(LV, 1972, N.2):
Iniziamo con questo numero la pubblicazione della relazione presentata dal nostro direttore al convegno di studio sulle Arti e sulle Tradizioni popolari del Piemonte, svoltosi a Pinerolo il 1 Maggio 1971, nell'ambito delle manifestazioni di "Pinerolo-Primavera".
L'urbanistica paesana e l'architettura rustica delle dimore, legati all'ambiente geografico ed alle tradizioni storico-popolari, si presentano come elementi fondamentali nel dare un "volto" caratteristico alle nostre valli, aspetto che oggi, purtroppo, come in quasi tutte le regioni alpine italiane, tende a scomparire, o per lo meno a essere modificato, grazie al processo di modernizzazione in atto.
Tale constatazione giustifica la scelta di questa relazione, nella quale la nomenclatura, se non dichiaratamente espressa, sarà propria della parlata patois della media Valle Chisone ed in particolare dell'idioma di Gran Faetto-Villaretto.
Ritengo doverosa tale precisazione poiché, come dice un nostro antico proverbio, "Ciakë meyzoun a sun ditoun e tou vialagge a soun lengagge" ossia, ogni casa, ogni nucleo familiare ha il suo modo di dire, il suo detto e ogni villaggio ha il suo linguaggio.
Tratterò quindi di parole e cose dell'architettura rustica alpina descrivendo, in un excursus linguistico etnografico, una vecchia casa tipo della media valle del Chisone.
La parola casa, derivata dal basso latino casa, ricettacolo, casupola, capanna, tugurio e abitazione pastorale e, più tardi, abitazione di campagna, presenta una etimologia controversa.
C'è chi vuole che tale voce contenga una radice significante l'azione dell'edificare, del costruire; altri ritiene che il nome antico di casa significhi invece coprire, riparare, forse a testimonianza di un'epoca primitiva in cui l'idea di abitazione non implicava una costruzione eseguita dall'uomo, ma semplicemente qualunque cosa che potesse offrire riparo, rifugio come grotte, spelonche, caverne. Di conseguenza si potrebbe fare derivare la voce casa da una supposta forma cad-sa a sua volta costruita sulla radice protoariana skad, coprire, la stessa che potrebbe avere dato origine ai latini castrum castellum, corrispondenti a luoghi fortificati, muniti, difesi.
Inoltre, poichè i Greci e i Romani per indicare la casa del signore usavano rispettivamente le voci domòs e domus (voci che hanno dato origine all'italiano duomo, casa di Dio), che si richiamano entrambe al greco doméo o démo, costruire, dom sarebbe la costruzione e l'edificio, mentre la radice cas corrisponderebbe a semplice luogo riparato, coperto.
Nella nostra parlata per casa si ha meyzoun, con le varianti mezun e mizun, termine derivato dal verbo latino maneo, rimanere, da cui si ebbe l'italiano magione, corrispondente al provenzale meisoun, al francese maison, e al piemontese ka (Cfr. ALF 1571; AIS 931; ALI 736).
Tale vocabolo comune a molte parlate provenzaleggianti cisalpine (Es.: Valle di Susa) figura, come una grafia francesizzante, maysons nelle ordinanze della Comunità di Mentoulles del 1549, Costantino Nigra lo registra nel suo Vocabolario Valdostano, lo si rileva nel piemontese di "Il Gelindo" (29); mezun e mizun ; il Biondelli riporta masun come termine comasco per ricovero di pastori e masù nel bresciano per casa, pollaio, voce che secondo il Koerting (5069) potrebbe ricollegarsi al maso trentino.
Nella nostra media Valle il termine meyzoun era ed è tuttora usato per indicare la cucina, quantunque per questa stia ora diffondendosi un po' dovunque il piemontese cuzinâ o cuzinë, ove si nota un semplice adattamento della silla finale al dialetto valligiano: la consonante n perde il suono faucale e la vocale a diviene o oppure assume un suono indistinto tra o ed a od ancora diviene e muta.
Che il termine meyzoun indicasse un tempo soltanto i locali adibiti ad abitazione civile e non tutta la costruzione, tutta la casa, lo si può notare nel detto: Pa-pi agué ni meyzoun ni teyt, corrispondente al piemontese Pi-nen avei ne ka ne teyt, non avere più nè casa nè stalla, essere affatto rovinato, riportato da Emanuele d'Azeglio nei suoi Studi di un ignorante sul dialetto piemontese.
Nella media e alta Valle per indicare la casa si usa pure kazèy, dalla radice cas o, secondo il FEW (II, 449) da kazo.
Si richiamano a kazey, kazét e kazétâ, anche toponimi, costruzioni in pietra che comprendono la casa, ossia la cucina e le camere; tali termini, anche diffusi nel Queyras (FEW II, 451) sono forse derivati dall'alto francese casette, petite chaumière, capanna sono pure nomi di famiglia indicanti il luogo d'origine (Cazettes di Bourcet...) e si ritrovano tuttora a Neuhengstett nel Württemberg, in Germania, tra i Valdesi là emigrati (Barral Casette...).
La nostra parlata conserva inoltre, diversi altri termini per indicare l'abitazione dell'uomo: da Cëzâl, casale, casolare spesso in rovina, kasey avasla, ai suoi derivati: cëzâlâs, oasale + -aceu = grandi rovine di una casa; cesalet da casale + -ittu = piccoli ruderi di casa, vocaboli che sono pure toponimi diffusi (Chezalet di Bourcet...), da chabot, casupola di solito usata come ripostiglio per attrezzi agricoli, forse per influenza del piemontese con lo stesso significato, o anche per indicare una piccola casa in senso spregiativo; a chabôrno, casupola, tugurio, corrispondente con lo stesso significato alla voce registrata dal Nigra kaborna e al piemontese caborna (Sant'Albino); a barakko, termine corrispondente al piemontese baraka, baracca, casa o casaccia di legno, qui usato per indicare familiarmente e quasi con affetto e con rimpianto la vecchia abitazione di pietra.
Le prime case in muratura, condizionate dalla natura dei materiali impiegati e dalla povertà di tecnica edilizia, dovevano presentare un solo vano, soltanto in un secondo tempo si dovettero avere locali diversi adibiti a stalla, a grangia e, più tardi ancora, a soggiorno e a camera da letto.
Quasi sempre la casa attuale ha un piano sottostante, spesso seminterrato, e un piano di abitazione al quale si accede mediante una scaletta esterna di pietra o di legno e, sovente, presenta una costruzione adiacente, più piccola, talvolta adibita a ripostiglio, a pollaio, spesso a latrina.
La stalla, un tempo, doveva essere il locale veramente importante, e non solo per il bestiame che qui si rinchiudeva, ma perchè là, soprattutto nei mesi invernali e spesso tutto l'anno, l'uomo dormiva sul jas o sulla paglia.
Nella Provenza, nelle vicine Valli di Susa e del Pellice, sui monti della Liguria occidentale, nelle valli piemontesi in genere e in talune località nostre, le tane e le balme, le caverne montane, vengono dette jas: ora l'etimologia stessa del termine dal supposto latino jaciu da iacere, giacere, sia nel provenzale, sia nel piemontese gias (Sant'Albino) con il significato di covo, giaciglio, sterno per il bestiame, e, in senso figurato, letto, tradisce l'uso a cui queste grotte venivano, e in qualche parte ancora sono, adibite.
Il jos con la variante jâs anche per il nostro patois sono le foglie secche che i montanari raccolgono nei boschi in autunno per fare la lettiera al bestiame e in questa accezione (geas) il termine viene riportato nelle Ordinanze della Comunità di Mentoulles in lingua del paese del 1549; jasset è lo stazzo per i montoni, il luogo dove si depositano le foglie a mucchio, il nome di molte località (Jasset da Kulet, Alp da Jasset....), è, però, anche il povero giaciglio che veniva usato fino a non molti anni addietro, specie alle miande, per riposare.
Non si giustificherebbero altrimenti i modi di dire vernacoli propri della media e alta Valle: El i ven dal jos, letteralmente, viene dalle foglie, el i dörm de sü 'l gios, dorme sulle foglie, intendendo parlare di persona rozza, povera, inurbana, ma anche, lo si noti, di persona nomade, di un vagabondo che trova rifugio qua e là sulle foglie delle stalle e delle tane, tanto che nella media Valle si poteva e ancora si può ascoltare la voce jasset usata come soprannome di persona girovaga (Piere jasset...); così come è tuttora possibile ascoltare queste espressioni senz'altro interessanti ai nostri fini: Vauk dint - o vauk dëdint 'l palho vado nella paglia, vado a letto; oppure: Vauk dint la berleccho ed ancora, sempre con lo stesso significato, Vauk m'empalha, gli stessi modi di dire peculiari di altre regioni ove si è conservata la parlata occitanica.
(LV, 1972, N.3):
Infatti, in un canto della stalla, ove le pareti erano rivestite di paglia ritorta, i liom letteralmente legame o, ma di rado, di assi di legno, si dormiva sul palhôn di foglie o sulla palhoso di paglia, posta talvolta su un pesante e rustico letto di legno, spesso su tavolato di assi appena rialzato dal pavimento in terra battuta, termini corrispondenti alle antiche voci volgari paglacia, paglaza, paglazia (G.Gasca Queirazza: Cose e parole di ieri e di oggi: dagli inventari quattrocenteschi della Crusà di Dronero, Soc. Studi Storici, Archeol. ed Art. della Provincia di Cuneo, N. 62, 1970); e al Sant'Albino: pajassa = saccone pagliericcio ripieno di paglia, di cartocci di granoturco, di foglie; pajass = paglia intrecciata; pajon = canile, cuccia, letto per cani e per simil., di ogni cattivo letto. E cattivo lo era senz'altro.
Si può quindi presumere che la prima abitazione dell'uomo consistesse esclusivamente nella stalla, 'l teyt, quasi sempre seminterrato, adibito al tempo stesso a camera da letto, da pranzo e da lavoro; e nella grangia soprastante.
Il vocabolo dialettale teyt, voce tuttora vitale in molte vallate alpine, corrispondente al provenzale estable, da cui si ha traccia sensibile in alcune parlate della valle di Susa (Oulx: eytable) e del Cuneese, al valdostano stabyo e al piemontese staby e stala, è derivato dal latino tectum participio di tego, tegere, coprire, e proprio con questo significato è probabile che anticamente fosse considerata la stalla: infatti il nome, che ha dato origine a teytet dal latino tectu + ittu piccola stalla, e teytâs da tectu + aceu, grande stalla (Cfr. REW 8609, AIS 1165, ALI 43222, ALF 451), è anche, con i suoi derivati, un toponimo indicante un qualsivoglia rifugio o riparo naturale e no.
Nella stalla, in un angolo, c'era quasi sempre il juk (piem.giuk; valdostano: giôkë; franc.juchoir; it.trespolo posatoio), un bastone posto trasversalmente tra due pareti per le galline, un pollaio, da cui si ha ajukâ, appollaiarsi.
E' interessante notare che tale voce corrisponde, secondo il Credaro, al calabro juccu, pollaio, vocabolo che il Rohlfs riscontra a Laino, sempre in Calabria, come angolo del pollaio dove la gallina depone l'uovo, e che l'AIS c.1139 registra pure in Sicilia: giuccu, come bastone del pollaio, termini probabilmente là importati da immigrati valdesi o dai Normanni.
Spesso in un angolo della stalla c'era il letamaio, in patois lhieâmié, da lheom = letame, Mattie, lhamì e lham, Val Germanasca = drujo, Bassa Valle: druja, come in piemontese, voci corrispondenti al francese fumier e al provenzale fumiè che pure si registra nella nostra Valle; e il jasset e, naturalmente, la kreppio con la variante kreppë, la mangiatoia in legno per i bovini.
Come già ho detto, una gradinata esterna, quasi sempre di pietra, portava alla camera, quando c'era, alla granjo e spesso su una balconata in legno, un ballattoio ove si ventilava il grano con il vaglio, si mettevano i covoni di grano al sole, le patate ad asciugare...
La gradinata, l'èchalo, con le varianti eychâlo, eychale, itsalë nella Val Germanasca, nella media ed alta Valle Chisone, eychalâ nella Bassa Valle, dove la -s- impura iniziale attraverso la fase intermedia es dà esito in ey presentando lo stesso fenomeno che si riscontra nella parlata delle Hautes Alpes in Francia, corrispondente al provenzale escalo e al piemontese skala (ALF c.488), è vocabolo derivato da eychalìe o eychaliè (prov. escalié, piem. skalin; Cfr. ALF 480, AIS 873, ALI 1526), da cui si ha pure il toponimo e nome comune (ei)-caleyras, grossa scala di pietre, da scala + - ariu + - aceu REW 7637); quando la pedata dei gradini era in lastre di pietra, questa era spesso cosparsa da numerose piccole coppelle, era piketâ per evitare scivoloni, con le scarpe chiodate.
Circa l'esito della -s- iniziale seguita da consonante è interessante notare che tale caratteristica fonologica locale va a mano a mano perdendosi: difatti, in alcune parlate nostre si registra talvolta la caduta della -y- nei vocaboli di antica formazione (echalo anzichè eychalo), mentre nelle parole di recente acquisto, per la penetrazione sempre più sensibile del piemontese, si rileva sovente un semplice adeguamento del termine al dialetto locale: di conseguenza, come ebbe a notare il prof.Genre per la Valle Germanasca, dove però sembra non figurare il primo regresso linguistico, si hanno forme anomale a lato di forme regolari in ey-: eychalo, echalo, skalo.
Nell'alta Valle di Susa (ad es.: Exilles) la scala di pietra si dice ichare (plur. ichara), derivante da icharie, scalino (plur.icharin), dove l'esito della -s- iniziale è -i- come spesso si riscontra nel pragelatese; la scala a pioli è detta ichare a baroun (Val Chisone: eychale, echale a baroun) mentre l'ichare sourde è la scala di legno, molto ripida, larga circa 80-90 centimetri, con pedate che si sovrappongono per circa i 2/3.
In ichare si nota il passaggio della liquida -l- a -r- vibrante, tipico esempio di rotacismo di -l-, comune ad alcune parlate della media e alta Val Chisone, di Inverso Pinasca, di Prarostino...(Es.: embrilh, lat. umbilic(u)lu, ombelico; derboun, lat. talpone, talpa, pure piemontese, lionese, delfinese, provenzale; parpalho lat. palpetula, palpebra; ecurilha, lat. excolic(u)la scollatura..), al piemontese (Il Gelindo; dira per dila; dero per delo...); all'idioma di Guardia Piemontese in Calabria (pours, polvere; mèwre, midollo: Cfr. AIS cc 10125), e della colonia valdese di Neuhngstett nel Württemberg in Germania (goura, gola; are, ala; sar, sale...).
Il balcone è tuttora detto .mparo nella valle Germanasca e .mparâ nella bassa valle. Nella media e alta Valle si ha amparo (Fenestrelle), empôno, empane e empare e in alcune parlate, es. Gran Faetto, empô(e)o, dove si riscontra l'attenuazione della -n- intervocalica con la conseguente nasalizzazione e seminasalizzazione delle vocali vicine, fonema che provoca un suono difficilmente distinguibile tra le vocali stesse.
Tale sviluppo si può anche trovare, più o meno sensibile e talvolta ancora in atto come attenuazione vocalica, nel vallone di Pramollo ove la consonante n giunge a un suono così evanescente da fare pensare ad una sua caduta totale fe(n)etra finestra, fu(n)etra... nelle valli di Praly e di Rodoretto (tei, tenere; vei, venire; tere, tenero, gere, genero)...; nella parlata dei Davalens (da Meano a Balme), seppure qui meno accentuato; nell'idioma di Bourcet ove si avverte in modo sensibile la caduta della consonante (la(n)o, lana; mu(n)eo...).
Inoltre il vocabolo empono presenta un caso interessante di dissimulazione inversa con il passaggio di r originaria a n: tale fenomeno si riallaccia al rotacismo di l e di n a r, e di r e l a i; assai diffuso nelle nostre parlate e che purtroppo non è possibile trattare in questa sede.
Emparo è voce che corrisponde al provenzale emparo, uguale propriamente a riparo, difesa, e al piemontese lobya (Cfr. ALI 1514, AIS 870); nella media e alta val Chisone, per influenza dell'italiano balconata, francese balcon, è talvolta anche detto balkunado.
Il balcone aveva a protezione la baríero, bariere; (media e alta Valle Chisone), la bariaro (Valle Germanasca ) e la bariarâ (Bassa Valle Chisone) = barriera, corrispondente al provenzale balustrado, assai diffuso nelle vallate piemontesi di parlata provenzaleggiante (es.Valle di Susa, Mattie), e al piemontese ringera (Cfr. ALI 1516); tale barriera era data da rustiche traverse di legno e più tardi da assi lavorati a mano.
Il vocabolo bariarâ nella parlata della bassa valle serve per indicare il rinfresco di nozze, mentre bariero, a lato di baricaddo, barricata, indica tuttora la simbolica barriera nuziale, una bella e antica tradizione che va scomparendo, barriero, bariere sono pure toponimi diffusi.
Altre volte la gradinata che dava accesso al piano superiore terminava in un semplice balconcino, in un pianerottolo dato da lastroni di pietra e da rustiche assi di legno: questo veniva detto pountin, da pount, piccolo ponte, difatti tali balconcini erano sospesi, a ponte, su stretti carrugi, le charryera, mettendo talvolta in comunicazione abitazioni diverse.
La voce charryero (alta valle: tsarrierë, bassa valle: charryera), riflesso del latino carraria (Cfr. REW 1718), letteralmente uguale a strada carrozzabile, corrispondente al valdostano charrere, nel senso lato di strada, via, è simile al provenzale carriero e, con suffisso lievemente modificato, -è(j)ra invece di -yéra, al ligure che però a Ventimiglia è tuttora vitale nella sua forma primitiva. Charryero, contrariamente alla sua voce di derivazione, nella media e alta Valle indica di solito una strada stretta, un vicoletto disagevole o pietroso, ripido e tortuoso, chiuso tra le case talvolta scavato nella roccia viva o a gradini.
Quando il vicolo è coperto a portico o è cosi stretto da divenire oscuro è detto kuraur corrispondente al francese couloir e all'italiano corridoio (Es. Kuraur della Borgata Berger di Gran Faetto).
Talvolta il pountin serviva come temporaneo luogo di deposito della rammo, della ramaglia in fascine per bruciare e di brousiglia (Pragelato) con la variante brônsiglia (Gran Faetto), corrispondente al valdostano brotta ramoscelli, legna minuta per accendere il fuoco.
Il vano sottostante la rampa di scale, spesso seminterrato o ricavato tra anfrattuosità, era il kroutin, piccola cantina, da krottë (da Mentoulles a Pragelato) krotto (piemontese: krota), cantina, derivato da una supposta voce crupta(Cfr.REW 2349,2), che, nonostante le differenti origini che si vogliono dare, sembra essere nella radice in diretta relazione col diffuso nome comune e toponimo krō, affossamento, avallamento, buca nel terreno, depressione krozu (Cfr.REW II 1362): il kroutin era di soliro usato per riporre attrezzi agricoli o anche le patate, e più tardi venne talvolta adibito a latrina.
Il kroutin, quasi sempre a mezzanotte, si poteva anche avere dietro la cucina; in questo caso il vano, più ampio, poco rischiarato e fresco, serviva come deposito, oltre che per le patate, per il latte, per i prodotti caseari e per attrezzi vari.
L'altro vano necessario doveva essere la granjo, ove l'uomo conservava i frutti della terra e del suo lavoro e i vari arnesi occorrenti; da forconi in legno al vaglio, dalle correggiate allo staio, dalle funi alle slitte, dai cesti ai setacci, al ventouaire (da vente = ventilare)...
La granjo e granje dell'alta e media Valle, corrispondente a granjâ nella bassa Valle, al provenzale feniero, al piemontese fnera, al valdostano grange (nel significato di ala, granaio, podere e come toponimo), al francese grange, voce derivata da granica, mentre in piemontese significa propriamente il locale ove si mette il grano (Sant'Albino), nel nostro patois designa il luogo adibito contemporaneamente a pagliaio, granaio e a fienile (Cfr. ALI 3695, AIS 1401, REW 3845). Granje, Granja, Gange sono pure toponimi diffusi.
Una parte della granjo, spesso col pavimento lastricato in pietra, talvolta in rustiche assi di legno, era lasciata libera per potervi trebbiare il grano: questa era detta iere, iero o ayro nell'alta e media Valle, corrispondente a ayrâ della bassa Valle ed a ayra del piemontese, nel significato lato di aia per trebbiare, ed a iero del provenzale, nel senso lato di cortile (Cfr. ALI 1498, AIS 1468, ALF 20).
Ayro <area, dà vari derivati: ayretto (area + etta), piccola aia; ayrol (areale: Cfr.FEW I,135), aia, piazzale che serviva per trebbiare o anche stesa di covoni che devono essere trebbiati o, semplicemente, pianoro ventilato, ed ancora spiazzo sul quale si erge una carbonaia per la cottura del carbone di legna, la tsarbunierâ < carbonaria (CFR.REW 1675), attività ancora assai diffusa nell'immediato dopo guerra nel Vallone di Dubbione: tali termini, oltre ad essere nomi comuni, sono noti come toponimi (Es. Gran Faetto).
Nell'alta Val Germanasca ayro serve anche per designare il cortile attiguo alla casa, mentre nella media e alta valle Chisone in questo senso è più comune l'uso di kourtial < cohortile (REW 2033) e di bâso-kourt, derivato direttamente dal francese basse-cour, cortile attiguo a fabbricato rustico, e nella basse valle kou(a)rt, corrispondente al piemontese kourt derivato dal latino curte (Cfr. REW 2032).
Il vocabolo kou(a)rt presenta il caratteristico inserimento di un suono debole a: tale fenomeno, che si riscontra pure nelle parlate della Linguadoca, di Trièves, nell'Alverno-Limosino, è dovuto all'alterazione fonetica della dittongazione neolatina di o e di e brevi dinanzi a l e r in sillaba tonica. Tale dittongazione si è estesa ad i ed u per analogia (Cfr. Dauzat).
Kourt, kourtil e kourtial in alcuni villaggi della valle indicavano pure lo spiazzo in comune antistante abitazioni diverse (Gran Faetto) o anche una vera e propria piazzetta, un luogo pubblico di riunione, talvolta di culto, ove spesso si trovava il forno, la fontana, l'abbeveratoio ed ove si trebbiava il grano (Feugiorno di Pramollo, Champs di Fenestrelle...).
Nella parlata della media e alta Valle la voce kourt serve pure ad indicare il gabinetto, o meglio l'antica latrina, quasi sempre posta nell'orto o nel cortile attigui all'abitazione, data da una semplice fossa, con un rustico asse posto a traverso di essa, riparata da frasche tutt'attorno. Forse proprio la sua ubicazione, si noti che nel francese antiquato la voce courtil significa piccolo orto, giardino di casa di campagna e nella valle d'Aosta kourtì oltre che per cortile è pure usato (secondo il Nigra) per giardino, giustifica l'uso di dire ano'a l'ort per andare al gabinetto, pur mantenendo la voce ort, plurale ors, derivata dal latino hortu, nel senso di orto e giardino: anche questo termine è un toponimo assai diffuso.
Nella parlata di alcuni villaggi della media e alta Valle Chisone la latrina è invece detta fourik (Mentoulles-La Latta) e fourikke (Pragelato) termine di probabile derivazione dal latino forica.
L'altra metà della granja era in parte adibita a jasset, luogo di raccolta delle foglie per la lettiera del bestiame, che, però, poteva anche trovarsi nella stalla; e parte serviva per ammucchiare il fieno, lu fen per fare la kuccio (nella Media e alta Valle) o il maceyron (bassa Valle). La prima voce, corrispondente al provenzale couche, ha dato origine alla forma verbale akucho , ammucchiare il fieno, termine che viene ora lentamente soppiantato da amouto, da motto, derivato dal piemontese mouta (Cfr.ALI 3639, AIS 1399, ALF sup.I).
Il luogo adibito a fienile era detto mârk o mork, dal francese marque, marchio, segno, difatti tale spazio era chiaramente delimitato.
Sopra la granjo vi doveva essere, come tuttora si trova in vecchie abitazioni montane, un tavolato, il planchié o planchìe, da plancho francese planche tavola di legno, composto da rustiche assi, pot (plur. pots) provenzale: post, piemontese: as; Cfr. ALI 5986, AIS 556), piallate a mano, futyâ nell'alta Valle, futya nella bassa Valle, voci corrispondenti al delfinese fustya e al piemontese rabutà (cfr. ALI 6057, AIS 225 Cp.).
Il planchie poggiava su travi (traw o trau) trasversali: le due posti ai lati del vano, lungo i muri portanti, le più grosse e robuste, erano spesso sorrette da pesanti massi di pietra sporgenti dal medesimo muro maestro; lo stesso avveniva per i soffitti pavà o a listel.
Qui, sotto il tetto in laousa, si ammucchiavano il fieno, se il raccolto era abbondante, e le fascine di paglia, la palho e palhë nell'alta e media Valle, la palhâ nella bassa Valle, derivate dal latino palea e corrispondenti al piemontese paya, al delfinese e provenzale palho (paglio) (Cfr. Ronjat II, pg.359).
A palho si può forse accostare la voce verbale paliora(r), partorire, delle colonie valdesi in Germania: difatti, contrariamente all'opinione espressa dal dott. Hirsch, secondo il prof. Grassi il vocabolo non deriverebbe da un supposto partiorar a sua volta da partoriar e da partorire: ciò, probabilmente, è dovuto ad un errore di trascrizione (l per t) da parte del Rösiger, infatti nella nostra Valle è diffusa l'espressione ese 'd palholw ('d palholo) per avere partorito; inoltre il piemontese ha payoulà, puerperio, e palyoula, puerpera; il valdostano e il valsoanese hanno palyola, puerperio, e impayolaye, puerpera.
In palho, con la variante palhe, si riscontra il passaggio a l palatale del nesso originario latino -lj- e -le-, passaggio che non si rileva nel delfinese, nel Limousin e nella Provenza e in altre parlate occitaniche, che nel piemontese dà esito -y-: paya e che appare invece nel provenzale letterario.
Tale vano è tuttora detto pantèria nella media o alta Valle, pantëliero nella valle Germanasca e pantalérâ nella basse Valle per influenza del piemontese pantalera, significante, secondo il Sant'Albino, pendente, pendice.
Spesso, immediatamente sotto il tetto, a lato della pantèría e sopra la cucina o la camera (la granjo si trovava quasi sempre sopra la stalla), c'erano dei piccoli vani, bassi freddi areati, delle piccole soffitte o solai che servivano come ripostiglio per attrezzi, ferrivecchi e ciarpame d'ogni genere: tali vani erano detti di norma souliè mourt (es. a Gran Faetto), o galatas, galëtos (es. a Fenestrelle), voce corrispondente al francese galetas, spazio tra l'ultimo piano e il tetto con aspetto miserevole, e al valsegusino galtas (es. a Mattie), con lo stesso significato.
In alcuni paesi della Valle, es. San Martino di Perrero, il termine galëtos non è usato e tale vano viene detto soltanto soulìe mourt: solaio morto: tale denominazione, corrispondente al piemontese soulé mort, si vuole per tradizione popolare che derivi dal fatto che un tempo il solaio servisse come deposito temporaneo ed invernale dei cadaveri, non avendo la possibilità di portarli e di seppellirli nel cimitero a causa del gelo intenso e dell'alta neve; pure non escludendo, più semplicemente, che fosse così detto perché inservibile a qualsivoglia uso.
Il termine soulé mort si trova pure nel piemontese della commedia giacobina Le ridicole illusioni, nel senso di palco morto immediatamente sotto il tetto ed inservibile.
-Ié- e -ie di souliè (media valle) e soulìe (Val Germanasca, parlata davalino, pragelatese) è il nostro esito normale del suffisso latino -arjus, di contro ad alcune parlate provenzaleggianti cuneesi ove a lato di -ié si ha -ier es. Pietraporzio (come registra il prof.Grassi in un suo pregevole studio su tali dialetti), della valle franco-provenzale di Susa, ove a Mattie, ad es. si ha -i: soulì, anche toponimo; dell'idioma franco provenzaleggiante della valle Cenischia ove solarius, per influenza del linguaggio della Maurienne, dà soulì(l), essendo la vocale preceduta da palatale (Cfr. Terracini); e al piemontese che ha il passaggio in -é: soulé.
Nella nostra valle soulié è anche toponimo: es. Soulié, borgata tra Villar Perosa e Dubbione, il solaio della antica villa.
(LV, 1972, N.4):
Quando poi l'uomo sentì la necessità di avere un nuovo vano si ebbe la cucina, locale che dovette servire per lungo tempo come soggiorno e camera da letto: la "meyzoun"; soltanto in epoca recente, difatti, si ebbe la vera e propria camera, la "chambro" e "chambre" nella media Valle Chisone, "tsambre" nel Pragelatese, "chambro" nella Val Germanasca, "chambrâ" nella bassa Valle, voci corrispondenti al provenzale "cambro", al francese "chambre" e al piemontese "stansya" (cfr.: ALI 1050, AIS 874, ALF 224), vocabolo ormai diffuso anche in Valle con il solo adeguamento dell'esito vocalico finale: "stansyo".
In "chambro" in "chambre" si riscontra la palatalizzazione del nesso latino "c + a", fenomeno che doveva già essere in atto nel XIII secolo come sembra risultare dalla grafia "ch-" di un documento notarile del lontano 1273 concernente il possesso dei pascoli del Monte Bociarda; che si ritrova in alcune forme che figurano nei testi valdesi di Pragelato ("chavun", "chamin"..) e in altre, numerose, dei documenti della Comunità di Mentoulles del 1514, 1515, e del 1549; mentre a Guardia Piemontese, colonia valdese che ebbe rapporti con le nostre Valli fino all'inizio del XVI secolo, si ha, secondo l'AIS, "chabrë" (capra), palatalizzazione che si riscontra pure nel ladino dell'Engadina: "chavra" o "chevra", capra. Nel Pragelatese, come in alcune parlate della vicina valle di Susa, es. Meana, Oulx, si ha invece un suono dentale "ts-": "tsambre" camera.
"Vaouk aout", "Siouk aout", letteralmente "vado alto" e "sono alto", sono tipici modi di dire vernacoli per esprimere "vado al piano superiore", "sono al piano superiore", ossia "sono in camera".
Veniamo così alla cucina vera e propria. A.Doro, in un suo studio, descrivendo il focolare delle antiche cucine montane chiamate in ligure "u testu", la testa, giustifica tale modo di dire con la presenza di una testa umana scolpita anticamente sopra l'architrave del camino in pietra o sul portale d'ingresso della casa.
Nella valle del Chisone è possibile sentire chiamare "tèto" della cucina o "tèto dla meyzoun" ed ancora "tèto da fournel", testa del camino, il comignolo, forse perché posto in alto e con aperture che possono ricordare gli occhi della testa umana.
Ai fini della determinazione idiomatica del nostro patois può in un qualche modo essere indicativo proprio il termine "tèto": il gruppo consonantico latino "-st", conservato nel provenzale ("testo"), nella nostra parlata si risolve nella caduta della "-s-" come nel provenzale settentrionale e dileguando, soprattutto nei nessi "-s + esplosiva", provoca un allungamento fonetico della vocale precedente mentre l'esplosiva subisce il trattamento della consonante iniziale.
Certo è che l'antico focolare, il "fouiè" o "fouìe" nella nostra parlata, corrispondente al provenzale "fouguìe", al piemontese "kamin" (Cfr.: ALI 736, AIS 931, ALF 1571), al valdostano "cémenâ" doveva avere una parte di grande importanza nel momento della costruzione e soprattutto un valore pratico e simbolico rilevante.
Dal francese "cheminée", camino caminetto, nel nostro dialetto, con diverso valore semantico, si ha "sceminé" (Mentoulles La Latta), parola che indica l'architrave di legno soprastante la bocca del camino.
Nella Valle del Chisone, come in tutte le valli alpine piemontesi si possono ancora trovare congegni vari a catena, mobili e girevoli, per spostare i paiuoli; così come è facile vedere tuttora in uso le catene di sospensione, lei "cheyna", voce corrispondente al valdostano "kremaklyo", al lionese "kurmaclio", al francese "crémalliére" (Per la parola "cheyno" rimando a pag.10 del precedente numero di "La Valaddo").
Fino ad alcuni decenni or sono si potevano ancora vedere alcune cucine valligiane davvero tipiche per l'arcaico e imponente camino che occupava spesso una intera parete. La cappa, molto ampia, in massi di pietre sovrapposti, era sostenuta da una grossa architrave di legno rozzamente squadrata; tra la cappa e la parete c'era un tirante di ferro al quale erano appese le catene del camino. Il fondo della parete presentava di solito una apertura simile ad una feritoia rovesciata per aerare l'ambiente e per la fuoriuscita del vapore e del fumo: era posta a m.1,50 circa dal piano del pavimento ed era alta om.50 per cm.5-10 di larghezza.
A ridosso di tale parete c'era un ripiano in lastre di pietra, alto cm.50-100 e largo cm.50-80 circa, che aveva alle estremità due fornelli con aperture esterne (una cucina del genere, che ancora si presenta intatta a Mattie in val di Susa, presenta una cappa lunga circa m.3 e larga m.2; ha tre fornelli, sfasati, con il camino centrale; sull'architrave porta una data intagliata: 1848): quella frontale, la bocca, di norma era quadrangolare e serviva per introdurre la legna o il carbone di legna nel focolare; su quella superiore, quadra o circolare, si poggiavano i recipienti piccoli per la cottura delle vivande sul fuoco. Davanti e in posizione centrale rispetto i fornelli, un poco in rilievo rispetto al piano del pavimento del vano (cm. 10 circa), spesso limitato da lastre di pietra conficcate verticalmente per trattenere la cenere e la brace, c'era il vero e proprio camino (latino: "camínus" dal greco "kamínos", forno, fornello) e qui cadevano le catene mobili e girevoli, a volte sostenute da un albero a squadra girevole su un grosso masso, per appendere e spostare i grossi paiuoli: il fuoco, qui davvero divampante, serviva, oltre che per cuocere cibi, anche per illuminare e, naturalmente, per la sua stessa posizione avanzata verso il centro del vano, per riscaldare la cucina (latino classico:"culina", tardo latino: "cocina", variante di "coquina", derivato da "coquere", cuocere, francese: "cuisine"; provenzale: "cousino"; patois valligiano: "mayzon" a lato delle nuove forme"kuzino" e "kuzine" derivate dal piemontese "cuzina"). Anche il piano sottostante il camino era dato da lastre di pietra. La caratteristica é nell'insieme della cucina, che sembra richiamarsi ad antichi principi strutturali mediterranei e romani.
Recentemente, durante lavori di sterro nella borgata Mey di Gran Faetto è stata rinvenuta una lastra di pietra rettangolare che, usata come materiale di reimpiego, un tempo era posta sul ripiano di un vecchio focolare: lunga circa cm.80 e larga cm.40, presenta due fornelli quadrangolari con il lato di cm.20 circa.
Nei Regolamenti e nei Bandi Campestri di Mentoulles del 27 luglio 1741, all'articolo 6, si legge che i "mansié", tra i loro numerosi incarichi, dovevano anche provvedere a fare pulire i camini quattro volte per anno e avevano la possibilità di fare abbattere, a spese del proprietario, quelli ritenuti pericolosi: questo per evitare ogni possibilità di incendio.
Inoltre era vietato di fare fuoco oltre le ore 21, anche se era in atto il bucato di ceneri, il ranno, "l'abeò", che doveva essere rinviato al giorno successivo. Non solo: era fatto divieto alle persone che non avessero 15 anni di andare dal vicino a prendere o a portare il fuoco per il pericolo che ne derivava; ed era sempre compito del "mansiè" vigilare perché il fuoco si portasse in un recipiente coperto da una pietra per evitare che l'aria potesse provocare qualche scintilla: il che fa presumere, come ho visto ancora fare negli anni precedenti l'ultimo conflitto, che ci fosse un continuo scambio di brace e di tizzoni ardenti tra famiglie vicine per fare economia di fiammiferi.
Avvalora tale asserzione un nostro antico proverbio della val Germanasca (Massello), comune della valle del Chisone; "Ki vol dë fuëk, vai dount la fummo" , chi vuole del fuoco va dové fuma, corrispondente a quest'altro pure raccolto dal prof.T.G.Pons ad Angrogna: "Ki vô d' fuik, vai ar luik", usati anche in senso figurato: si chiede aiuto a chi lo può dare.
Sempre secondo i documenti di Mentoulles i "mansié" dovevano infine vigilare perchè non vi fosse paglia o grano vicino ai camini ed alle canne fumarie (con poche varianti le stesse disposizioni figurano nei Reglements politiques et Bans champetres di Fenestrelle del 13 febbraio 1749: in nota riporteremo i relativi articoli).
Ancora una osservazione: la parete della canna fumaria ("fournel") posta verso l'interno dell'abitazione, ampia di norma 40-60 cm. per 30-40 cm. e ripulita spesso con semplici rami di ginepro legati ad una lunga fune, era di solito costituita da lastre di pietra sovrapposte e strettamente combacianti in senso verticale e poi rozzamente intonacate, per favorire il tiraggio ("tiragge") della stessa e per evitare che la caluggine (bassa Valle e val Germanasca: "sùa"; media e alta Valle: "si(o)à"; provenzale: "sujo"; francese: "suie") potesse pentrare tra pietra e pietra verso l'interno.
Concordante con il piemontese è il termine "spazzacamino" "eypanchofournel" (val Germanasca) e "spachafournel" (bassa Valle); nella media e alta Valle è invece diffuso "ramounayre" (o "ramônayre") dal provenzale "ramounaire" (francese: "ramoneur"): le voci verbali "eypanchâ" e "spachâ" concordano con il piemontese "spachè" e "ramouno" (o "ramônâ") con il provenzale "ramouna" (francese: "ramoner").
(LV, 1973, N.5):
Ritengo opportuno terminare questo intervento con qualche cenno di carattere generale sull'arte della costruzione e su alcuni antichi accorgimenti tecnici che si possono ritrovare nelle nostre dimore.
Come ha già notato Gian Carlo Soldati in "Coumboscuro" per le abitazioni cuneesi, anche qui la sovrapposizione di grandi massi squadrati, a disposizione alterna per la ripartizione dei carichi, assicura tuttora ai muri e in particolare agli spigoli delle case la resistenza necessaria alle intemperie ed ai carichi nevosi; mentre le aperture, porte e finestre, secondo una soluzione antica, mediterranea e preromana, sono talvolta sormontate da architravi massicci e pesanti di pietra levigata o da grossi tronchi di conifere rozzamente intagliati, essendo il legno, con la pietra, l'elemento principale dell'architettura locale. E di legno, naturalmente, sono le porte, quasi sempre in rustiche tavole di lerce unite da grossi chiodi battuti a mano: il vocabolo porta che nella media e alta Valle suona porto e porte, nella bassa Valle (Inverso Pinasca) presenta l'inserzione di un suono debole a davanti a r in sillaba accentuata: pò(a)rtâ. Talvolta si ha anche portâl, ma solo quando si tratta della grande porta d'ingresso oppure quando si tratta della pesante e tipica della granjo a due battenti, di cui quello fisso laterale è di solito grande un terzo dell'altro: questa porta, come spesso l'uscio della cucina e della stalla, presenta in basso una piccola apertura, la trappo, buco che permette il libero ingresso al gatto o ai gallinacei di casa: tale vocabolo corrispondente al francese trappe, al provenzale trapo e ai piemontesi trapoun tarpoun e tarboun, talpa (patois valligiano: darboun a darbôn), si registra pure con quest'ultimo significato a Lauria, colonia gallo-italica lucana (Rohlfs: trappone), e deriverebbe dal franco trappa = laccio, da cui l'italiano trappola; secondo il Devoto sarebbe voce longobarda.
L'architrave nel nostro patois è detta souvrò, sôbrò e tzovrò, ciò che sta sopra, soprastante, vocabolo che presenta la sonorizzazione della -p- latina in -b- nel provenzale, tendente nella parlata della bassa Valle a -v- (provenzale: soubra, dominare, sovrastare; da soubre, preposizione e avverbio, sopra; su; da cui il nostro soubre e dë soubre, di sopra).
I giunti tra i massi sono dati da un rinfazzo di semplice terra argillosa (Es. la chousino dla Kômbo di Gran Gaetto) e in alcuni paesi di calce naturale: qui già anticamente erano in attività le fornaci per la cottura della pietra calcarea come dimostrano numerosi toponimi (Es.Le Fournoze di Fenestrelle, la Fournazo di Massello, la Fournaze di Laval...)
La tenuta e l'assestamento dei giunti medesimi consiste, ma di rado, in lamine di ferro inserite a forza tra i pietroni o, di norma, come molte vecchie abitazioni ancora presentano, in pezzi di tronchi d'albero, "la boura, squadrati e posti trasversalmente per ancorare e livellare il muro, mentre tronchi verticali sostengono il pesante tetto di lastre di pietre ottenute da cave di rocce metamorfiche lamellari particolarmente abbondanti nella zona.
Tali cave sono dette nella nostra parlata karriera, termine corrispondente all'idioma della valle della Dora (Es.: Mattie). Le lastre di pietra si dicono invece laouzo: tale vocabolo della Media Valle, con le varianti lauze (media e alta Valle), lawzo (Val Germanasca), lawza (bassa Valle), corrispondente al piemontese loza e al provenzale lauso (dove, come nelle nostre parlate si nota le conservazione del dittongo originario -au- che in piemontese dà normalmente esito o), deriva, secondo il Ronjat (I, paragrago 116), dal gallico lausiae.
Laouzo è termine assai diffuso come nome comune nei suoi derivati e alterati (laouzetto, laouzarot piccola lastra; laouzôn = grande lastra di pietra), in nomi composti e come toponimi: Laouzo di Villaretto, Laouzoun (lago), Laouziera, Gran Laouzo...
Un antico proverbio nostro dice: ôn kubert 'd laouza ben faet, a duro sent ans aprè sôn patrôn, ossia: un tetto di lastre di pietra ben fatto dura cento anni dopo il suo padrone. Un fatto è certo: tali costruzioni sono veramente centenarie.
Il tetto é a due spioventi (provenzale: aigo pendènt o versant o verso da cui il verbale versa, versare; patois vèrso, versante, spiovente da cui plaure a vèrso, piovere a rovesci, corrispondente al francese pleuvoir a verse e al piemontese piövi a vèrsa) abbastanza inclinati per evitare un eccessivo e prolungato carico di neve ed è sostenuto da tavole di larice, quelle che nel nostro patois sono dette ichandèllo o eychandello (media Valle) e itzandelle (Pragelatese), corrispondenti al valdostano tsandelle, disposte su forti travature.
La trave di larice posta alla sommità del tetto é detta fetre e in alcuni villaggi charpanto (francese charpente a lato di potrail; provenzale charpente a lato del più diffuso enfustage; piemontese kourmou; da charpante si ha charpentié, carpentiere; francese: charpentier; provenzale: fustiè): questa è il vero sostegno del tetto e della casa, tant'é che nel nostro patois in senso figurato ancora si usa dire: ël fetre dla meyzoun, dla famigho, il pilastro , il capo della casa, della famiglia; e ancora: uno meyzoun senso fetre, una casa senza capo.
Le travi poste lateralmente a sostegno degli spioventi del tetto sono dette kôtono o koutono, da kôto, costa, pendio; mentre la loro parte sporgente, i puntoni del tetto, e talvolta anche le travi più corte aggiunte in un secondo momento a sostegno del tetto, sono denominate chabrôn o chabroun, termine corrispondente al provenzale cabrioun = corrente, puntone del tetto da chabro e, con lo stesso valore semantico, al francese chevron (da "chèvre").
Il Rohlfs ha riscontrato nelle colonie gallo-italiche di Trecchina e di Rivello capriùolo e capriulë, identiche a capriolo, che derivate dal provenzale, sarebbero corrispondenti all'italiano capriata, termine dell'arte architettonica consistente in una struttura portante a triangolo che sorregge il tetto, derivato dal latino capréa = capra selvatica unito al suffisso collettivo -ata.
Il tetto è detto, dal latino coperculum, coperchio, kubèrt, da cui si hanno le voci kubèrsél e, nella bassa Valle, la forma contratta kursél, corrispondenti al provenzale cuberceu e al piemontese kuverch, coperchio di un recipiente qualsiasi e kubersèlle per coperchio della vecchia stufa di ghisa (il pouèle) e le voci verbali kubrì, körbì (media e alta Valle) e kuvrì nella bassa Valle per influenza del piemontese kövri e corrispondente al provenzale kurbì, dove si rileva il passaggio della -p- originaria latina, cooperire, a -b- o a -v-.
Spesso il tetto presenta grosse grondaie scavate in tronchi di larice con una accetta a lama ricurva: il termine patois chenol, grondaia, con le varianti chenal (Val Germanasca) e chëal (bassa Valle: Inverso Pinasca), corrispondenti al piemontese groundana, al francese chenal e al provenzale canau (Mistral; Pichot Tresor), é anche nome comune toponimo indicante uno stretto e lungo impluvio.
I leganti delle nostre costruzioni si presentano spesso sotto forma di caratteristiche grosse chiavi di legno per inchiavardare i muri, la klaou: nel tronco trasversale che sporge dalla parete é infilato a mo' di chiave un pezzo di legno verticale più piccolo; oppure la chiave à data da tronchi con ramo a cavigliolo, a chavilho o chavilhe e nel Pragelatese tsavilhe (francese: cheville; provenzale: cavilho, caviglia). Chavilho ha dato il nome all'attrezzo e al tradizionale giuoco che si svolge il giorno di Pasqua a San Martino di Perrero, la krino-kavilholo.
Nel termine klaou e klaw, chiave, come nel provenzale e nel reto-romanzo (Engadina: clav o clev) si può notare la conservazione del gruppo consonantico latino -cl-, clavem, che nel piemontese dà invece esito fonetico -c+i-: ciaou.
Oltre al diffuso e veramente caratteristico uso dell'arco e della volta, propria della cucina e della stalla, questa spesso con pilastro portante, che la tradizione popolare vorrebbe più antica come cultura architettonica, con ogive a crociera o a doppia crociera in navate quadrate o rettangolari, è interessante notare, per la cucina e le camere, ma non per la stalla, la tecnica del plafon pavà, del soffitto piano in pietre disposte, a forza, di taglio, a pavè (provenzale: pavat e pava; francese: pavé e paver) tra travi trasversali, poste come armature interne tagliate a forma trapezoidale, unite con malta grassa.
Sia i soffitti a volta (a vaouto; provenzale: vouto; francese: voute; italiano: volta; part. pass. femminile di volgere) sia quelli pavà si dimostrano particolarmente resistenti al tempo e di difficile costruzione. Il termine vaouto, da cui si ha la voce verbale vaoutà, per fare il soffitto è anche, soprattutto al plurale, la Vaouta, toponimo assai diffuso.
Solo più tardi, in epoca relativamente recente, i vani superiori, per influenza d'oltr'alpe, ebbero talvolta soffitti a listel, a listelli di legno posti trasversalmente a brevissima distanza l'uno dall'altro, intonacati e uniti dal gesso 'l js misto a malta o a sabbia. In questo caso il vano sopra il soffitto era inservibile, poiché era naturalmente di portata assai debole.
Talvolta anche le pareti divisorie, come in Valle di Susa (Mattie), erano a listelli, qui sovrapposti e rambuka, intonacati, a gesso dalle due parti.
Oltrepassata la soglia della casa, (il lindòl e lindàl, bassa valle indàl o sôgliâ, corrispondente al provenzale lindou o lindau = soglia e lindaniero = pietra della soglia, al piemontese söya e al francese seuil) in pietra o in legno, in rilievo, che serviva come arresto alla porta, il pavimento dell'atrio d'ingresso, quando c'era, della cucina, talvolta della stalla nella sua parte adibita ad abitazione dell'uomo e spesso anche della camera da letto, era dato da lastre di pietra, i karons.
Nelle Alpi Marittime sono frequenti i toponimi e i derivati dalla voce comune kaire per roccia a punta. Tratta dal latino quadrum, quadro quadrato (REW 6921), si è probabilmente sviluppata per l'influsso della supposta base preindoeuropea ka(r)ra o ga(r)ra, pietra.
Nel nostro patois oltre alla voce kayre, corrispondente al provenzale caire, accanto, a lato e ai piemontesi part, kantum, angolo a lato, luogo vicino, a parte, ed ekayre, arnese ad angolo, a squadra, termini che sembrano richiamarsi all'idea di roccia squadrata a punta, ad angolo, si ha appunto karon, voce che come nome comune concorda appieno con le basi citate nel senso di pietra squadrata per lastricati vari (pavimenti, tetti...), e, come toponimo, alla voce latina, significando difatti un appezzamento quadrato di terreno.
Oltre karon, originato da cara+one, ove si ritrova l'antico suffisso indoeuropeo, il patois ha karà, quadrato, corrispondente al francese carré, dove il nesso di origine latina qu- si è ridotto a k-, participio usato come sostantivato; de karon deriva la voce verbale karonâ, fare o sistemare lastre quadrate di pietra, pavimentare , lastricare strade, ecc.(es. karonâ 'l teyt, lastricare la stalla), infine si ha ekarò(media e alta Valle}, eykarò(Val Gemanasca e bassa Valle) corrispondenti al provenzale escarra e al piemontese sghié, nel significato di sdrucciolare, scivolare sulle pietre; mentre le voci s'ekarüsò (alta e media Valle), s'eykarusâ (Val Germanasca) e eykarüsase (bassa valle} indicano l'azione di scivolare sulla neve.
Il prof. G. Rohlfs, riportando dal Credaro (pag. 115), la voce scròi dirozzare come relitto valdese in Calabria, dopo aver accennato ad una passibile derivazione da un supposto provenzale escrojir, a sua volta da croi, in un secondo tempo ha avvicinato tale termine alla voce della Linguadoca escayri (Cfr. il prov. escaire, ekayre, terreno ad angolo, a squadra), corrispondente al francese équarrir., couper en équerre, tagliare a squadra, e al sostantivo provenzale escorrissage, corrispondente al francese équarrissage usato nell'Aveyron per squadratura: tutti vocaboli che sembrano chiaramente corrispondere semanticamente e nell'etimologia al nostro kayre (Cfr.: G. Rohlfs: Studi e ricerche sulla lingua e sui dialetti d'Italia, Sansoni, pag. 223; G. Rohlfs: Dizionario dialettale delle Tre Calabrie, II, 254; Lou Pichot Trésor. Dictionnaire provençal français et français-provençal).
Rari e dovuti soltanto all'estro di qualche valligiano, sono invece i pavimenti dati da piccoli tronchi di duro legno (quasi sempre di albourne, maggio ciondolo) infissi verticalmente nella terra a formare un pavé (Pragelato..).
Le costruzioni rustiche di alcune valli cuneesi (es. Valle Varaita) presentano tuttora sui portali delle case, sotto i tetti o sui muri, secondo una tradizione arcaica, la raffigurazione della testa umana, talvolta raggiata, a significato protettivo, simbolico e magico religioso.
Tale usanza nella valle si è persa e sono poche le case che conservano una qualsiasi iscrizione a lato o sull'architrave della porta d'ingresso, la sôvrô spesso è semplicemente ricordato l'anno di costruzione (en moi de may... en juin...: Usseaux) unito talvolta, soprattutto nella media e alta Valle a un rustico simbolo di gigli e di delfini di Francia con motivi geometrici e ornamentali che ricordano la lunga dominazione d'oltr'alpe (gli stessi che si ritrovano sulle pietre delle fontane: Usseaux, Granges di Pragelato in data 1614), sui battacchi dei portoni...) e di croci, sia richiamartisi al simbolo apotropaico cristiano sia all'emblema sabaudo (fontana di Traverse: 1750; fontana di Plan di Pragelato: 1749) e di rustiche immagini della tradizione iconografica cristiana.
Naturalmente tali motivi decorativi nulla hanno a che fare con l'antica tradizione alpina: ciò nonostante, oltre alcune antiche ed interessanti meridiane, vorrei segnalare una pregevole pittura a graffito che appare su una casa forse trecentesca di Souchères Hautes e che consiste in fasce decorative stilizzate: rami e foglie, fiori, spunti geometrici; gigli e delfini, risalenti all'epoca della dominazione delfinese.
Unica nota di rilievo che ancora riscontriamo secondo le antiche tradizioni alpine sono i fiori di San Giovanni e il cardo che talvolta ancora si vedono sulle porte di casa.
Una caratteristica che molte nostre abitazioni invece conservano è data da grossi buchi quadrangolari nei muri esterni, a distanza e altezza regolare.
Tali cavità servivano come punto d'appoggio per i ponti dei muratori per innalzare il muto di una campata e, smantellato il ponte, dopo essere stati chiusi all'interno (ma non tutti: nella granjo di solito si mantenevano) si conservavano esternamente usufruendone per eventuali successive riparazioni.
Osservando l'insieme di alcune nostre vecchie abitazioni, ancora non riadattate e restaurate secondo le tecniche moderne, si può infine rilevare che i nostri vecchi basavano la costruzione essenzialmente sulla solidità e sulla funzionalità spesso disprezzando l'armonia dell'architettura nella ricerca di un punto stabile per le fondamenta, dato spesso da roccioni o cavità naturali riparate e dell'orientamento verso il sole, nelle volte basse, nella strombatura spesso asimmetrica delle finestre al fine di ricevere più luce o più sole, ma al tempo stesso piccole per meglio ripararsi dal freddo e per evitare la tassa sulla "luce" (Fenestrelle) e nelle stesse diverse dimensioni delle aperture della stalla o della granjo, della cucina e della camera da letto.
Concludo citando una disposizione delle Ordinanze Comunali di Mentoulles del 1515, che, pur nella sua scarna formulazione, si presenta per quei tempi come un vero regolamento edilizio: nulla persona cujuscurque gradus, status et conditionis existat, audeat vel praesumat principiare aedificare aut alias quovismodo facere domum, habitationem, cabitam, ramatam sive mas agnorum, ullo tempore in communibus totius finis et territorii dictae Universitatis affranchimenti Mentolarum sine licentia sindici et consulum qui nunc sunt...", ossia: nessuna persona, chiunque essa sia, potrà costruire nel territorio del Comune, in qualsiasi modo, una casa ad uso abitazione in muratura o una semplice baracca di legno o un ovile senza la licenza del Sindaco.
E anche allora i trasgressori erano puniti con una ammenda.
NOTA. Con "Deliberation du Conseil ordinnaire de la Communauté de Mantoule concernant l'observation de leurs Reglements, et Bans Champetres" approvata nell'"an du Segneur mil sept cents quarant'un et le 27 jour du mois de juillet apréz midy", all'articolo 6° si stabiliva che i Mansiers "...vailleront exactement aussy a faire ramacer et netoyer les cheminées quatre fois par an, les visiteront, et si quelque particulier en à a quelcune de mauvaise, et dangereuse s'il ne l'accomode les manciers pourront la jetter en bas a fin d'eviter un accident de feu et les particuliers, outre ca payera quatre livres d'amande. Ceus qui n'auront pas nettoyé leur cheminée, dés qu'ils en seront avertis, payeront deux livres d'amande, et si le feu se met à la cheminée de quelque particuliers il payera six livres d'amande a la Communauté pour chaque fois. Ils veilleront que personne ne fasse feu chez L; passò les neuf heures du soir quand même ce seroit pour lassive la renvoyer au lendemain de jour de même au soy. Il est deffendu a personn d'aller chez son voisin, n'ychez luy porter du feu par personne qui n'aye atteint l'age de raison, ce qui en connoisse le danger c'est a dire que chaque personne qui pourra eller chercher du feu doit avoir au moins quinze ans et le porter dans un instrument couvert de lauze ou pierre ou autrement que l'air ny le vent ne puisse en sortir aucune eticelle sous peine a chaque et chaque personne de quatre livres d'amande. Les dits manciers feront la visite a l'entour et depuis le bas jusques le haut au dict cheminées et defendront de mettre contre icelles n'y paille n'y grain c'est a dire aucune...".
Il manoscritto da noi consultato é purtroppo mancante di alcune pagine relative all'articolo in questione e a quelli successivi. Anche per questo, e per un eventuale confronto con il documento della Comunità di Mentoulles, riteniamo opportuno riportare integralmente l'articolo 6 dei "Reglements politiques et Bans champetres" di Fenestrelle del 13 febbraio 1749, che, con p• che varianti, tratta dello stesso argomento.
E' interessante notare la cura e l'importanza che i nostri Padri davano ai "camini", ma la disagevole viabilità e la carenza dei mezzi di trasporto, gli insediamenti valligiani con le case addossate le une alle altre, i frutti della campagna ammassati in pochi locali e facilmente infiammabili, la scarsezza o la totale mancanza dei servizi anti-incendi giustificano tali scrupolose disposizioni.
"Il sera observé dans tous les Ameaux de cette Com.té ainsy que de tout tems a eté en usage d'avoir des Procureurs ou Mansiers et a defaut des memes les Conseillers de chaque Quartir qui devront surveiller a faire faire une garde ou guet pendant la nuit de deux ou plus d'homme et faire observer qu'on ne fasse des grands feux dans les foyers des maisons pendant la nuit, qu'aucun enfant au dessous de douze ans ne puisse eller prendre du feu d'une maison a l'autre et le feu couvert de maniere qu'il ne puisse sortir aucune etincelle, de visiter tous les mois les cheminees des habitans, ordonner le tems qu'elles doivent etre ramonees, obliger les particuliers de faire reparer celles qui meriteront de l'etre, et meme faire abatre celles qui sero defectueses, ou qui paroitront etre une prochaine cause de quelque incendie, d'avoir chaque particulier deux sceaux pleins d'eau chaque nuit dans leur maison, defendre absolument de ne pouvoir porter ny tenir aucune lampe ny chandelle dans les granges et autres lieux dangereux pas meme dans des lanternes, ne pouvoir tenir aucun paille ny autre chose combustible pres des cheminees ny sur le devant des galeries ou bassecours ou il faut passer le feu, sous peine aux contrevenans et accuses de deux livres d'amande pour chaque article cy dessus et de majeure peine arbitraire au S.Chatelain de cette Ville si le cas le requiet et en cas de recidive le contrevenant condanné au double".
commenta