “lou plancìe”, il soffitto e le pareti erano imbiancati. Ben distanziata dalle bestie, una stufa serviva per cucinare. Le pareti erano rivestite con due file di paglia intrecciata a dei pali, “li pagliass” e servivano come intercapedine, per riparare dall’umidità delle pareti sia i mobili che le persone.

I bambini avevano il compito di allestire i “pagliass”. Intrecciavano manciatine di paglia, lunga e bella, trattenendole dalla parte delle spighe, attorno a pertiche lunghe quanto il muro. Intrecciando, con lo stesso procedimento, la paglia costruivano il nido per le galline. Si intrecciava la paglia attorno ad un cerchio di legno, di vimini o di castagno, “de ven o de ciatégnìe”. Si legava il fondo con lo spago e si tagliava la paglia eccedente in piano.

Aiutavano le mamme anche nei lavori di casa. Erano le bambine ad aiutarsi a riordinare cucine e camere, “cusin-ne e ciambre”, ma tutti i bambini andavano ad attingere con i secchi, “le segelin” l’acqua “l’éiga” alla fontana per farne la scorta per la casa o per abbeverare le mucche, “douné béire à le vacie”.

Tutti quanti si aiutavano a preparare la pasta per tagliatelle e ravioli e a fare gli gnocchi. Anche il pane si preparava in casa e poi veniva cotto nel forno della frazione.

Le mamme formavano, esclusivamente per i bambini, dei galletti “li gialèt” e delle bambole “la pouna de pàn” con la pasta del pane e, prima di cuocerli, li ricoprivano di zucchero, “de succro”.

Le bambine imparavano a cucire e da ragazzine a filare, ma tutti, maschi e femmine, maneggiavano con abilità i filati. Sapevano, infatti confezionare sciarpe e cordoncini. Si prendeva una tavoletta lunga circa 20 cm., larga 6 cm., con circa 2 cm. di spessore. Si praticava un’asola lunga circa 15 cm e larga 1 cm, attorno si piantavano chiodini senza testa distanziati circa 1 cm l’uno dall’altro. Con l’aiuto di un ferro da lana, o con una lesina da calzolaio, “na léina” o un uncinetto, “in crouquet” si tesseva. Si prendeva del filo di lana e si intrecciavano a zig-zag due giri attorno ai chiodini, lasciando il filo un po’ allentato. S’incominciava il lavoro facendo accavallare il filo, del giro di sotto, al chiodi; uno alla volta si terminava il giro; si metteva un’altra volta il filo a zig zag e si accavallavano nuovamente, una alla volta le maglie del giro sottostante. Così dall’asola usciva il lavoro che riusciva sempre ben fatto. Alternando i colori si ottenevano scarpine a righe.

Con lo stesso procedimento, ma con un rocchetto, “na boubin-a” a cui si applicavano 4 chiodini, si otteneva un cordoncino che le mamme usavano per appendere le forbici al grembiule. I bambini erano felici di questi lavori sorti dalle loro mani e gli adulti li portavano con orgoglio perché era frutto dei loro “méinàa”.

Il gioco, praticato soprattutto all’esterno, in gruppi, (all’interno solo in caso di cattivo tempo) era un’attività importantissima nella vita dei “méinàa”. Con il lavoro, considerato come passatempo, imparavano dagli adulti e aiutavano i famigliari.

Giochi e lavori, tramandati dalle generazioni precedenti, facevano acquisire, oltre all’abilità anche il gusto di fare, una volta appresi, non sarebbero stati dimenticati, neppure da adulti.