italiano

Scrittore, editore e innovatore della moderna letteratura curda, Firat Cewerî è nato nel 1959 nel Kurdistan turco, a Derik, provincia di Mardin.

Ha iniziato a scrivere poesie in curdo da adolescente. Al principio degli anni Settanta si è trasferito con la famiglia a Nişebin (Nusaybin), dove si è unito al movimento rivoluzionario; ha fondato con alcuni amici un’associazione culturale e in quegli anni ha iniziato a scrivere in curdo.

Nel 1980 Firat Cewerî ha lasciato il paese con il proposito di scrivere liberamente, stabilendosi in Svezia. Nello stesso anno ha pubblicato il suo primo libro ed è stato coinvolto nei movimenti e nelle attività letterarie curde. All’inizio degli anni Ottanta ha contribuito con scritti e racconti alle riviste curde di tutto il mondo e nel marzo del ’92 ha dato vita alla rivista Nudem (Tempi Nuovi), pubblicata per dieci anni senza interruzioni, la quale ha svolto un ruolo importante nello sviluppo della letteratura curda e ha incoraggiato nuovi scrittori.

Dopo aver fondato la casa editrice Nûdem, Cewerî ha avviato la pubblicazione della rivista di traduzione Nudem Werger, dedicata alla traduzione in curdo di opere della letteratura mondiale. Ha riorganizzato la rivista Hawar, fondamento della letteratura curda moderna, pubblicata in due volumi.

Nel 1987, è membro dell’Associazione degli Scrittori Svedesi e del consiglio svedese del PEN Club, nonché presidente del Comitato per l’Esilio.

Nel 2018 riceve il premio dell’Accademia per la traduzione della letteratura svedese.

Nel 2020 gli è stato conferito il premio Penna d’Oro dal Ministro della Cultura del Kurdistan iracheno. Nel 2023, la stessa Accademia gli ha assegnato, con l’italiano Massimo Ciaravolo, il premio per diffusione della cultura svedese all’estero.

Nella primavera del 2023 è redattore ospite de la rivista internazionale svedese PEN/Opp, fondata nel 2011 dal PEN svedese, che dà spazio a scrittori e giornalisti a cui non è consentito pubblicare nei loro paesi d’origine.

Oggi è una piattaforma per discutere di libertà di espressione, letteratura, cultura e politica, da una prospettiva globale.

I romanzi e i racconti di Firat Cewerî sono tradotti in svedese, tedesco, italiano, arabo, turco, persiano e dialetto sorani (variante curda irachena), inclusi in antologie tedesche, svedesi, arabe e turche, e sono stati letti dalla radio pubblica svedese. Ad oggi ha pubblicato cinque romanzi intitolati Late PayzaEz ê yekî bikujim, Lehi, Marîa melekek bû e Derza hile min e Ez ê yekî bikujim tradotto in italiano con il titolo Il Matto, la Prostituta e lo Scrittore da Francesco Marilungo, pubblicato da Calamaro Edizioni nel 2022.

MOTIVAZIONE

Firat Cewerî riceve il Premio Internazionale 2024 Ostana – scritture in lingua madre, per l’impegno e la determinazione a promuovere in tutta la sua ricchezza l’uso della sua lingua, il curdo, in particolare nella variante parlata in Turchia: il Kurmanji.
In un contesto storico, culturale e politico come quello curdo, dove la difesa della propria lingua si scontra col tentativo da parte dei poteri dominanti di annientarla, Firat Cewerî ha dedicato al curdo la propria vita, la sua attività e il suo impegno, scrivendo e pubblicando poesie, racconti, romanzi, traducendo in curdo opere della letteratura mondiale, lavorando assiduamente alla promozione dell’editoria in lingua curda. I suoi libri sono stati tradotti in turco, svedese, persiano, arabo e italiano. Negli anni Ottanta fu proprio la sua dedizione alla scrittura in lingua turca a indurlo a scegliere l’esilio in Svezia, dove si era formata una vivace comunità di intellettuali curdi. In quei tempi in Turchia era severamente proibito scrivere in curdo e dall’esilio Firat Cewerî non ha mai smesso di occuparsi del suo popolo, contribuendo alla divulgazione e allo sviluppo della propria lingua e della propria letteratura.

PER SAPERNE DI PIÙ:

http://www.mesopotamia-ita.com/Firat_Ceweri

https://penopp.org/



INTERVISTA A
Firat CEWERî

a cura di Aldo Canestrari

Sono affetto da un virus “letterario”

la mia lingua è il mio rifugio

Perché per l’esilio hai scelto la Svezia?

Ho dovuto lasciare il mio paese pochi mesi prima del colpo di stato militare del 12 settembre 1980. Avevo aderito a un movimento giovanile curdo, ero il presidente dell’associazione nella mia città. In quel periodo avevo sviluppato anche la mia passione letteraria. Scrivevo poesie e sebbene i libri che leggevo fossero in turco, io scrivevo in curdo. Sapendo che era impossibile scrivere in curdo in Turchia, sono andato in un paese dove avrei potuto scrivere nella mia lingua madre. Se avessi potuto farlo là dove vivevo, forse non sarei mai andato in Svezia.

Quarantaquattro anni fa, ero un giovane che partecipava a discussioni molto accese, leggeva voracemente la letteratura marxista, viaggiava nei villaggi e faceva propaganda, distribuiva volantini, scriveva slogan sui muri agitando il pugno contro l’oppressione. Poi ho spostato tutte le mie energie sulla letteratura Quando ho lasciato il Paese e i miei cari non avrei mai immaginato che sarei rimasto lontano per quarantaquattro anni. Il proposito era rimanere per un anno o due, poi sarei tornato con un’opera letteraria in curdo. Volevo dirlo ai miei amici: sono andato, ho scritto un’opera e sono tornato. Ma così non è stato. Durante quel periodo ho perso molti dei miei cari, ma non mi sono mai allontanato dalla letteratura per la quale ero stato costretto all’esilio. Volevo fare qualcosa per la mia lingua e la mia letteratura lavorando giorno e notte. In quarantaquattro anni d’esilio ho scritto e tradotto quarantaquattro opere.

Chi ti ha suggerito la Svezia?

Ne avevo sentito parlare per la prima volta da Musa Anter [ndt: scrittore e uomo di cultura curdo, assassinato dai servizi segreti turchi nel 1992]. Mi ha suggerito la Svezia come un paese accogliente e democratico. Così sono partito. Da allora vivo in Svezia e, grazie alla Svezia, ho potuto continuare a scrivere. Qui ho studiato letteratura in un ambiente libero e migliorato il mio curdo. Scrivere e dire che volevo.

È stato difficile?

Quarantaquattro anni fa, l’esilio era davvero un esilio.

Il mondo non era ancora così piccolo. Non potevamo essere informati su ciò che accadeva nel Paese attraverso il telefono, la televisione e i giornali. Ci voleva una settimana per parlare con la nostra famiglia. È stato amaro. Sentivo la mancanza del mio Paese, ma non potevo tornare indietro. Quando una persona cara moriva, non potevo essergli accanto. Passavano gli anni e non potevo tornare. A volte noi esuli ci rifugiavamo nell’amore, poi ricadevamo nel vuoto. Ma col passare del tempo le cose hanno incominciato a cambiare. Sognavamo in diverse lingue e, sebbene non appartenessimo a nessun luogo, cominciavamo a vederci come appartenenti a molti luoghi contemporaneamente. Mi sono sempre rifugiato nella mia lingua. Ricordavo come lanciavo il mio taccuino curdo a mia madre durante i raid militari e della polizia, e lei lo nascondesse in seno per la paura. E come tremasse quando i soldati e la polizia entravano in casa. Scrivevo in questa lingua proibita che mia madre non avrebbe mai potuto leggere, ma che mi è stata trasmessa da lei. Mentre cercavamo di mantenere viva la nostra lingua, la nostra lingua ha mantenuto me in vita nell’esilio. Mi ha dato forza, conforto e speranza. Ho provato ad alleviare il mio dolore scrivendo il mio dolore nella mia lingua.

Ci sono aspetti positivi nel vivere altrove?

Quando adolescente sono entrato nel mondo della letteratura curda, agli occhi dello Stato sono diventato un indesiderabile. Stavo commettendo un crimine e avrei dovuto essere punito. Mentre qui, in questo paese del Nord, a migliaia di chilometri dal mio, vengo ricompensato dall’Accademia, che assegna i premi letterari più prestigiosi del mondo proprio per aver scritto nella mia lingua madre. Ecco perché dico che sì, almeno un aspetto positivo c’è. Se non avessi lasciato il mio paese, non avrei avuto tutte queste opportunità di praticare la lingua e la letteratura curda. Di fatto, avrei trascorso molti anni in prigione.

La diaspora svolge un ruolo anche con i curdi rimasti in Turchia?

La rivista Hawar, pubblicata a Damasco nella diaspora nel 1932, non è stata solo una scuola in termini di lingua, ma anche la pietra angolare e la pioniera della moderna letteratura curda; un ponte tra la letteratura curda classica e moderna. Con Hawar siamo passati dall’alfabeto arabo a quello latino, ma non solo l’alfabeto, abbiamo anche creato una grammatica. Grazie a quella rivista si è iniziato a leggere letteratura curda classica in alfabeto latino, mentre prima questa era limitata alla tradizione della ‘madrasa’ [ndt.: ‘madrasa’: nella cultura islamica, è una scuola religiosa per la formazione ecclesiastica]. Oggi leggiamo in alfabeto latino poesia e storie curde moderne e alcune traduzioni di letteratura mondiale.

La rivista NÛDEM (Tempi Nuovi), che ho iniziato a pubblicare nel 1992, è ispirata a Hawar. Per dieci anni ho cercato di promuovere Hawar e lo spirito Hawar su Nudem. Se Hawar era un urlo, noi gli siamo corsi incontro e abbiamo cercato di tenerlo vivo.

Dopo Hawar, il movimento letterario curdo nella diaspora ha dato vita ad altre riviste: Çiya, Hêviya Welêt in Germania; Berbang, Nudem in Svezia; Hêvî in Francia e Têkoşer in Belgio, e molti scrittori si sono formati attorno ad esse. Sono state scritti poesie, racconti, romanzi. La letteratura curda, sviluppatasi in esilio negli anni ‘90, ha avviato lo sviluppo della creazione letteraria anche in madrepatria, dove sono nate nuove riviste, fondate case editrici professionali ed è emersa una generazione di poeti e scrittori di valore. Nonostante tutti gli ostacoli e le pressioni, posso dire che oggi la letteratura curda stia progredendo a pieno ritmo.

Hai amici all’estero con asilo politico o richiedenti asilo?

Tutti i miei amici scrittori all’estero sono rifugiati politici. Non solo scrittori curdi, ma anche provenienti da altri paesi. Anni fa ero il presidente del Comitato degli Scrittori in Esilio nel consiglio di amministrazione del PEN Club svedese e ho incontrato dozzine di scrittori che come me erano stati costretti ad andarsene. Molti erano famosi e amati nei loro paesi, ma lontano dalla madrepatria si sentivano isolati. Ho cercato di attirare l’attenzione su di loro il più possibile, organizzando eventi di poesia multilingue per conto del PEN svedese e ho attirato l’attenzione su questi scrittori su giornali e riviste.

I curdi in Turchia sono uniti nella lotta?

Al contrario, non sono di un’unica idea e ideologia. In realtà c’è una grande necessità di avvicinarsi gli uni agli altri per un obiettivo comune, anche se ideologicamente si è distanti. Penso che si dovrebbe attribuire più importanza alla lingua, impegnarsi per rendere il curdo lingua ufficiale e persino dargli priorità.

Quali sono i riferimenti intellettuali che hanno plasmato la tua formazione e il tuo pensiero?

Guardo la vita da molteplici prospettive. I riferimenti intellettuali che mi guidano sono la filosofia, le letterature, classica e contemporanea, in francese, inglese e russo. Se durante l’adolescenza mi ero dedicato a un’ideologia in modo devoto, verso i diciannove anni me ne sono staccato e non mi sono più concesso fanaticamente a una religione, a un’ideologia o a una cultura. Mi impegno a costruire il domani sull’oggi, sulla base di quanto vissuto nel passato, per immaginare il futuro.

In letteratura, Sono contrario a stampi e modelli. Non mi piace limitarmi a un canone prestabilito e non voglio scrivere seguendo un modello. Ecco perché, quando scrivo un romanzo, non penso di scriverlo in un modo o nell’altro affinché rientri in uno specifico genere letterario. Ogni classificazione è come un vestito troppo stretto. Gli autori che vi si adeguano si imprigionano tra le mura di pensieri immutabili. Gli “ismi” in letteratura, così come “ismi” in politica, vanno superati.

La tua attività di traduttore e di scrittore si è sviluppata parallelamente?

La traduzione arricchisce una lingua e la rende comune alle lingue del mondo. Sebbene il curdo abbia mostrato la sua ricchezza nella letteratura classica e orale e abbia conservato i suoi punti di forza, in alcuni luoghi si è indebolito a causa del divieto di scriverlo e del fatto che non è lingua di insegnamento scolastico. Il curdo si arricchisce attraverso traduzioni dalla letteratura mondiale. Se vogliamo far parte della letteratura e della civiltà mondiale, dobbiamo dare importanza alla traduzione. Attraverso di essa, la nostra lingua si irrobustisce.

La mia prima passione è stata ed è scrivere. Ogni opera valida che leggevo, iniziavo a tradurla, chiedendomi perché non fosse disponibile in curdo. Quando sono diventato padre, non c’erano libri curdi da leggere ai miei figli, quindi leggevo i libri per i bambini svedesi. Poi li ho tradotti, in modo che i genitori potessero leggerli ai loro figli in lingua madre. Ho tradotto circa trenta libri. Penso che d’ora in poi chiuderò con le traduzioni e mi concentrerò sui romanzi.

Qual è la situazione attuale? Come è cambiata? Cosa prevedi per il futuro?

Quando ho iniziato a scrivere, non avevo a disposizione nemmeno un libro curdo. Dalla fondazione della Repubblica di Turchia fino agli anni Ottanta, i libri in curdo erano rari. Benché non sia ancora lingua scolastica, la nostra lingua ha fatto grandi progressi. Oggi ci sono dozzine di case editrici, ogni anno vengono pubblicati centinaia di libri, numerosi scrittori creano costantemente una letteratura che si apre al mondo. Affinché il curdo possa rafforzarsi ed essere trasmesso di generazione in generazione, la lingua curda deve raggiungere uno status ufficiale.

Qual è l’atteggiamento dei giovani nei confronti della lingua?

L’ondata di assimilazione è molto forte, nonostante ciò i giovani istruiti proteggono consapevolmente la lingua curda. Scrivono in curdo, traducono in curdo e pubblicano riviste d’arte, letteratura, traduzione, psicologia e filosofia. Quasi tutti lo fanno senza alcuna ricompensa finanziaria. Se una lingua non è presente nella scuola, non ha status ufficiale e non genera profitti sul mercato, il suo futuro potrebbe non essere molto brillante.

Esiste una normalizzazione linguistica della lingua curda?

Il curdo è composto da diversi dialetti. Inizialmente furono utilizzati tre alfabeti diversi, ma dopo il crollo dell’URSS, i curdi sovietici passarono dall’alfabeto cirillico a quello latino. Oggi esistono due alfabeti, il latino e l’arabo, e tre dialetti diversi. Ogni dialetto ha la sua grammatica.

Come immagini una nuova società nella tua lingua madre, quali valori metteresti in primo piano?

Ancora una volta mi baserei sulla letteratura. Cercherei di portare in curdo migliaia di libri della letteratura mondiale, classica e moderna.


ANTOLOGIA

TESTO CURDO

racconto presente nella raccolta di racconti:

Girtî [Prigioniero], Nûdem yayınları, 1985

XEWNA ORHANOV

Piştîmayîna deh salan ya li Swêdê, Orhan biryara xwe da ku seriyekîhere welêt.

Ez çûyîna xwe ji tu kesîre nabêjim, wîxwe bi xwe got. Ne ji hevalên vir re, ne jîji malêre. Heke ez ji Serdar re bibêjim, ew êji her kesîre bibêje, ew bi devêxwe nikare. Ez nabêjim. Ez zanim ew êdilêxwe bigire, lêtişt nabe, ez êdîsa dilêwîxweşbikim.

Piştîku du roj di navberêre derbas bûn, wîfiraxên xwe xistin tev, baholek tijîkinc ûdiyarîkir; lêji nişkêve ramanek hatiyê.

Na, got, ez tu tiştîbi xwe re nabim. Ez êdestvala herim. Tew nebe ez êli Tirkiyeyêdiyariyan bikirim. Oooxx... Wêçiqas xweşbibe. Azadêbirayêmin çav li min bikeve, ew êji dûr ve baz bıde pêşiya min ûmizgîniyêbide diya min. Lêniha bênamûso mezin bûye. Erê, erê, ew mezin bûye... Ma ne bavêmin carekêdi nameyeke xwe de nivîsandibûûgotibû: “Azad êdîmezin bûye, porêxwe şeh dike ûji keçikan re difîkîne”.

Haa!... Ya başew e ez bi şev herim, bêyî ku kes min bibînin. Ez êhêdîherim ber derîûli derîbixim.

Kîye?” Wêdiya min bi dengêxwe yêzirav bipirse.

Lêez êdengêxwe biguherim; ez êbi dengekîqalind bibêjim:

Derîvekin!”.

Tu kîyî?” Wêdiya min bipirse.

Ez êîcar dengêxwe zirav bikim,

Derîvekin, zû!”

Wêbirayêmin Xelîl ji nav nivînan bipeke ûpirtûkên xwe di nav kîsên genim de veşêre ûwêdiya min bibêje:

Lawêmin ne li malêye, em cihêwînizanin!”

Hingîez êbibêjim:

Dayê, ez im, derîvekin!”

Wêbirayêmin yênavêbi dengekînizim bibêje:

Derîvenekin, esker in, derewa dikin”

Derîvekin”ez êbibêjim dîsa.

Bavêmin wêbibêje:

Welleh ev dengêOrhan e”

Wêhemûbi hev re baz bidin ûderîvekin. Hingîditirsim dilêdiya min bisekine.

Na, na, ez wilo naçim. Ya başew e ku ez bi roj herim malê. Dibêjin muxbir pir bûne, ma kîêmin nas bike? Ev deh salên min in ku ez ji welêt derketime. Hingîne riha min, ne jîsimbêlêmin hebûn. Niha ez hatime guhertin; rih ûsimbêlêmin şîn hatine ûcênîkên min spîbûne.

Hîn wilo, çend caran li deriyêwîket. Wîzûbi zûbahola xwe xist dolabê, bilêta xwe ya balafirêji ser masêhilanî, xist bêrîka xwe; baz da ûderîvekir.

Serdar ket hundir.

Oo, Serdar bi devkenîgot. Ev çi kinc in te li xwe kirine? Tu êherîkonferansan an herîba keçik meçikan?

...

Ew bi hev re derbasîhundir bûn ûheryekîcigareyek vêxistin.

Welleh êdîez aciz bûme, Serdar bi derd got. Ev deh salên me ne ku em li vîwelatîne, ka me çi ji xwe fêhm kir?

Va ye ez diçim, Orhan got. Ez êherim mala we jî.

Tu êherîku?

Ez êherim welêt.

Eh, çawa ku ez diçim, tu êjîwilo biçî.

Welleh ez êherim.

Loo, de tu dev ji van hawayan berde. Ma tu êmin bixapînî.

Êbaşe, tu bawer neke.

Ji te weye ku ez bawer dikim?

Tu zanî, dixwazîbawer bikî, dixwazîbawer nekî.

De tu dev ji van hawayan berde, Serdar dîsan got.

Orhan bilêta xwe ya balafirêderxist ûnîşanîwîda:

Tu îcar bawer dikî?

Serdar bilêt ji dest girt ûlênihêrî:

Tu dikîbi rastîjîherî?

Erê, piştînîvsaeta din divêez herim. An na ez êji balafirêbimînim.

Ma haya malêjêheye ku tu diçî?

Na, min ji kesîre negotiye. Min ji te re jînedigot, lêtişt nabe, em hevalên hev in.

Bîskêli ser dûriyê, li ser keçikan ûli ser siyasetêpeyivîn. Dûre Serdar hin tembîh lêkirin ûbi hev re çûn balafirgehê.

Berîku Orhan li balafirêsiwar bibe, Serdar got:

Wîtiştêku min ji te re got, tu ji bîr nekîha!

Herdu hevalan destên xwe ji hev re hejandin ûOrhan bi hewa ket ûçû.

*

Çaxa ew li balafirgeha Stenbolêpeya bû, kal ûpîrek ûsêxort hatin pêşiya wî. Pîrêxwe avêtiyêûbi girîgot:

Ooxx... Şukur, tu hatîlawêmin. Maşale, maşale, lawêmin bûye mîna şêrekî.

Dûre peyayêkal ûhersêxortan xwe avêtinê.

Ooh Gud, vi trodde aldrig att vi skulle träffa dig igen, peyayêkal got.

Ew dêûbavêwîûhersêbirayên wîbûn.

We ji ku zanîbûku ez êîro werim? Orhan bi ecêbmayîpirsî.

Vi visste, bavêwîgot. Vi vet allt. Det är Gud som meddelar oss?

Tu ji ku hînîswêdîbûyî? Orhan bi şaşmayîjêpirsî.

Hemma pratar vi svenska, diya wîgot.

Bavêwîyekîbejinkurt bû. Porêxwe yêspîli ser piştêşeh kiribû. Berçavkeke doxdarînîûhebekîreşli ber çavan bûûher dikeniya. Diya wîbi du tiliyan bi ser bavêwîdiket. Berîku Orhan ji welêt derkeve, diya wîsernixumandîbû. Lêniha tu tişt li serîtune bû; serqot bû. Kirasekîkurt ûvezelekîmilkurt lêbû, zeîf bûbûûherdu gepên wêkort çûbûn. Ne dêûne jîbavêwîku ne ji lixwekirina wan bûna, ew zêde nehatibûn guhertin.

Lêbirayên wî? Orhan bi tenêyêmezin nas kir. Ger birayêwîyêmezin resimêxwe jêre neşandibûya, wîêew jînas nekira.

Hersêbira jîbi ser wîdiketin. Yêbiçûk ji herduyên din dirêjtir bûbû. Bejna wîzirav bûûqatek kincên reşlêbû. Herduyên din jîher yekîqatek kincên spîlêbûn ûsolên rengo mengo di lingên wan de bûn.

Êê, we ji ku zanîbûku ez êîro werim? Orhan bi dengekînîvgirîûbi hêvîpirsî.

Me zanîbû, me zanîbû, bavêwîgot. Erêtu ji Xwedêbawer nakî, lêwîji me re got.

Dîsa wan yek bi yek Orhan hembêz kirin.

De em herin, bavêwîgot, ancax em bigihîjin ser otobusê.

Hemûbi hev re ber bi termînala otobusêve meşiyan; li otobusêsiwar bûn ûberên xwe dane Diyarbekirê.

Di rêde diya wîji aliyekî, bavêwîji aliyekîûbirayên wîji aliyekîve di pencereyên otobusêde bi destan der ûdor nîşan didan ûdigotin:

Binihêre, me ji te re dinivîsand ûdigot, welatême xweşbûye, bûye cenet, te bawer nedikir. Esker mesker nemane, polîs nemane, tu kes hevdu nakujin, herkes ji hev hez dikin. Ma ne te jîwisa dixwest? Binihêre, binihêre bêçiqasîxweşbûye.

ErêWelle, Orhan got. Welatême ji Swêdêjîxweştir bûye.

Lo lo! Tew tu bajarême bibînî!

Saet nehêêvarêotobusa wan li bajarekîsekinî. Bajar wêran bûûxaniyên bajêr yên bilind ji şûna gulleyan bûbûn weke seradê.

Ev e bajarême yêweke cenetê? Orhan bêhêvîpirsî.

Bavêwî,

Na lawêmin, got. Ev Bêrûdêye, Lubnanê... Xelk li vir hevdu dixwin, herkes bi hev ketine, herkes hevdu dikujin. Ev jehrtêketiya Bêrûdêye!

Orhan şaşûecêbmayîmabû:

Ger ev Bêrûdêbe çima otobusa me di vir re diçe?

Ew çîrokeke dûr ûdirêj e, lawêmin. Bi xêr ku em bigihîjin malêez êji te re bibêjim.

Otobusa wan gihîşt Diyarbekirê. Çaxa ew ji otubusêpeya bûn ûber bi malêve meşiyan, bavêwîgot:

Me ji te re negot ku bajarême bûye cenet. Binihêre, ma ne weke cenetêye?

Bi rastîjîbajar mîna buhuştêbû. Bedena wêji nûve hatibûlêkirin, hemûxanîspîbûn ûher der hêşnayîbû. Mirov, dikan, otomobîl, hema her tişt hatibûn guhertin.

Birayêwîyêbiçûk got:

Te ji me bawer nedikir. Ka polîs? Ka esker? Ew çûn, dema wan çû. Dewleta wan jîçû…Em niha xwe bi xwe ne, em bi xwe dewlet in.

Ji bo Orhan sêrojan li def ûzurnêket, berx ûberan hatin serjêkirin ûşekir li zarokan hatin belavkirin. Roja çaran çar peyayên bejindirêj ûbi navmil hatin mala bavêOrhên ûbixêrhatinîdanê. Piştîku rûniştin, yekîji wan got:

Em endamên hukûmeta Kurdistanêne ûme bihîstiye ku te li Swêdêekonomîxwendiye, ji ber vêyekêem dixwazin tu jîdi hukûmeta me de cih bigirî.

Hîn berîku Orhan bersivêbide, lawikek bi bayêbezêket hundur ûbi heyecan got:

ApêOrhan, baz de, xwe veşêre, esker hatin.

Hîn peyva lêwik di dêv de bû, li telefonêket. Lêkesîbersiv neda. Telefonêher dikir zire zir. Orhan rabûser xwe ku baz bide, ew her çar peya jîrabûn ûnasnavên xwe nîşanîwîdan,

Em polis in, gotin, tu çûyîSwêdêûtu li dijîdewleta me xebitîyî. Bide pêşiya me!

*

HingîOrhan ji xew hol bû, di qerryole wer bûbû, li ser wêerda sar dîsa laşêwîdi xwêdanêde mabû. Saeta wîjîher dikir zire zir. Saet li ser heftêsibehêlêdixist. Wîbi hêrs destêxwe li saetêxist ûaxînek kûr kişand. Rabûser xwe ûçûdaşirê. Piştîbîskekêposta wîhat. Du name, dîploma wîya ekonomî, kovarek ûdu rojname jêre hatin. Yek ji wan nameyan jêre ji malêhatibû. Wîbi lez ew name vekir ûxwend. Gava di nameyêde bihîst ku birayêwîhatiye berdan, kêfa wîhat, bi lez kincên xwe li xwe kirin ûçûmala Serdar. Serdar hêdi xew de bû, bi tena derpîkêkinik jêre derîvekir.

Çi ye, te xêr e vêsibehê? Serdar jêpirsî.

Tu zanîSerdar...

Ez çi zanim? Te dîsa xewnin ditîne?

Orhan keniya:

Erê.

Serdar jîbi ken got:

Welle tu li me bûyîOblomov. Dawiya xewnên te nayên bavo. Xêra Xwedêyek derketa, xewnên te binivîsandana ûnavêpirtûka xwe jîbikira “Xewnên Orhanov”. Êê, de ka bêje, tu dîsa dibûyîserokwezîrêKurdistanê, an wezîrêkulturê?

Orhan keniya.

Ew bi hev re derbasîmitfaxêbûn ûji xwe re taştêçêkirin. Heya derengêrojêew li ser xewna Orhan, li ser rewşa xwe ya li Ewrûpayêûli ser rewşa welêt peyivîn.

Stockholm, 1983



TESTO ITALIANO

I SOGNI DI ORHANOV

Dopo essere rimasto in Svezia dieci anni, Orhan decise di far visita al suo Paese natale.

Del mio viaggio non dirò a nessuno, si disse. Né agli amici qui, né a casa. Se lo dicessi a Serdar, lui lo andrebbe a dire a tutti: non sa tenere la bocca chiusa quello. No, non lo dico a nessuno. Lo so che lui se la prenderà, ma pazienza, poi lo tirerò su.

Dopo due giorni, preparò le sue valigie, le riempì di vestiti e regali: in quel frangente lo arrestò un pensiero.

No, disse, non mi porto dietro nulla. Andrò via a mani vuote. Semmai comprerò i regali in Turchia. Oh!! Sarà bello sì! Appena mio fratello Azad mi scorge, prima che io arrivi correrà da mia madre e le darà la notizia. Ma ora, il bastardello... è cresciuto. Sì, infatti, è cresciuto. Mio padre mi aveva pure scritto una lettera dicendo: “Azad ormai è cresciuto, si pettina i capelli e fischia alle ragazze”?

Ha!... Sarebbe meglio se arrivassi lì di sera, senza che nessuno mi veda. Arriverò alla porta pianino, e busserò.

Chi è?” chiederà mia madre con voce tenue.

Io dissimulerò la mia; con un tono basso dirò:

Aprite la porta!”

Chi sei?” domanderà mia madre.

Questa volta farò una voce sottile:

Aprite, presto!”

Lì mio fratello Xelîl salterà fuori dal letto e nasconderà i suoi libri tra i sacchi di grano e a quel punto mia madre:

Mio figlio non è in casa, non sappiamo dove sia!”

Allora io dirò:

Mamma, sono io, apri la porta!”

Il mio fratello minore a quel punto suggerirà:

Non aprire, non è vero niente, sono soldati.”

Aprite la porta” ripeterò.

E lì mio padre noterà:

Oddio, ma è la voce di Orhan.”

Così correranno tutti ad aprirmi la porta. Temo però che questa volta a mia madre si fermi il cuore.

No, no, non lo farò. Meglio se arrivo a casa di giorno. Dicono che i collaboratori siano molti di più, ma chi vuoi che mi riconosca? Sono dieci anni che me ne sono andato da lì. Allora ero un ragazzino imberbe. Adesso sono cambiato. Mi sono cresciuti barba e baffi e ora c’è anche qualche pelo bianco.

In quel momento, qualcuno suonò alla porta. Lui in fretta infilò la sua valigia nell’armadio, tolse dal tavolo i biglietti dell’aereo, se li mise in tasca; corse ad aprire la porta.

Entrò Serdar.

Oh! gli disse sorridendo. Ma come sei vestito? Vai a qualche conferenza o esci con una donzella bella?

...

Entrarono in casa, si accesero entrambi una sigaretta.

- Sono stufo, disse Serdar con rammarico. Sono dieci anni che siamo in questo Paese, e cosa ne abbiamo ottenuto noi?

Già, e io parto. Passerò anche da casa tua.

Dov’è che vai?

Vado a casa, in patria.

Compare, dai, piantala di dire cavolate. Mi prendi in giro.

Va bene, non credermi.

Come vuoi che ti creda?

Sai cosa: se vuoi, credimi, se non vuoi, non farlo.

Piantala di dire cavolate, ripeté Serdar.

Orhan tirò fuori il biglietto dell’aereo e glielo mostrò:

Così mi credi?

Serdar gli strappò di mano il biglietto e lo osservò:

Fai sul serio? Vai?

Tra un’altra mezz’ora devo uscire. Sennò perdo l’aereo.

Ma a casa lo sanno che vai?

No, non l’ho detto a nessuno. Non l’avrei detto neanche a te, ma fa niente, siamo amici.

Parlarono per un po’ della patria, di ragazze, di politica. Dopodiché Serdar gli fece le sue raccomandazioni e insieme andarono all’aeroporto.

Prima che Orhan si imbarcasse sull’aereo, Serdar disse:

Quello che ti ho detto, non dimenticartelo.

I due amici si strinsero la mano e Orhan si imbarcò e partì.

*

Arrivato all’aeroporto di Istanbul, lo accolsero una coppia di anziani e tre giovani. La vecchia gli si gettò tra le braccia e piangendo disse:

Oh... Grazie, m’hai riportato il mio ragazzo. Dio, Dio, il mio ragazzo è forte come un leone.

Oh Gud, vi trodde aldrig att vi skulle träffa dig igen, disse il vecchio. (O Dio, non credevamo più di rivederti)

Erano sua madre, suo padre e i tre fratelli.

Ma come facevate a sapere che sarei arrivato oggi? Chiese Orhan meravigliato.

Vi visste, disse suo padre. Vi vet all. Det är Gud som meddelar oss! (Lo sapevamo. Noi sappiamo tutto. Dio ci rivela ogni cosa!)

Com’è che avete imparato lo svedese? chiese Organ, perplesso.

Hemma pratar vi svenska, disse sua madre. (A casa lo parliamo sempre)

Suo padre era basso. I suoi capelli bianchi erano pettinati all’indietro. Portava occhiali affumicati con le stanghette in legno, e continuava a sorridere. Sua madre era più alta di suo padre un paio di dita. Prima che Orhan se ne fosse andato via, lei era solita portare il velo. Ma ora in testa non aveva nulla. Indossava un vestito che me arrivava alle ginocchia e un maglioncino a maniche corte, era dimagrita e aveva le guance scavate. Se non fosse per l’abbigliamento, sia sua madre che suo padre erano cambiati ben poco.

Ma i suoi fratelli! Orhan riconobbe solo il maggiore. Se questo non gli avesse mandato una sua foto, non avrebbe nemmeno saputo chi fosse.

Tutti e tre i fratelli erano più alti di lui. Il minore lo era anche più degli altri. Era magro e vestito di nero. Gli altri due erano vestiti di bianco e avevano ai piedi scarpe multicolore.

Ehm, come sapevate che sarei arrivato oggi? mugolò spazientito Orhan.

Lo sapevamo, lo sapevamo, disse suo padre. D’accordo, tu in Dio non ci credi, ma ce l’ha detto lui.

Nuovamente tutti loro, a turno, abbracciarono Orhan.

Dai, andiamo, disse il padre, è ora di prendere l’autobus.

Tutti insieme si incamminarono verso la autostazione. Salirono sul mezzo e partirono in direzione di Diyarbekir.

Durante il viaggio la madre, il padre e i fratelli, chi da una parte, chi dall’altra, gli indicavano dalle finestre chi una cosa, chi un’altra:

Guarda! Più volte ti abbiamo scritto e detto: il nostro Paese è cambiato in meglio, è diventato un paradiso, e tu non volevi crederci. L’esercito non c’è più, la polizia non c’è più, non ci si ammazza più, tutti si vogliono bene. Non era questo che desideravi? Guarda, guarda quanto è bello.

Sì, infatti, disse Orhan. Qui... è persino meglio della Svezia ora.

Beh, aspetta di vedere la nostra città!

Alle nove di sera il loro autobus si fermò in un centro urbano. Il posto era distrutto e gli alti palazzi erano crivellati di proiettili, bucherellati come un colabrodo.

È questa la nostra città paradisiaca? chiese Orhan avvilito.

Suo padre disse:

No, ragazzo mio. Questa è Beirut, in Libano. Qui la gente si sbrana, si massacra, si ammazza. È la perdizione, Beirut!

Orhan rimase confuso e perplesso:

Se questa è Beirut, perché il nostro autobus ci passa?

È una lunga storia questa, ragazzo mio. Meglio che io te la racconti una volta arrivati a casa.

Raggiunsero Diyarbekir. Una volta scesi, mentre camminavano verso casa, il padre disse:

Non ti avevo forse detto che la nostra città è diventata un paradiso? Guarda, non ti sembra un paradiso?

Ed infatti il luogo era incantevole. Il muro della città era stato restaurato, tutte le case imbiancate, tutto era verdeggiante. Le persone, i negozi, le macchine, quasi ogni cosa era cambiata.

Il fratello minore disse:

Tu non mi credevi. Vedi l’esercito? Vedi la polizia? Se ne sono andati, quei tempi sono andati. Anche il loro Stato si è ritirato. Ora siamo autonomi, abbiamo uno Stato nostro.

Per il ritorno di Orhan si fece una festa che durò tre giorni, a suon di flauti e tamburi, agnelli e montoni furono macellati, i bambini furono riempiti di dolci. Il quarto giorno quattro omoni vennero in casa del padre di Orhan a dargli il benvenuto. Dopo essersi seduti, uno di loro disse:

Siamo rappresentanti del governo del Kurdistan e siamo venuti a conoscenza dei Suoi studi in economia in Svezia, pertanto La vorremmo alle nostre dipendenze.

Prima che Orhan rispondesse, un ragazzo entrò correndo a rompicollo e con affanno disse:

Zio Orhan, scappa, nasconditi, arriva l’esercito!

A quelle parole del ragazzo, suonò il telefono. Ma nessuno pareva voler rispondere. Il telefono squillò di nuovo. Orhan di alzò in piedi per darsi alla fuga, anche tutti e quattro gli uomini si alzarono e mostrarono i distintivi:

Polizia, dissero, Lei è in arresto per attività illegali contro lo Stato Turco. Ci segua!

*

Orhan si svegliò bruscamente: era piombato giù dal letto; rimase lì, sudato, sul pavimento freddo. In quel momento squillò pure la sveglia. Suonava sempre alle sette di mattina. Con rabbia la colpì con una mano e sospirò profondamente. Si alzò in piedi e andò in bagno. Poco dopo arrivò la posta. Due lettere, il suo diploma di economia, una rivista e due quotidiani. Una delle lettere veniva da casa. Subito la aprì e lesse. Non appena ne apprese che suo fratello era uscito di prigione, si rallegrò, si vestì velocemente e andò a casa di Serdar. Serdar stava ancora dormendo: gli aprì la porta in mutande, senza farsi troppi problemi:

Che c’è, che hai stamattina? gli chiese Serdar.

Sai Serdar...

So cosa? Hai di nuovo sognato?

Orhan rise:

Sì.

Si mise a ridere anche Serdar:

Secondo me tu sei Oblomov, tale e quale. I tuoi sogni non finiscono mai, bello. Dio voglia, sarebbero da scrivere in un libro, intitolandolo “I Sogni di Orhanov”. Dai, dimmi, eri di nuovo Primo Ministro del Kurdistan, o magari il Ministro della Cultura?

Orhan rise.

Andarono insieme in cucina e si prepararono la colazione. Fino a giorno inoltrato parlarono dei sogni di Orhan, della loro vita lì, della situazione in patria.

Stoccolma, 1983

(traduzione Tamara Beniamini)



TESTO CURDO

da Baqek gulên sor, Nûdem yayınları, 2002

BAQUEK GULÊN SOR

Cemîl sibehê zû pir bi kêf şiyar bû, xwe di nav nivînan de bir û anî, bawişkî, xwe vezeland, dûre xwe li ser piştê dirêj kir, destên xwe xistin bin serê xwe û li doh fikirî. Doh ji bo wî girîng bû. Ya ku ew bi salan li dû bû, doh qewimî bû. Belê, doh, li bîraxaneya nêzîkî stasyonê, li ber barê, gava wî ji xwe re bîrayek xwestibû û xwe dabû ser kursiya girover û bilind ya li ber barê, çavên wî li quncika bîraxaneyê ya tarî, li xanimjineke ku kurkê xwe avêtibû ser pişta kursiyê û bi xayizî bi tilîkên xwe yên zirav bi qedeha xwe ya şerabê dilîst, ketibû. Ya çavlêketinê ew çav lêketibû, lê ma ew rojê çav bi çendan jinên wilo nediket? Te digot qey jinên dinyayê hemû bûbûn dijminên wî û li hemberî wî eniya dijminatiyê vekiribûn. Wî berê xwe bi kîjan jinê vekira, wê jinê berê xwe jê diguhert, wî li çavên kîjan jinê bineriya, wê jinê çavên xwe dadigerandin û di dagerandina awirên wê de, bêhntengî û aciziyek difûriya. Lê vê jinê, yanî jina ku wî doh li quncika bîraxaneyê dîtibû, jineke guherî bû. Gava jinikê bi hêdîka qedeha xwe biribû ber lêvên xwe yên sor, wê serê xwe jî bilind kiribû û gava serê xwe bilind kiribû, çavên wê li Cemîl ketibûn. Cemîl pêşî fedî kiribû û serê xwe bera ber xwe dabû, lê gava serê xwe bilind kiribû, dîtibû ku çavên keçikê hê jî li wî ne. Vê carê wî jî li keçikê nêrîbû û qedeha xwe ya bîrayê hêdîka ji wê re bilind kiribû. Keçikê jî bersiv dabûyê û qedeha xwe ya şerabê bilind kiribû û mîna ku ji nişka ve ji xeyaleke kûr şiyar bibe, bi Cemîlê li ber barê re beşişî bû. Cemîl jî xwe negirtibû, hema rahiştibû qedeha xwe ya bîrayê û çûbû ser maseya keçikê. Keçik ji wê tevgera Cemîl ecêbmayî nemabû û bi beşişîn ew keremî ser maseya xwe kiribû. Cemîl rûniştibû û bi rûniştinê re destê xwe dirêjî wê kiribû û xwe pê dabû naskirin. Navê wî di bîra keçikê de nemabû, lê navê keçikê, Eva, xweş di bîra Cemîl de mabû. Ne bi tenê navê wê, spehîbûna wê jî di bîrê de mabû.

Eva bi rastî jî keçeke spehî bû. Emrê wê an bîst û pênc hebû an tunebû, bi kejiya xwe dişibiya fînlandiyan. Wê porê xwe yê zer kiribû du gulîk û herdu gulîk jî bi ser sînga xwe de berdabûn. Digel ku zivistan bû û derve sar bû jî, wê bi tenê blûzekî reş î tenik li xwe kiribû. Cemîl dikarîbû bi hêsanî sudyenê wê di binê blûzê wê de bidîta. Gerdana di stuyê wê de ji mircanan bû. Di rengê mircanên di stuyê wê de jî, du guhar bi guhên wê yên biçûk ve daliqyabûn. Gava dikeniya, digel ku xemgîniyeke veşartî di mîmikên wê de diyar dibû jî, spîbûna diranên wê yên li hev, spehîtiyeke taybetî didayê. Ev e, ev çêlkewa ku ji refê xwe veqetiyabû û riya wê bi bîraxaneya li ber stasyonê ketibû, bûbû nêçîra Cemîl. Cemîl pir bi edeb, bi hurmet û medenî tevgeriyabû û nexwestibû bi tu awayî nêçîra xwe veciniqîne û mîna salan dîsa destvala vegere malê.

Keçikê dîsa jê pirsî bû;

Te got, navê te çi bû?

Navê min Cemîl e, Cemîl gotibû.

Evayê navê wî bi awayê “Jemîl” bi lêv kiribû û jê nepirsîbû bê ew ji kîjan welatî ye. Baş bû jî ku jê nepirsîbû, heger jê bipirsiya, diviyabû Cemîl ji keçikê re behsa welatê xwe bikira û dibû ku wê yekê keçik aciz bikira û ew hewa wan ya germ bicemidanda.

Ji bo ku Cemîl ji cihekî dest bi peyvê bikira, wî gotibû ku navê Evayê navekî pir xweş e û bi rastî jî bi wî awayî sohbeta wan dest pê kiribû.

Gava Cemîl xwestibû şûşeyek şerab bixwaze Eva li dij derneketibû, Cemîl jî şûşeyek şeraba sor ya ku Evayê berê ji wî cinsî qedehek vexwaribû, bi maqûlî ji keçika garson xwestibû. Piştî bi kêliyekê keçika garson digel du qedehên şerabê û şûşeya şerabê hatibû, pêşî ji bo tamkirinê ji Cemîl re çend qurt berdabûn binê qedehê û şûşe di dest de li bendî bersiva Cemîl rawestiyabû. Cemîl jî hêdîka qedeha xwe biribû ber devê xwe, qurtek jê vexwaribû û bi rûkenî tamxweşbûna şerabê anîbû zimên.

Şeraba wan ya xweş, piştî demekê serê wan jî hebekî xweş kiribû û sohbeta wan di bin tesîra wê xweşiyê de bihurîbû.

Bara ku êvarê vala bû, bi derengê şevê re tije bûbû, ji ber muzîka dengbilind, mêvan bi dengên bilind bi hev re dipeyivîn, Eva û Cemîl jî bi dengên bilind dipeyivîn, dikeniyan, carina bi destên hev digirtin, carina kûr kûr li çavên hev dinêrîn û carina jî bi noşîn qedehên xwe li hev dixistin. Ew heta saet yekê şevê rûniştibûn û vexwaribûn. Li gora wê vexwarina zêde dîsa ew zêde neketibûn, gava ji bîraxaneyê derketibûn, bi destên hev girtibûn û di bin kuliyên berfê de meşiyabûn jî zêde nehejiyabûn. Ew tibabekî meşiyabûn, carina rawestiyabûn, hevdu hembêz kiribûn û li kuçê devê xwe xistibûn devê hev û hevdu maçî kiribûn. Gava wan ji sosîsfiroşê li serê kuçê ji xwe re sosîs kirîbûn saet bûbû yek û nîvê sibehê. Wan piştî xwarina sosîsan dîsa hevdu hembêz kiribûn û dîsa hevdu ji dil maçî kiribûn.

Gava Cemîl pêşniyaza ku ew texsiyekê bigirin û herin mala wî ji Evayê re biribû, Eva gotibû ku mala wê nêzîktir e û heger ew dil bike ew dikarin herin mala wê. Ji xwe Cemîl li ezmanan li tiştekî wilo digeriya, hema tavilê destê xwe ji texsiyekê re hejandibû, texsî li ba wan rawestiyabû, herdu ketibûn dawiyê û Evayê adresa xwe ji şifêrê texsiyê re gotibû. Wan di dawiya texsiyê de jî devên xwe xistibûn devên hev û bi destan hevdu pelandibûn. Herçiqas Cemîl dixwest ew rêwîtî dirêjtir dom bikira jî, texsî zû gihîştibû ber avahiya Evayê. Eva hewl dabû ku li çentê xwe bixebite û heqê şifêrê texsiyê bide, lê Cemîl ji wê zûtir tevgeriyabû û heqê şifêr dirêjî wî kiribû. Gava ew ji texsiyê daketibûn û bi çend gavan ber bi avahiya Evayê ve meşiyabûn, Eva lê vegeriyabû û gotibû baştir e ku ew sibehê hevdu bibînin. Wê nexwestibû Cemîl bi wê re here malê, dîsa ew maçî kiribû û gotibû ew dikarin sibehê, saet di donzdehan de li ber deriyê Kulturhusetê, li meydana Sergelstorgetê hevdu bibînin.

*

Niha, Cemîl ji nav nivînan rabûbû, riha xwe kur kiribû, serê xwe şuştibû, xurîniya xwe kiribû û saetên civana Evayê dihejmartin. Heger ew piştî saeteke din li trênê siwar bibûya ew ê di wextê de bigihîşta bajêr û wê bi hêsanî bigihîşta ku ji Evayê re baqek gulên sor jî bikiriya. Ew saet hat û digel ku derve sar bû jî, malneketo bi tenê vezelekî tenik û çakêtek li xwe kir û derket. Wî tam saet di donzdeh kêm çarîkekê de xwe bi baqek gulên sor gihand ber deriyê Kulturhusetê.

Destê sibehê baranek bi ser berfa doh de bariyabû, ew berf helandibû û niha jî li derve sermayeke hişk hukum dikir. Cemîl wek maqûlekî bi qevda gulên xwe girtibû, bi serê tîk û pişta rast li der û dora xwe dinêrî. Her ku wî li dora xwe dinêrî ewçend kurdên nas li ber çavên wî diketin. Ew meydan meydana meş û civînên mezin bû. Vê dawiyê, hema bêje kurd ji heftê carekê, carina bi sedan, carina jî bi hezaran li wê meydanê diciviyan, ji wir didan dû hev û heta konsolosxaneya tirkan dimeşiyan. Îro jî ji bo kurdan rojeke wilo bû. Li ser daxwaz û banga komele û dezgehên kurdan wê li dor hezar kurdî li meydana Sergelstorgetê biciviyana û wê ji wir ji bo protestokirina Tirkiyê ber bi konsolosxaneya tirkan bimeşiyana. Cemîlê ku hema bêje di dema xwe de yek ji pêşengên tevgera welêt bû, bi banga komele û dezgehên kurdan dizanîbû, lê bi temamî ji bîra kiribû. Heta saet donzdeh û çarîkekê jî hê Eva nehatibû, lê gelek nas û dostên wî hatibûn, hinan silav lê kiribûn û derbas bûbûn, hin lê sekinîbûn û bi çend gotinan pê re sohbet kiribûn, hinan gulên di destên wî de meraq kiribûn û hinan xwestibûn di bin wê sermayê de bi dûdirêjî şiroveyên siyasî bikin, lê heta ji Cemîl dihat, kurt dibirî, guhên wî li wan lê çavên wî li riya Evayê bûn.

Saet di yekê de kurdekî bi simbêl derketibû, bi mîkrofonê, bi dengê bilind û swêdiyeke xerab Tirkiye rexne dikir, fort dikirin û digot ku ew ê vê ji Tirkiyeyê re nehêlin. Dûre şiîrek pir belengaz xwend û mîkrofon teslîmî yekî din kir.

Kurdan bi zar û zêç û jin mêran ew zirmeydana Sergelstorgetê dagirtibûn û barebara wan bû di bin wê serma hişk de slogan davêtin. Min ê jî saet di yek û nîvê de li kafeteryaya Kulturhusetê rojnamevanek bidîta û li ser Kurdistanê û sebebên ketina eskerên tirk bo başûrê Kurdistanê hin agahdarî bidanê. Gava ez saet di yek û bîst û pênc deqan de dikira bi lez têketima hundirê Kulturhusetê, min dît Cemîl li qorzîka ber derî rawestiyaye, ji serman dirikrike, serê xwe her bilind dike û li der û dora xwe dinêre.

Min silav dayê:

Merheba Cemîl!

Merheba kekê, tu çawa yî?

Ew gotin hema wilo spontan ji devê wî derketin. Gava dît ku ez im, destê xwe da min û li karê min pirsî. Min jî bi çend gotinan başbûna karê xwe jê re got û bi henek ew gulên di destê wî de meraq kir.

Çîk, e… bavê hevalekî ji welêt hatiye, ez niha li bendî hevalekî me û em ê bi hev re herin mala wî hevalî.

Min ji Cemîl nepirsî bê çima ew beşdarî meşê nebûye, lê gava min xatir jê xwest û ji bo ku ez rojnamevanê xwe bibînim bi pêlikan bi jor ketim, min di dilê xwe de got, ku kurd çiqasî hatine guhertin, çiqasî medenî bûne, binêre, wê camêr ji bavê hevalê xwe re gulan bibe.

Hevdîtina min bi yê rojnamevan re nîvsaetê ajot, dûre em herdu bi hev re daketin jêr. Gava em daketin jêr, min dît Cemîl hê jî li ber derî rawestiyaye. Bêyî ku em xwe mîna japoniyan zêde bitewînin, me bi bişirîneke xav silaveke japonî da hev û ez bi yê rojnamevan re di ber Cemîl re bihurîm.

Ew meydana Sergelstorgetê ya ku berî bi nîvsaetekê ji ber dengên sloganên kurdan himehim jê dihat, niha vala bûbû, ji du kesên serxweş ku qutîkên wan yên bîrayê di destên wan de bû û dihejiyan pê ve kes lê nemabû. Êdî dengên sloganên kurdan ji dûr ve jî nema dihatin bihîstin. Gava em derbasî aliyê meydanê yê din bûn, ez dîsa di ser stuyê xwe re zîvirîm û min li Cemîl nêrî.

Cemîl li ber deriyê Kulturhusetê diçû û dihat, ew baqê gulan geh dixist vî destî geh dixist destê din, serê xwe wek serê marekî avî bi vê de û wê de dizîvirand, ji serman dirikrikî û dipa…



TESTO ITALIANO

UN MAZZO DI ROSE ROSSE

Cemil si svegliò la mattina presto con gioia, si contorse nel letto, si stiracchiò, sbadigliò, poi si sdraiò sulla schiena, intrecciò le mani sotto la testa e cominciò a pensare a ieri. La giornata di ieri era stata molto importante per lui. Quello che inseguiva da anni era successo ieri.

Ieri, mentre chiedeva una birra davanti al bancone del bar e si sedeva sullo sgabello rotondo del pub vicino alla stazione, aveva visto in uno degli angoli poco illuminati del bar la ragazza, che aveva buttato il cappotto sulla spalliera della sedia e giocherellava con un bicchiere di vino con le sue dita sottili ed irrequiete. Era quello che chiamavano “vedere”, quante altre donne avrebbe potuto vedere così quel giorno? Era come se tutte le donne del mondo fossero diventate nemiche e avessero aperto contro di lui un fronte di ostilità. Ogni volta che guardava una donna, loro distoglievano immediatamente il viso, e ogni volta che stabiliva un contatto visivo con una donna, distoglievano lo sguardo, e in tutti questi movimenti si sentivano disagio e rabbia.

Ma la donna che aveva visto ieri nell’angolo buio del pub era una donna diversa. Mentre portava lentamente il bicchiere alle labbra rosse, alzò lo sguardo e in quel momento vide Cemil. Cemil all’inizio era imbarazzato e abbassò la testa, ma quando alzò la testa vide che la ragazza lo stava ancora guardando. Questa volta anche lui la guardò e, rivolto a lei, sollevò lentamente il bicchiere di birra. La ragazza non rimase indifferente e gli alzò il bicchiere, poi sorrise a Cemil, ancora davanti al bancone del bar, come se si svegliasse all’improvviso da un sogno profondo. Anche Cemil non si tirò indietro, prese il bicchiere e si avvicinò al tavolo della ragazza. La ragazza non fu sorpresa dal comportamento di Cemil e lo invitò al suo tavolo con un sorriso. Cemil si sedette e si presentò tendendo la mano mentre si sedeva. Non riusciva a ricordare il nome della ragazza, ma Cemil memorizzava perfettamente il nome Eva. Non solo il suo nome gli eran rimasto impresso, ma anche la sua bellezza.

Eva era davvero una bellissima ragazza. Aveva circa venticinque anni. Con quei suoi capelli biondi, sembrava una finlandese. Aveva legato i suoi capelli biondi in due trecce e li aveva lasciati pendere sul petto. Nonostante l’inverno e il freddo che c’era fuori, indossava una sottile camicetta nera. Cemil poteva facilmente vedere il suo reggiseno sotto la camicetta. Aveva una collana di corallo al collo. Nelle sue piccole orecchie pendevano due orecchini del colore dei coralli che portava al collo. Quando sorrideva, anche se c’era una tristezza nascosta, il candore dei suoi denti le dava una bellezza ancora più speciale. Questa piccola pernice, che ha lasciato il suo gruppo ed è entrata in una birreria, è diventata la preda di Cemil. Cemil si è comportato in modo molto dignitoso, rispettoso e civile per non spaventare la sua preda ed evitare di vivere un’altra volta l’esperienza ripetutasi per anni: tornare a casa a mani vuote.

La ragazza chiese ancora:

Come hai detto che ti chiami?

Mi chiamo Cemil, disse Cemil.

Eva pronunciò il suo nome “Jamil” e non gli chiese da dove venisse. Meno male che non l’ha chiesto, altrimenti Cemil avrebbe dovuto parlare della sua città natale e forse avrebbe annoiato la ragazza, e questa calda atmosfera sarebbe svanita.

Cemil, per iniziare la conversazione da qualche parte, disse che il nome Eva era un nome molto carino. Eva non si oppose quando Cemil volle ordinare un bicchiere di vino. Cemil chiese gentilmente alla cameriera di portargli un bicchiere del vino rosso che Eva stava bevendo. Dopo un po’, la cameriera tornò con due bicchieri e una bottiglia, ne versò un po’ nel bicchiere perché Cemil lo assaggiasse, glielo porse e attese la sua risposta con la bottiglia in mano. Cemil portò lentamente il bicchiere alla bocca, bevve un sorso e poi disse con un sorriso che il vino era delizioso. Dopo un po’, il loro buon vino cominciò a illuminare le loro menti e a influenzare la loro conversazione.

Tutti dovevano parlare ad alta voce a causa della musica nel bar, che la sera era vuoto e a mezzanotte straripava. Eva e Cemil parlavano ad alta voce, ridevano, a volte tenendosi per mano, a volte guardandosi profondamente, a volte tintinnando i bicchieri. Rimasero seduti e bevvero fino all’una di notte. Anche se avevano bevuto troppo, non tremavano né inciampavano mentre uscivano dal pub, mano nella mano, sotto i fiocchi di neve. Camminavano un po’, a volte si sedevano, a volte si abbracciavano e si baciavano per strada. Era l’una e mezza quando comprarono le salsicce dal salumificio sulla strada. Dopo aver mangiato la salsiccia, si abbracciarono e si baciarono.

Quando Cemil propose di prendere un taxi e tornare a casa, Eva disse che casa sua era più vicina e che potevano andare da lei se avesse voluto. Immagino che questo fosse ciò che Cemil stava cercando ma non riusciva a trovare; ha immediatamente chiamato un taxi e, quando sono saliti sul sedile posteriore, Eva ha detto all’autista il suo indirizzo di casa. Si baciarono e si accarezzarono nel taxi. Mentre Cemil desiderava che il viaggio continuasse ulteriormente, il taxi raggiunse il palazzo dove abitava Eva. Mentre Eva cercava soldi nella borsa, Cemil agì più velocemente e consegnò all’autista l’importo richiesto. Mentre scendevano dal taxi e facevano qualche passo verso l’edificio dove lei abitava, Eva disse che sarebbe stato meglio se si fossero incontrati l’indomani. Non voleva che Cemil entrasse in casa, lo baciò di nuovo e si incamminò, dicendo che si sarebbero visti l’indomani a mezzogiorno al cancello del Kulturhuset1, in piazza Sergelstorget.

*

Ora Cemil si era alzato dal letto, si era rasato, aveva fatto la doccia, aveva fatto uno spuntino e stava contando i minuti per incontrare Eva. Se avesse preso il treno un’ora dopo, sarebbe arrivato in città in tempo e avrebbe avuto il tempo di comprare a Eva un mazzo di rose rosse. Passò un’ora e, nonostante il freddo fuori, questo pazzo uscì indossando solo un maglione leggero e una giacca. A mezzanotte meno un quarto in punto arrivò davanti al cancello del Kulturhuset con un mazzo di rose rosse.

Verso mattina aveva piovuto sulla neve caduta ieri, sciogliendola, ma questa volta c’era un freddo pungente. Cemil teneva in mano il mazzo di rose come un nobile, guardandosi intorno con la testa alta e la schiena dritta. Mentre si guardava intorno, aumentava il numero dei kurdi di sua conoscenza. Quella piazza era un luogo dove si tenevano grandi marce e manifestazioni. Recentemente, quasi una volta alla settimana, a volte migliaia, a volte centinaia di kurdi si radunavano in questa piazza e da qui si recavano al consolato turco.

Oggi sarebbe stato uno dei giorni di una manifestazione dei kurdi. Su invito e richiesta delle organizzazioni e associazioni kurde, quasi un migliaio di kurdi si sarebbero radunati in piazza Sergelstorget e avrebbero marciato verso il consolato turco per protestare contro la Turchia. Cemil, che a suo modo era uno dei pionieri della lotta ed era consapevole di quella convocazione, se ne era completamente dimenticato.

Alle dodici e un quarto Eva non era ancora arrivata, ma molti dei conoscenti e amici di Cemil erano lì. Alcune persone si salutavano e passavano, altre si fermavano e dicevano qualche parola; alcuni di loro erano incuriositi dalle rose che lui aveva tra le mani, altri volevano fare lunghe valutazioni politiche con questo freddo, ma Cemil tagliava corto; le sue orecchie ascoltavano loro, ma i suoi occhi fissavano la strada da cui doveva arrivare Eva.

All’una, un kurdo baffuto, dal microfono che aveva in mano, criticava la Turchia ad alta voce in un pessimo svedese, e affermava che la Turchia sarebbe stata ritenuta responsabile. Poi passò il microfono a qualcun altro, recitando una pessima poesia.

Kurdi, donne e bambini riempivano l’enorme piazza Sergelstorget e cantavano slogan nonostante questo freddo.

All’una e mezza io avrei incontrato un giornalista alla mensa del Kulturhuset per dargli alcune notizie sull’ingresso dei soldati turchi nel Kurdistan meridionale. Mentre stavo per precipitarmi al Kulturhuset, cinque minuti prima dell’una e mezza ho trovato Cemil in piedi accanto alla porta, tremante dal freddo, che alzava la testa e si guardava intorno.

L’ho salutato.

Ciao Cemil!

Ciao fratello come stai?

Queste parole erano appena uscite dalla sua bocca, quando guardò e si rese conto che ero io a parlare; allora mi tese la mano e mi chiese dei miei affari. Gli dissi in poche parole che stavo bene e gli espressi scherzosamente la mia curiosità per le rose che aveva in mano.

Bene, bene... Il padre di un mio amico è appena arrivato dal nostro Paese, ora sto aspettando quell’amico, quando verrà andremo insieme a casa sua!

Non ho chiesto a Cemil perché non si fosse unito alla marcia, ma mentre lo salutavo e salivo le scale per incontrare il giornalista, ho pensato a come erano cambiati i kurdi; come sono diventati civili, mi dicevo, guarda, questo signore porta le rose al padre del suo amico.

Il nostro incontro con il giornalista è durato circa mezz’ora. Poi siamo scesi insieme. Mentre scendevo, vidi Cemil che aspettava ancora sulla porta. Ci siamo salutati con un sorriso secco, senza inchinarci troppo come i giapponesi; passammo davanti a Cemil con il giornalista e ce ne andammo.

La piazza Sergelstorget, che mezz’ora fa risuonava di slogan kurdi, ora era vuota, non c’era più nessuno tranne due ubriachi che si agitavano con lattine di birra in mano. Gli slogan dei kurdi, che si erano allontanati, non si sentivano più.

Mentre camminavo dall’altra parte della piazza, mi voltai e guardai Cemil.

Cemil passeggiava davanti alla porta del Kulturhuset; prese in una mano il mazzo di rose e nell’altra girò la testa di qua e di là come la testa di una biscia d’acqua, tremando dal freddo e aspettando...

(traduzione Selim Temo)



TESTO CURDO

Ez ê Yekî bikujim, Avesta yayınları, 2012

EZ Ê YEKÎ BIKUJIM

Destpêka romana

Gavaez sibehê zû, saet di şeş û sêzdeh deqîqeyan deji xewneke kabûsî şiyar bûm, laşê min giran bû; her derê min diêşiya û dijeniya. Betaniya tenik ya ku min bi xwe dakiribû ji ser textê min şemitîbû erdê. Bêyî betanî jî ez di xwêdanê de mabûm. Ew xwêdana ku hemû laşê min şil kiribû, hem bermaya xewna min, hem jî nîşana germbûna rojê bû.

Ez dibêjim xewna min; lê gava hê jî li ser textê xwe dirêjkirî me û di xwe re nabînim rabim, ez nizanim û ji hev dernaxim bêya ku min dîtiye xewn e an xeyal e.

Tê bîra min ku ez bi şev gelek caran radibûm, ji nav nivînan bi dûr diketim, tevlî xirecirên bajêr dibûm, lê dema min çavên xwe vedikirin, min didît ku di nav nivînan de me û xwe diqulipînim vî alî û wî aliyî. Min di xewnê de tiştek dikir ku nikarim niha bi lêv bikim; dibe ne rast be. Kengîji nav nivînan rabim, herim li çakêtê xwe binêrim, ez ê hingî fêhm bikim bê ew kirina min rast e an na. Ew jî nîşanek e. Ew nîşan jî du dilopên xwînê ne ku li binê bişkoka çakêt ya herî jor ketine, ber bi jêr ve herikîne, lê negihiştine bişkoka navîn.

Gava bi ser hişê xwe ve têm, an jî gava dîsa bi nermî xilmaş dibim, dengek dikeve guhên min, dengekî bi zingînî, ji min re dibêje; “Tu ê îro yekî bikujî”.

Ew deng pêşî lerzekê dixe laşê min, dû re min aram dike.

Heta niha wî dengî ji min re çi gotibe wilo bûye. Ew deng carina tê xewna min, carina dikeve xeyala min; lê piraniya caran di guhên min de dike zingînî. Ew ji min re dibêje bê wê çi bibe, ez ê çi bikim, ê çi bi serê min û xelkên der û dora min de bê. Tiştên kes nabînin, ez dibînim. Gava ew nabînin û ez dibînim, ew min ji xwe nahesibînin, ji min aciz dibin û dilê xwe ji min digirin. Ew dibêjin, nizanim ez çilo û çawa me. Hin dibêjin berî girtina min ez mirovekî din bûm. Lê dema ez di ber wan de hatim girtin, gelekan ji wan berê xwe ji min guherandin û ez terk kirim. Dev ji seredanê berdin, rojekê kesî ji min re du rêz nenivîsandin da dilê min di nava çar dîwarên sar de hinekî germ bibe.

Vê sibê, vê sibeha bêyom, wek kabûsekî xwe bera ser bedena min ya lawaz daye û min dixwe. Ez dikim nakim nikarim ji nav nivînan rabim. Tu dibêjî qey hinan ez xistime cirnekî û bi mîrkutan ez kuta me. Ji xwe mîna gurçikên çîmên min di devên kûçikan de bin, bêhawe dijenin. Xwezî îro qet ji nav nivînan ranebûma, min bikarîbûya bêrêtiya wî dengî bikira û îro kes nekuşta.

Lê ez radibim, li ser textê xwe ê nizim rûdinêm, herdu lingên xwe datînim erdê, destên xwe dispêrim text û çavên xwe li hundirê odê digerînim.

Ev ode, hem odeya min ya razanê ye, hem jî ya xebatê. Odeke biçûk e, lê têra min dike. Ji bilî textê razanê û maseyeke biçûk ku min li ber serê xwe daniye, du refên kitêban jî dîwarekî odê dagir kiriye. Li vê odeya min ya bêpencere, li milê derî ê rastê afîşeke Dalî ya saeta heliyayî bi dîwêr ve ye.

Ez demeke dirêj berê xwe didim wê tabloyê, ewqasî konsantre dibim ku xwe di hundirê tabloyê de dibînim. Ez hêdîka ji bin ve destê xwe dirêjî saeta heliyayî dikim, dixwazim wê hildim jor, lê destê min dişewite û tavilê destê xwe bi paş vedikişînim. Gava li xwe hay dibim û li destê xwe ê rastê dinêrim, dibînim ku kêzikeke reş li ser pişta destê min veniştiye. Ez dikarim bi destê çepê li pişta destê xwe ê rastê bixim û kêzikê pê ve bikim nanik, lê nakim. Wê navêjim erdê û bi şimikê jî pê lê nakimê, lê hêdîka wê bera jêr didim û azad dihêlim.

Paşê bi giranî radibim û diçim serşokê, dest û ser çavên xwe dişom û tam dikimji serşokê derkevim, li ber deriyê serşokê pêrgî diya xwe têm. Mîna ku diya min ne li bendê be ku ez ê wê saetê rabim, loma bi şaşmayî dipirse:

Ma tu rabûyî, kurê min?

Ez di ber xwe de:

Erê, yadê, dibêjim û bi cangiranî derbasî mitfaxê dibim.

Diya min jî dide dû min û tavilê çaydanê çayê datîne ser ocaxê. Ez xwe didim ser kursiyek maseya mitfaxê, herdu enîşkên xwe datînim ser maseya ku pakêta min ya marlboro digel xwelîdankeke vala li ser in û serê xwe dixim nav kefên destên xwe. Diya min, ya ku êdî pîr bûye, hê jî mîna ku zaroka wê ya biçûk bim, bi min re dide û distîne.

Ez berî bi du rojan ketim çil û du saliya xwe, lê hê jî gava ew bangî min dike, navê min hilnade, ji min re dibêje: ”kurê min”, ”lawikê min”, ”çelengê diya xwe”.

Ne ku ez ji van navan hez nakim, lê êdî mezin bûme û dixwazim ew carina bi navê min ”Temo” jî bangîmin bike.

Gava ew ji sarincê zeytûn, rîçal, rûn û penîr bi dorê derdixe û datîne ser masê, ew dîsa ne bi navê min, lê navdêrekî ji wan navdêran bi lêv dike:

Ma ez hêkan ji lawikê xwe re biqelînim?

Na! dibêjim.

Ew gotina ”na” bi hêrs ji devê min derdikeve. Loma diya min, nanê sominî û kêra nên di dest de û weha li ser lingan bi ecêbmayî di ser stûyê xwe re dizîvire û li min dinêre. Dû re laşê xwe ê wek textikekî dizîvirîne, hê jî kêra nên û nan di dest de ye, awirên xwe bera çavên min dide û dibêje:

Xêr e, kurê min, tu vê sibê bêkêf xuya dikî?

Mîna ku sibehên din pir bi kêf bim? Rast e, diviyabû bi kêf bûma. Ez di ber armanca xwe de panzdeh salan girtî mabûm, digel ku îşkenceyeke giran li min bûbû jî, min li ber xwe dabû û sir nedabû, niha jî gihîştibûm azadiya xwe. Lê misqala nîşana gihîştina azadiyê di xetên rûyê min de xuya nake. Çavên min, ên ku roniya wan kêm bûne, di girrika melûliyê de fetisîne, tu şopa şewqa jiyanê di wan de nemaye. Diya min bi vê dizane, her roj vê dibîne, lê mîna ez Temoyê berê bim bi min re dide û distîne.

Loma ez lê dinêrim, lê bersiva wê nadim. Tu dibêjî qey ev cara pêşî ye ez dibînim ku diya min êdî baş bi nav salan ve çûye. Herdu biskên wê ên ku di bin çariya wê de xuya dikin, di rengê berfê de ne. Rûyê wê di nava qermîçokan de maye, ji xwarinê bûye, çerm û hestî maye. Êşa sînga wê her ku diçe lê girantir dibe. Cigarê nakişîne, lê kuxuka wê mîna ya cigarekêşeke salan e. Xîzîna jê tê wekgwîzanan sînga wê dibire, êş û janeke dijwar dide bedena wê. Van demên dawiyê êdî tevgerên wê jî baş giran bûne. Bi zehmetî radibe, bi zehmetî rûdinê, xwe bi zehmetî dide ser herdu darikên çîmên xwe.

Ew dîsa dipirse:

De ka bibêje, berxikê diya xwe, ma tiştek bûye?

Na yadê, tiştek nebûye, dibêjim. Ez hinekî ne baş razame.

Çima, ma te xewnin dîtine?

Diya min pir ji xewnên min ditirse. Heta niha çi xewnên min dîtibin, rast derketine. Berî bêm girtin, min ji diya xwe re got:

Yadê, ez ê bêm girtin û panzdeh salan di hepsê de bimînim.

Ez hatim girtin û panzdeh salan di hepsê de mam.



TESTO ITALIANO

UCCIDERÒ QUALCUNO

Introduzione al romanzo

Quando mi svegliavo la mattina molto presto, alle sei e tredici, da un sogno pieno di incubi, avevo il corpo pesante; ogni parte di me faceva male e soffrivo. La sottile coperta mi scivolò di dosso e cadde a terra. Ero fradicio di sudore anche se non avevo niente addosso. Il sudore che mi bagnava tutto il corpo era un segno sia del sogno che avevo fatto che del caldo.

Dico “del sogno che avevo fatto”, ma siccome ero ancora disteso sul letto e non mi ero alzato, non so se quello che vedevo era un sogno oppure no.

Ricordo che spesso mi svegliavo di notte, mi alzavo dal letto, andavo a unirmi al trambusto della città, ma appena aprivo gli occhi mi rendevo conto che ero a letto e mi giravo a sinistra. Stavo facendo qualcosa nel sogno, ma adesso non posso raccontare quello che stavo facendo; forse quello che facevo non era reale. Quando mi alzerò dal letto e andrò a guardarmi la giacca, saprò se quello che ho fatto è stato reale oppure no. Perché lì c’è un cartello. Quel segno sono due gocce di sangue che sono colate sotto il bottone superiore della giacca e si sono asciugate prima di raggiungere il bottone inferiore.

Non appena riprendo i sensi o mentre sono ancora tra il sonno e la veglia, una voce mi arriva all’orecchio, una voce echeggiante mi dice: “Oggi ucciderai qualcuno”. Questo suono prima mi spaventa, poi mi calma.

Finora questo è quello che mi ha detto quella voce. La voce viene nei miei sogni di tanto in tanto, e qualche volta mi sembra un sogno; ma la maggior parte delle volte mi risuona nelle orecchie. La maggior parte delle volte la voce vuole il mio benessere. Mi dice cosa succederà, cosa farò, cosa succederà ai miei parenti. Vedo cose che nessun altro vede. Quando vedo cose che loro non vedono, non mi considerano uno di loro, quindi a volte si arrabbiano e sono imbronciati con me. Per me non possono avere alcun senso. Per alcuni ero solo un altro uomo prima di essere arrestato. Ma quando sono stato arrestato a causa loro, la maggior parte di loro si è allontanata da me e mi ha abbandonato. Tanto meno venire a trovarmi, e nessuno di loro mi ha scritto una sola riga giusto per scaldarmi un po’ il cuore tra quelle fredde mura.

Questa mattina, questa sfortunata mattina, è come un incubo, che si posa sul mio fragile corpo e mi rode. Non riesco proprio ad alzarmi dal letto. È come se mi mettessero su un mortaio e mi picchiassero con un maglio. Ogni parte di me fa male come se i cani avessero masticato la mia carne portandola in bocca. Vorrei non alzarmi mai dal letto oggi, vorrei poter evitare quel suono, vorrei non aver ucciso nessuno.

Ma mi alzo, mi siedo sul mio letto basso, appoggio i piedi, metto le mani sul letto e mi guardo intorno.

Utilizzo questa stanza sia come camera da letto che come spazio di lavoro. La stanza è piccola ma per me è sufficiente. A parte il letto e un tavolino che ho messo accanto al letto, ci sono due scaffali da biblioteca sul muro. Oltre a questi, una riproduzione del dipinto “L’orologio che si scioglie” di Dalì adorna la parete destra della mia stanza senza finestre, vicino alla porta.

Fisso a lungo il dipinto e dopo un po’ mi ritrovo nel dipinto. Allungo la mano verso l’orologio, che sta pendendo lentamente dal fondo, vorrei sollevarlo un po’, ma all’improvviso mi brucia la mano e la tiro indietro. Quando torno in me e guardo la mia mano destra in fiamme, vedo una mosca domestica che si posa sulla mia mano. Potrei dare un colpo con la mano sinistra e schiacciare la mosca sul posto, ma non lo faccio. Non la butto a terra e non la schiaccio con le pantofole, la abbasso dolcemente a terra e la libero.

Poi mi alzo lentamente e vado in bagno, mi lavo le mani e la faccia e, proprio mentre sto per uscire dal bagno, incontro mia madre sulla porta. Mi chiede con espressione sorpresa, come se non si aspettasse che mi alzassi a quell’ora:

Sei sveglio, figliolo?”

Senza alzare lo sguardo:

Sì, mamma”, dico, e vado in cucina, esausto.

Mia madre viene dietro di me e versa l’acqua del tè. Mi siedo al tavolo della cucina, appoggio entrambi i gomiti sul tavolo dove si trovano il pacchetto di sigarette e il posacenere vuoto, e mi metto la faccia tra le mani. Mia madre, che ormai è molto anziana, mi tratta ancora come un bambino immaturo. Anche se ho compiuto quarantadue anni due giorni fa, continua a non dire il mio nome, mi chiama “mio figlio”, “bello mio”, “figlio di mamma”.

Non è perché non mi piacciono questi aggettivi, ma ora che sono grande mi aspetto che ogni tanto mi chiami “Temo”, che è il mio vero nome.

Quando prende dal frigorifero formaggio, marmellata, olive e olio e li dispone sul tavolo, me lo chiede non con il mio vero nome, ma con uno di quegli aggettivi:

Devo rompere un uovo per il mio bell’uomo?”

No” dico.

La parola “no” esce dalla mia bocca con una certa rabbia. Per questo mia madre sta lì con una pagnotta e un coltello in mano e mi guarda dalla sua spalla in modo strano. Poi gira il suo corpo, che sembra un’asse, ha ancora il pane e il coltello in mano, e mi guarda negli occhi:

Mio bravo ragazzo, hai un aspetto di cattivo umore stamattina”, dice.

È come se fossi sempre gentile le altre mattine. È vero, avrei dovuto essere felice. Ero stato in prigione per quindici anni per la causa in cui credevo. Nonostante fossi stato sottoposto a grandi torture, avevo resistito e non avevo mantenuto segreti, e ora ero libero. Ma sui lineamenti del mio viso non c’era traccia di un uomo liberato. I miei occhi, un po’ sbiaditi, sono bloccati nelle orbite, sembra che vi affogheranno da un momento all’altro, non emettono più la luce della vita. Mia madre lo sa, lo vede tutti i giorni, ma mi tratta ancora come il vecchio Temo.

Allora lei lo guarda, ma io non rispondo. Mi sento come se vedessi mia madre invecchiare per la prima volta. I due veli visibili da sotto il velo sono del colore della neve. Aveva il viso pieno di rughe, aveva smesso di mangiare, era pelle e ossa. Il suo dolore al petto aumenta di giorno in giorno. Non fuma, ma la sua tosse somiglia a quella di chi fuma da molti anni. Il respiro sibilante che esce sembra tagliargli il petto come un rasoio, provocandole un grande dolore al corpo. I suoi movimenti sono diventati più severi ultimamente. Si siede con difficoltà e si appoggia con difficoltà alle stampelle.

Chiede ancora:

Dimmi, figliolo mio, è successo qualcosa?”

No, mamma, non è successo niente”, dico, “non sono riuscito a dormire bene, tutto qui.”

Perché, stavi sognando?”

Mia madre ha molta paura dei miei sogni. Perché tutti i sogni che ho mai avuto si sono avverati. A mia madre prima che fossi arrestato, avevo detto: “Mamma, verrò arrestato e passerò quindici anni in prigione”.

Fui arrestato e passai quindici anni in prigione.

(traduzione dal turco di Aldo Canestrari)

1

[ndt.: Il Kulturhuset, “casa della cultura”, è un grande edificio nel cuore di Stoccolma, la città in cui vive attualmente l’autore del racconto, Firat Cewerî].