Nata nel 1945 a Sète, Michèle Stenta ha consacrato tutta la sua carriera di insegnante all’occitano, con la creazione di corsi e l’ideazione di materiale pedagogico per la scuola secondaria, la scuola superiore e l’università. È impegnata nell’attivismo culturale all’interno dell’Institut d’Estudis Occitans con l’organizzazione di stages e spettacoli. Ha pubblicato opere sulla letteratura e società medievale*, ideato concerti sui trovatori e le trovatrici e fatto conoscere grandi testi del medioevo occitano come Flamenca e la Canço de la Crosada). Tiene conferenze e ha pubblicato anche di letteratura contemporanea**. Suoi libri sono Negrelum, L’Aucèu libre 2019, bilingue, Eu, L’Aucèu libre 2021, bilingue, Fin’Amors Triptic... e mai, IEO Eraut 2022,
Cronica de quauques jorns ordinaris, L’Aucèu libre 2023, edizione bilingue, Sextine pour le pays d’oc, opera collettiva, di prossima pubblicazione.
* Ventadorn, un chastel, tres trobadors,
CDDP de la Corrèze, 1989
L’Europe des trobadors,
CDDP de la Corrèze diffusion CNDP, 1993
Les Valeurs de la société de Cortesia,
Lo Chamin de sent Jaume, 2011
Largueza, un art du don dans l’Occitanie médiévale,
CRDP de Montpellier, 2011
Femnas e dòmnas Occitanes des XII et XIII siècles,
Lo Chamin de sent Jaume, 2012
Bernart de Ventadorn, poète de l’amour,
L’Esperluette, 2012
La Controvèrsia de Puègnautièr,
coautore Miquèl Decòr, Tertrob, 2014
Paratge e Vilania, étude sur deux notions médiévales occitanes, IEO-Aude, 2023
** Roger Ténèze, Òbra completa, pròsa e poësia
(redazione testi ed edizione critica),
Les Monédières, 1985
Marcela Delpastre, una cosmologia del vivent,
in Lenga e país d’òc, CRDP Montpellier, 2012
Marcelle Delpastre, à fleur de l’âme, Vent Terral, 2016
MOTIVAZIONE
Nella sua carriera di oltre cinquant’anni, Michèle Stenta ha coltivato un pensiero fra il contemporaneo e lo storico. Professoressa d’occitano, continua a trasmettere l’amore per la lingua. In qualità ricercatrice, ha condotto una importante ricerca sulla tradizione del trobar, sui valori della società cortese prima della Crociata albigese e sul ruolo e la vita della donna nei secoli XII e XIII confrontato all’oggi.
Come presidente del Ceucle Occitan Setòri, realizza un lavoro dinamico di risveglio con i volontari dell’associazione. Recentemente si è avvicinata alla prosa. La sua penna è caustica, diretta, senza pietà, e più che mai occitana. In vista dell’interesse generale nei confronti del tema identitario e della carenza di promozione delle produzioni artistiche, presentare e premiare Michèle Stenta al Premio Ostana è non solo importante, ma necessario alla conoscenza della cultura occitana.
PER SAPERNE DI PIÙ:
https://www.rcf.fr/culture/als-4-vents?episode=18812
INTERVISTA A MICHÈLE STENTA
a cura di Gisèle Naconaski
Scrittura e immaginari al femminile dalla fin’Amor
alla letteratura contemporanea occitana
• Perché l’occitano? Perché il mondo dovrebbe occuparsi dell’occitano?
L’essere umano ha bisogno di comprendere la sua storia, il significato delle cose che lo circondano. La lingua e la soggettività sono in pericolo quando una parte della tua storia soppressa è sostituita da quella di qualcun’altro. L’occitano ha una legittimità pari a quella delle altre lingue. Partecipa alla diversità linguistica e culturale che fa la ricchezza del pianeta: occitani e occitane, consapevoli di esserlo o no, hanno un posto importante nella comunità umana. In questo disegno ogni persona, occitano o meno, è coinvolta: può costituire un ancoraggio morale, sociale, politico, contribuire a uno sguardo critico di fronte alle discriminazioni di ogni genere, aprire alla comprensione e all’accettazione del diverso da noi.
• Da dove viene il tuo interesse per il medioevo?
I secoli XII e XIII sono stati un periodo all’avanguardia. La civilizzazione d’oc con i suoi modi di vivere, di pensare, di credere nell’uomo e nella poesia, ha dato vita a un vero Rinascimento (Simon Weil) ben prima del Rinascimento europeo del XVI secolo. I suoi valori tuttavia non hanno resistito alle armi guerriere e clericali, alla volontà di ridurre all’obbedienza una società che stava inventando un nuovo umanesimo.
Il caso ha voluto che per il mio primo incarico professionale sia stata nominata in Limosino, a sei chilometri dal castello di Ventadorn. Ho creato subito un corso di occitano che dopo poco tempo tenevo interamente in lingua occitana. Per gli studenti delle scuole medie e superiori la lingua era nell’ambiente familiare e sociale, alcuni la parlavano bene, ma quasi tutti mancavano di conoscenze storiche, letterarie, linguistiche. La vicinanza di Ventadorn mi ha permesso di sensibilizzarli alla cultura trobadorica. La motivazione era far prendere coscienza a quei giovani, attraverso l’esperienza del loro ambiente, di essere occitani.
Nel tuo libro “Femnas e dòmnas Occitanes des XII e XIII siècles” hai analizzato l’immagine negativa e la concezione misogina diffusa nel medioevo con la conquista militare e l’inquisizione. Il sessismo attuale può avere le sue radici in quell’epoca?
Il sessismo patito dalle donne è universale e perdura dalle origini dell’organizzazione delle società e la creazione della proprietà privata, da cui è derivato il patriarcato. In tutte le culture e in ogni tempo alcune donne si sono ribellate e hanno affermato che il loro status non era una fatalità. Il posto occupato dalle donne sul piano sociale nel paese d’oc nei secoli XII e XIII, ereditato dai visigoti, malgrado la dominazione francese e religiosa si è mantenuto in diversi ambiti: come la divisione dell’eredità fra tutti gli eredi, comprese le figlie e i bambini; la libertà per le donne nobili o meno di vivere separate dall’uomo nella casa che apparteneva loro; l’esercizio di mestieri, ecc. Penso che tali inclinazioni siano continuate a esistere fino ai tempi nostri in ogni comportamento che si possa considerare “civile”.
• La conquista militare e l’inquisizione hanno ridotto la società cortese al silenzio. In quali ambiti i valori della società occitana lasciano più vuoto: l’ecologia, l’uguaglianza fra uomo e donna, l’economia?
I valori evolvono con la società stessa. La loro realizzazione concreta dipende dall’evoluzione della mentalità e dalle condizioni economiche. Nulla è mai fisso. Cosa ne è oggi della “convivéncia”, della “larguesa” del “paratge”? Se esistono ancora quei valori non sono appannaggio della sola popolazione occitana (d’altronde, come definirla) e hanno assunto forme adattate alla società attuale. Sulla questione della parità fra uomo e donna, la legislazione francese si applica a tutti e tutte, ma ha bisogno di essere migliorata. Resta il fatto che nelle pratiche personali vi è forse un posizionamento particolare delle donne nella coppia e nella famiglia. Per esempio, non è raro, da noi, sentire un uomo riferirsi alla moglie per una decisione con questa frase: “bisogna vedere con chi governa in casa”. Vale a dire che per una decisione importante il parere della donna è rispettato.
• Dopo tanti studi sulla donna, è possibile provare a ricostruire l’uomo attingendo a un’archeologia della memoria sulla figura del maschio. Francamente, cos’è il padre per te?
In “Eu” (Lui), a partire da mio padre, mi sono interrogata sull’integrazione di un figlio d’emigrati di cultura patriarcale: un ostacolo di fronte a una donna che sognava l’emancipazione in un periodo, gli ultimi decenni del Novecento, in cui ancora regnava il maschilismo. Ho riflettuto anche sull’incidenza di questo problema sul suicidio.
Ora, dire cosa è il padre per me... Tradizionalmente è una figura tutelare, il genitore in senso largo, si dice «il padre della fotografia… il padre della psicanalisi…», ma ecco, è un genitore solo! E ricadiamo nella supremazia maschile… Se dico protezione, aiuto, sostegno, non intendo questo come un ruolo esclusivamente paterno. Ora, posso dire come vedo i padri del futuro: condividenti con le madri gli stessi ruoli. E quando un bambino ha due padri? La questione non si pone!
• In questo spirito, ancora nell’archeologia della memoria, il tuo libro Negrelum (Oscuro) parla della madre. Come confrontare la memoria, la realtà e ciò che sarebbe potuto essere?
In Negrelum ho seguito lo stesso processo a partire da mia madre. Mi sono interrogata sulla generazione di quelle donne di estrazione popolare che hanno attraversato quasi tutto il XX secolo, un secolo tormentato: il loro sogno di emancipazione, l’amarezza dei fallimenti, la rigidità di un’educazione, il vivere al minimo costo, il sentimento di dignità e di onore. Ho avuto una madre dura con se stessa e con gli altri, che ha voluto fare di me una donna forte. La tenerezza e le carezze non erano nel suo spirito. Forse ha voluto formarmi a sua immagine?
Ciò che ricordo con piacere di lei è la sua indipendenza e il suo attaccamento profondo e consapevole alla sua terra, così la chiamava, i suoi riferimenti culturali, geografici, linguistici, totalmente occitani. Lo stampo che mi ha dato è l’ossatura della donna che sono divenuta.
• “Cronaca di alcuni giorni ordinari” è al contempo un testimone e un manifesto contro la riduzione a oggetto della donna. Come reinventare la rappresentazione della donna?
Grande domanda! La questione non riguarda solo le donne nella società attuale. È la rappresentazione dell’umano nella sua globalità che è in gioco. Le ricerche e le invenzioni scientifiche e tecniche dividono l’umano in pezzi, gli tolgono pian piano la sua autonomia, il suo saper fare, il sentimento della propria entità. Hai tale o tale competenza? Obsoleta, la macchina fa meglio di te. Hai questo o quel sintomo di malattia? Hai il rimedio per guarire soltanto ciò, non si tiene conto della totalità della persona, corpo, organi, spirito, mente... Hai una predisposizione per la matematica? Ti occuperai solo di matematica, ti specializzerai. Un tempo, avevamo ancora dei saggi competenti in più discipline e d’altronde i pochi grandi spiriti attuali sono di quel tipo. La nostra epoca è per la frammentazione, per la specializzazione, ciò fa perdere all’umano la sua autonomia, la sua libertà per il profitto nella società capitalista. La rappresentazione della donna non può essere pensata soltanto questa.
• Per chiudere, la ricercatrice occitanista Michèle Stenta ci propone un confronto fra la nostra memoria collettiva, individuale e la ricerca scientifica. Fra ciò che resta del medievale occitano e ciò che è scomparso. In cosa la lettura di Flamenca può illuminarci sulla condizione della donna? È possibile fare un parallelo con la donna di oggi, ottocento anni dopo?
Ah, Flamenca! Un romanzo che è una vera summa, idealizzata, della nostra società medievale. Scritto in un momento in cui questa società era martoriata perché troppo progredita. C’è dentro tutto. E, giustamente, c’è talmente tutto che ci si domanda perché l’autore abbia creato questo quadro meraviglioso. L’eroina incarna la donna perfetta del suo tempo: giovane, fine, colta, sensata, prudente, ragionevole, ma anche audace, determinata, consente all’amore, astuta, volitiva. Esce dalle grinfie del marito geloso grazie all’amore per un uomo ideale. La lezione da trarne è che l’amore è un valore civilizzatore, sorgente di tutte le virtù… a condizione di praticarlo da innamorati veri, da “fini amanti”. Flamenca si realizza tramite l’amore, alla prigione oppone la sua volontà.
• Per secoli la storia è stata scritta da uomini. L’androcentrismo è ovunque, come nei nomi delle strade, per esempio. Come è stato per te, donna, che hai vissuto il maggio del ’68, uscire dal terreno della discriminazione oggettiva e soggettiva della società?
Il maggio del ’68 ha provocato un’importante rivoluzione negli spiriti, poiché questioni sociali ritenute secondarie e non pertinenti, spesso taciute, sono affiorate e sono state messe in discussione. Le ragazze hanno preso più spazio negli studi secondari e superiori, e dunque in alcuni mestieri. Il processo di evoluzione è sempre in marcia, l’uguaglianza salariale non è ancora acquisita, la discriminazione (l’assenza per maternità, per esempio) è ancora un intralcio al progresso di carriera, lo sguardo maschio continua a essere un’aggressione. Uscire da questa dominazione maschile è compito di ogni donna, ma anche delle donne collettivamente. Essere cosciente di sé, dei propri desideri, delle proprie capacità, della propria legittimità. Essere nell’analisi, avere uno sguardo critico. Fare secondo il proprio volere superando gli ostacoli. Con questo programma... è la tua vita!
ANTOLOGIA
TESTO OCCITANO
Tratto da: “Cronica de quauques jorns ordinaris”, L’Aucèu libre 2023
CRONICA DE QUAUQUES JORNS ORDINARIS
(...)
10 de julh, diluns, Montpelhièr
Sala d’espèra d’espitau e femnas en blòda blanca. Quantas sortiràn amb lo sorrire?
– Pacientatz per las resultas.
Seriái privilegiada, sens blòda, venguda just per una notificacion?
Metre en mots los estats fisics... los nommar per los adomergir.
Es d’en primièr una febrilitat en fons de ventre, que se religa a l’estomac e non au sèxe coma dins lo desir, estomac-brandau, febrilitat envasissent cambas e braces. Alenar un bon còp, discretament, uòlhs clucats. La rossèla, en fàcia, se rosiga las onglas. Las autras legisson o fan semblant; e mai los òmes acompanhators.
Femnas en espèra d’un diagnostic. Qu’espròvan? Apèlan la rossèla. Se lèva lentament, entre timiditat e retenguda, desapareis darrièr una pòrta jauna; darrièr, la senténcia l’espèra.
Se dobrís la pòrta dau mètge T., lo radiològue. Pronóncia un nom de femna, sorritz, avenent, son agach es sus ieu. E alara? Es pas un signe: a trenta femnas a la jornada que consultan, m’a pas conoguda.
Ausisse mon nom dins son burèu, mas pas la seguida.
Mon torn. Diagnostic.
I a ben un nogau, «atipic», non cancerós mas presentant una risca, pòt evoluïr. Cau operar. I a pas urgéncia.
Balanç : arrestar lo THS, preveire l’operacion.
Los dos-tres meses que venon son un viratge.
Organizar l’estiu, faire çò previst. Quora, l’operacion? Entre la randò e la dintrada, aquò m’anariá. Telefonar au cirurgian.
Degun mai que l’amic sauprà. Inutile d’inquietar. Vòle pas que càmbie l’agach das autres sus ieu.
L’IUFM sòna: una urgéncia de reglar. Lo director-adjunt remet en causa las disposicions arrestadas debuta de junh. Aürosament, siái pas encara en camin per tornar a l’ostau. I anarai en debuta d’après-disnar.
Esperar encara dins un Montpelhièr moisse e ofegant.
L’amic sòna, imprevist, impacient de saupre.
Doas oradas de trabalh a l’IUFM. De retorn, la gim. Ser, l’amic passa, se fai tot contar. Precise lo calendièr: deman, obténer un rendètz-vos amb lo cirurgian, datar l’intervencion, s’es possible segon mon sovet, après tot çò previst per l’estiu ; demoraràn cinc jorns pichòts entre lo retorn de la randò e la represa dau trabalh, benlèu pas simples.
20 de setembre, dimècres
La jornada es subrebèla. Escriure que siái davalada au mercat crompar de rasim perque i anarai pas divendres per rason d’espitau a de sens que per ieu. En realitat, faire dins lo cada-jorn, lo pas grand causa, empacha çò excepcionau d’ocupar lo primièr plan de la pensada. Crompar un vestit per córrer – es pas un luxe, lo vièlh es tot mauformat – remanda l’ablacion dau nodule au rèire-plan. Las banalitats son de legir coma de signes, d’empachas de levar per trobar en dejós çò essenciau. Aquò’s bon de saupre per la literatura.
Volontariament, arribe tardièra a l’espitau. Conoguda causa es una partida dau scenàrio: traversar l’agach das pacients qu’espèran – «pacients», entre paciéncia e patiment, qué causir ? –, l’estigmatizanta blòda blanca.
An mancada la localizacion dau nodule. Auriá desparegut? Legiguère qu’aquò arriba, un
nodule nais, tres pichons torns e puòi se’n vai... Lo mètge de julh es pas aicí. La radiològa, cap de servici – o sauprai mai tard – a pas las fòtos de l’IRM ni de l’ecografia de l’estiu. Coma se fai? Dorsièr perdut? M’esperavan pas? Se son pas comunicat los elements? Fotut espitau!
Ela cèrca lo nodule, es aqueste, non, tròp pichòt, l’intèrne l’ajuda, mesura sus l’ecran, legís lo rendut-compte d’IRM, lo doble que l’aviái menat, per astre, cèrca amb ela. Sortisson. Perqué? E ieu siái aquí, a esperar. Tòrnan cercar. Decidisson finalament qu’es aqueste. Quala part d’asard? Mas ela capita pas de li engulhar dedins lo fiau de localizacion. Pèrd lo fiau. Tòrna començar. La «segonda» (infirmièra?) que passa lo materiau ne quinca pas una. La sentisse dins lo dobte. Après, quand fai una mamò, «per securitat» çò ditz, laissa tombar d’unas responsas pro criticas. Semblariá que la cap de servici siaguèsse pas un fènix de competéncias... Pro qu’agèsse trobat lo bon nodule !
Espitau, unifòrmes blancs que van que venon, silenci aseptizat, ròdas de carretons per los corredors. « Pacients » invisibles, en sobrevida.
Luònh, la filha que respond a pena a mas telefonadas que las vòle leugièras.
Luònh, sa sòrre que dintra deman dins son «jòb» coma ditz, novèu.
Quand siái quichada, me manten la pensada de las filhas. Es benlèu la faceta egoïsta de l’amor.
23 de setembre, divendres
La jornada d’ièr es una parentèsi. Coma copada de la memòria, dau temps. Coma se siaguèsse pas estat. Es a pro pena se vegère la cara de l’anestesista e ausit «Revelhatz-vos!». Puòi, un estat de somnoléncia.
Lo telefòne. L’amic. Coma vau? Siái ensucada. Se patisse? Quand bolegue, un ponhau dins lo pitre. Se pòt venir? Non.
Lo nodule es anodin, sens perilh. Coma pòdon èsser enganaires, los mots! Aquò ten sonque a una pichòta negacion a tal o tal endrech... Mas, per una certitud, cau esperar l’analisi completa.
Los sens, los ai pus coma abans. Remontats, òc; seràn coma èran quaranta annadas fai? Mas vese pas res amb lo pensament. Me sembla que lo d’esquèrra es mauformat... Veirem après la cicatrizacion. Ne parlarai pas au cirurgian.
Nimai prendrai pas la mesada de congièt qu’a prescricha.
Trenta passes fai lo corredor. Seissanta en tornant. Carrege la perf, dins un sens, l’autre. Passa lo mètge, agach interrogatiu. Ja d’en-pè? Òc. Pas question de faire la malauta coma aqueles còrses espandits entre linçòus qu’entrevese per las pòrtas badantas. Lo meu, de còrs, es pas malaut, lo nodule es anodin.
25 de setembre, diluns
Mots. Mots... Qué dison, los mots, de las sensacions? Tot bèu just se, despoderats e vans, las pòdon evocar, images, metafòras. Mas ben magre es lo rendut, que los mots, simplament, pichotament, donan sonque de tramas.
«Plaser» rend pas a cima das dets la doçor d’aquesta pèu tan lisa que ne ven irreala, sa calor de vida, son adesion perfiècha a una colona de carn densa e bateganta d’energia, secretament.
«Plaser» tòrna pas metre a cima de l’agach las corbas delicadas d’un capairon tibat a pena fendut ennaut entre doas bregas minusculas.
Verga marcada d’un estigmate femenin pòrta lo sovenir d’una comuna origina embrionària.
La vida es femna. Siái vida.
11 d’octòbre, dimècres
Arriba pas qu’as autras. Es tombada l’analisi.
Cancre dau sen.
Lo protocòle indica que cau tornar operar per copar un tròç de mai considerat a risca e cercar dins los ganglions en pausar un drèn, puòi radioterapia: comptar tres mesadas. Après, cinc annadas de tractament.
Se vòu rassegurant, lo mètge, es dins son ròtle: grade UN sus una escala que ne compren maites ; l’intervencion segonda e la radioterapia son de mesuras preventivas e de... securizacion ; res de mai se deuriá pas trobar. Benlèu... L’autre jorn, lo nodule lo declarèron anodin, e pasmens...
Escote, coma se siaguèsse una autra. Me laisse envasir per sa persuasion.
I a dos scenarii, lo verd e lo negre. Joguem lo primièr.
Aquò èra cinc jorns fai. Uòi, lo scenàrio a caminat.
… de dètz, uòch bonas sòrts..., lo diagnostic es tombat sus las doas autras. Se pòt aver la
mèma configuracion. Esperar debuta de novembre per las resultas de l’analisi novèla.
Esperar, encara.
D’aquí alai, i aurà agut la cirurgia, sièis jorns d’espitau – dau temps de las vacanças, pas vist, pas pres –, lo braç drech blocat per la dobertura de l’aissèla, lo sen amputat d’encara un tròç. Lo còrs macat, tocat, endecat. L’agach qu’ai sus ieu.
An parlat de «securizacion» per justificar de ne copar mai, «precaucion», diguèron. Lo professor G. èra pas present a la reunion de concertacion de l’equipa medicala. Auriá partejat la decision? Me pòde pas empachar de pensar qu’aquesta represa cirurgicala constituís un acte de mai que servís la gestion comptabla de l’espitau...
Medecina mecanica. Los malautes son venguts de practicas. L’espitau a interés a multiplicar los actes per justificar los crèdits o simplament son manten. Rentabilitat.
Rentabilitat, faire la chifra. Los quites mètges ne son victimas, tant coma los pacients.
Quand una femna met de temps per s’acochar, fan la cesariana, acte medicau tant de punts dins lo balanç de l’espitau.
Cesariana – dobrir lo ventre – sortir l’enfant – tornar cordurar. Au còp que ven !
Violéncia au còrs femenin. Un image dur me ven d’aqueles cavaus de picadors dins l’arena, embanats per lo taur, perdent las tripas, las tornavan metre dins la pança, corduravan... E mai dins l’arena.
L’estrategia dau secret assolida ma tranquillitat, m’esparnha questions e remarcas pietadosas. La vòle gardar duscas a la fin de las tres mesadas.
L’amic present, fòrça.
14 d’octòbre, dissabte
Apasture pas la plaça publica das avatars de ma femenitat.
25 d’octòbre, dimècres
(...)
Qué demorarà dau sen amb aqueles dos tròces levats? Qual agach li portarai deman au moment dau primièr pensament? Lo caudrà acceptar, mutilat, atrofiat, acceptar aquesta pèrda de ieu.
Lo còrs femenin mutilat. Lo còrs tocat es l’èsser tocat, lo còrs demesit es la vida demesida.
Una part de l’integritat de se que se pèrd. Càmbia mon quite agach sus ieu.
Una cesariana, ne gardas la marca e la geina a vida. Un sen en mens, o la mitat, es una part de tu sacrificada a vida. La matriça, quand la te lèvan, es lo nis o lo nais de la vida que te’n amputan.
Ne cèrcan de solucions, los sabents, per protegir lo còrs femenin d’aquelas ablacions?
An pas d’estat d’anma, los cirurgians, en trencant dins la femenitat?
Se son demandat se tòcan pas simbolicament a quicòm de sacrat?
An consciéncia que copar tot o una part d’un sen es una atencha a l’èsser sexuat d’una femna?
Sauvar, garir prenon lo pas sus «primum non nocere».
La cirurgia obstetrica s’aparenta a una especialitat genrada, los òmes ne son mèstres, raras las femnas dins lo mestièr. Las levandièras e autras mairolièras son femnas mai sàvias.
TESTO ITALIANO
Tratto da: “Cronica de quauques jorns ordinaris”, L’Aucèu libre, 2023
CRONACA DI ALCUNI GIORNI ORDINARI
(…)
10 luglio, lunedì, Montpellier
Sala d’attesa d’ospedale e donne in camice bianco. Quante usciranno col sorriso?
– Pazienti per i risultati.
Sarei privilegiata, senza camice, venuta solo per una notifica?
Mettere in parole gli stati fisici… nominarli per domarli.
È innanzitutto una febbrilità in fondo al ventre, che si diffonde allo stomaco e non al sesso come nel piacere, stomaco ardente, febbrilità che invade le gambe e le braccia. Tirare un bel respiro, discretamente, a occhi chiusi. La rossiccia, di fronte, si rosicchia le unghie. Le altre leggono o fanno finta, e così gli uomini che le accompagnano,
Donne in attesa di un diagnosta. Cosa provano? Chiamano la rossiccia. Si alza lentamente, fra la timidezza e il ritegno, sparendo dietro una porta gialla; dietro, la sentenza l’attende.
Si apre la porta del medico T., il radiologo. Pronuncia un nome di donna, sorride, affabile, il suo sguardo è su di me. E allora? Non è un segno: con le trenta donne al giorno che consultano, non mi ha riconosciuta.
Sento il mio nome nel suo ufficio, ma non il seguito.
Il mio turno. Il diagnosta.
C’è ben un nodo, “atipico”, non canceroso ma presentante un rischio, può evolvere. Bisogna operare. Non v’è urgenza.
Bilancio: arrestare il THS, prevenire l’operazione.
I prossimi due, tre mesi saranno una svolta.
Organizzare l’estate, fare il previsto. Quando, l’operazione? Fra la camminata e il rientro al lavoro, questo mi andrebbe.
Nessuno oltre l’amico saprà. Inutile inquietare. Non voglio che cambi lo sguardo degli altri su di me.
L’IUFM chiama: un lavoro urgente da fare. Il vicedirettore rimette in causa le disposizioni di inizio giugno. Per fortuna non sono ancora partita per tornare a casa. Ci andrò nel primo pomeriggio.
Aspettare ancora in una Montpellier umida e soffocante.
L’amico chiama, improvvisamente, impaziente di sapere.
Due ore di lavoro all’IUFM. Al ritorno, ginnastica. Di sera, l’amico passa, si fa raccontare tutto. Preciso il calendario: domani, ottenere un appuntamento con il chirurgo, prendere la data dell’intervento, se possibile secondo il mio desiderio, dopo tutto ciò che ho previsto per l’estate; resteranno appena cinque giorni fra il ritorno dalla camminata e la ripresa del lavoro, probabilmente non semplici.
20 settembre, mercoledì
La giornata è splendida. Scrivere che sono scesa al mercato a comprare dell’uva perché non ci andrò venerdì per ragioni d’ospedale ha senso solo per me. In realtà, fare delle cose nella giornata, le solite, impedisce al fatto eccezionale di occupare il primo posto nei miei pensieri. Comprare un vestito per correre – non è un lusso, il vecchio è tutto malformato – rimanda l’ablazione del nodulo in secondo piano. Le banalità sono da leggere come segni, ostacoli da togliere per trovare sotto ciò che è essenziale. È bene saperlo in letteratura.
Volontariamente, arrivo tardi all’ospedale. La so una parte dello scenario: attraversare lo sguardo dei pazienti che attendono – “pazienti”, fra pazienza e patimento, cosa scegliere? –, lo stigmatizzante camice bianco.
Non sono riusciti a individuare il nodulo. Che sia sparito? Ho letto che succede, un nodulo nasce, due o tre trucchetti e se ne va… Il medico di luglio non c’è. La radiologa, capo servizio – lo saprò più tardi –, non ha le fotografie della risonanza magnetica né l’ecografia dell’estate. Come si fa? Hanno perso la cartella clinica? Non mi aspettavano? Non si sono comunicati gli elementi? Maledetto ospedale!
Lei cerca il nodulo, è questo, no, troppo piccolo, l’internista l’aiuta, misura sullo schermo, legge i risultati della risonanza magnetica, la copia che avevo portato, per fortuna, cerca con lei. Escono. Perché? E io sono qui, ad aspettare. Cercano di nuovo. Decidono finalmente che è questo. Quanto c’entra il caso? Ma la dottoressa non riesce a inserire il filo di localizzazione. Perde il fiato. Ricomincia. La “seconda” (infermiera?) che passa il materiale non ne azzecca una. La sento in dubbio. Poi, quando fa una mammografia, “per sicurezza”, dice, lascia cadere alcune risposte molto critiche. Sembrerebbe che la capo servizio non sia una cima in quanto a competenza… basta che abbia trovato il buon nodulo!
Ospedale, divise bianche che vanno e vengono, silenzio asettico, viavai di barelle nei corridoi. “Pazienti” invisibili, in sopravvivenza.
Lontano, mia figlia che risponde appena alle telefonate, che vorrei leggere.
Lontano, sua sorella che entra, come dice, nel suo nuovo “job”.
Quando sono oppressa, mi sostiene il pensiero delle figlie. Forse la faccia egoista dell’amore.
23 settembre, venerdì
La giornata di ieri è una parentesi. Come troncata dalla memoria, dal tempo. Come se non ci fosse stata. A stento ho visto il viso dell’anestesista e sentito “Si svegli!”. Poi uno stato di sonnolenza.
Il telefono. L’amico. Come va? Sono intontita. Se soffro? Quando mi muovo, un pugnale nel petto. Se può venire? No.
Il nodulo è insignificante, senza pericolo. Come possono essere ingannatrici, le parole! Non è che una piccola negazione in questo o quel posto… Ma, per una certezza, bisogna aspettare l’analisi completa.
I seni, non li ho più come prima. Risaliti, sì; saranno come erano quarant’anni fa? Ma, con rammarico, non li vedo e sono preoccupata. Mi sembra che quello sinistro sia malformato… Vedremo dopo la cicatrizzazione. Ne parlerò al chirurgo.
E nemmeno prenderò il mese di congedo che mi è stato prescritto.
Trenta passi fa il corridoio. Sessanta tornando. Trascino la flebo, in un senso, nell’altro. Passa il medico, sguardo interrogativo. Già in piedi? Sì. Non ci penso a fare la malata come quei corpi distesi fra le lenzuola che intravedo dalle porte socchiuse. Il mio, di corpo, non è malato, il nodulo è insignificante.
25 settembre, lunedì
Parole, parole… cosa dicono, le parole, delle sensazioni? È già tanto se, impotenti e vane, le possono evocare, per immagini, metafore. Ma ben magra è la resa, poiché le parole, semplicemente, piccolmente, non danno che delle trame.
“Piacere” non rende sulla punta delle dita la dolcezza di questa pelle così liscia da divenire irreale, il suo calore di vita, la sua perfetta adesione a una colonna di carne densa e pulsante di energia, segretamente.
“Piacere” non restituisce allo sguardo le curve delicate di un cappuccio teso appena inciso in alto fra due labbra minuscole.
Verga segnata da una stigmate femminile porta il ricordo di una comune origine embrionale.
La vita è donna. Sono vita.
11 ottobre, mercoledì
Succede solo alle altre. È arrivata l’analisi.
Cancro al seno.
Il protocollo indica che bisogna rioperare per recidere un pezzo in più considerato a rischio e cercare nei gangli collocando un tubo di drenaggio, poi radioterapia: contare tre mesi. Poi, cinque anni di trattamento.
Si vuole rassicurante, il medico, è nel suo ruolo: grado UNO su una scala che ne comprende diversi; il secondo intervento e la radioterapia sono misure preventive e di… sicurezza; non si dovrebbe trovare nulla di più. Forse… L’altro giorno, il nodulo lo hanno dichiarato insignificante, però...
Ascolto, come se fossi un’altra. Mi lascio invadere dalla persuasione.
Ci sono due scenari, il verde e il nero. Giochiamo il primo.
Questo cinque giorni fa. Oggi lo scenario è cambiato.
… su dieci, otto buone probabilità…, il diagnosta è caduto sulle altre due. Si può avere la stessa configurazione. Attendere la fine di novembre per i risultati della nuova analisi.
Attendere, ancora.
Ormai, ci sarà stata la chirurgia, sei giorni d’ospedale – durante le vacanze, non visto, non preso –, il braccio destro bloccato dall’apertura dell’ascella, il seno amputato ancora di un pezzo. Il corpo ammaccato, toccato, leso. Lo sguardo che ho su di me.
Hanno parlato di “sicurezza” per giustificare il fatto di tagliarne di più, “per precauzione”, hanno detto. Il professore G. non era presente alla riunione di concertazione della squadra medica. Avrebbe condiviso la decisione? Non posso impedirmi di pensare che questa ripresa chirurgica costituisca un atto in più che serve alla gestione contabile dell’ospedale…
Medicina meccanica. I malati sono divenuti pratiche. L’ospedale ha interesse a moltiplicare gli atti per giustificare i crediti o semplicemente il suo mantenimento. Rendita.
Rendita, fare cifra. Gli stessi medici ne sono vittime, così come i pazienti.
Quando una donna ci mette del tempo a partorire, fanno il cesareo, atto medicale tanti punti nel bilancio dell’ospedale.
Cesareo, aprire il ventre – estrarre il bambino – ricucire. Alla prossima!
Violenza al corpo femminile. Una dura immagine mi viene in mente di quei cavalli dei picadores nell’arena, incornati dal toro, perdenti le budella, le rimettevano nella pancia, le ricucivano… nell’arena.
La strategia del segreto assicura la mia tranquillità, mi risparmia domande e osservazioni pietose. Voglio mantenerla fino alla fine dei tre mesi.
C’è l’amico, forza.
14 ottobre, sabato
Non nutro la piazza degli avatar della mia femminilità.
25 ottobre, mercoledì
(…)
Cosa resterà del seno senza quei due pezzi? Quale sguardo gli porterò domani nell’istante del primo pensiero? Dovrò accettarlo, mutilato, atrofizzato, accettare questa perdita di me.
Il corpo femminile mutilato. Il corpo toccato è l’essere toccato, il corpo diminuito è la vita diminuita.
Una parte dell’integrità di sé che si perde. Cambia il mio stesso sguardo su di me.
Un taglio cesareo, ne conservi il segno a vita. Un seno in meno, o la metà, è una parte di te sacrificata alla vita. Quando ti tolgono la matrice, è il nido e il bacino della vita che ti amputano.
Ne cercano di soluzioni, i sapienti, per proteggere il corpo femminile da quelle ablazioni?
Non hanno uno stato d’animo, i chirurghi, incidendo nella femminilità?
Si sono chiesti se non toccano simbolicamente qualcosa di sacro?
Sono consapevoli che tagliare tutto o una parte del seno è un attentato all’essere sessuato di una donna?
Il salvare, il guarire prendono il sopravvento su “primum non nocere”.
La chirurgia ostetrica è legata a una specialità di genere, gli uomini ne sono maestri, rare le donne nel mestiere. Le levatrici e altre mammane sono donne più sagge.
TESTO OCCITANO
Tratto da: “Fin’Amors Triptic... e mai”,
IEO Eraut, 2022
FIN’AMORS TRIPTIC… E MAI
(...)
La cambra es estada refacha dins l’ostalariá recentament installada dins un ostau vièlh. Las parets, sang secada “alla fresca antica”, li donan un ton d’intimitat. Tres paquets dins un recanton: los instruments, recaptats dins los estuges. Ges de bagatge personau, just çò minimum de vestits que servís a los protegir. Un libre sus la taula. La fenèstra es dobèrta sus lo cèu. En bas, una cort estrecha exala la frescor de malons jonchats d’èrba e quauques efluvis de flors. Una pòrta renaissença, dins l’angle, relèva la finessa de l’endrech.
E los vaquí, cadun d’un costat dau lièch, a se despolhar.
Eu, nud, un mièg-sorrire sus la cara, espatlas plan talhadas, còrs finament musclat.
Ela, gausa pas aventurar mai luònh son agach.
– Excusa-me, çò ditz.
L’excusar? De qué?
Alara, baissa los uòlhs: lo sèxe quilhat proclama lo desir d’ela. N’es trebolada. Tant d’enveja e tant de retenguda!
– T’excusar? Mas... i a pas de qué...
Dins l’agach bandat, cadun legís la volontat de l’autre de mestrejar l’enveja, l’ofèrta d’aquesta lucha amb se-mème, lo respècte mutuau d’aquesta libertat.
D’un gèst ample, ela, s’alongant primièra, lo convida. Lo contact sedós dau cobrilièch la fai trefolir.
– Midòns a freg? demanda en rotlant l’R dau biais trobadorenc e d’alhors a l’ongaresa.
– Non. Mercé.
Ne caliá pas mai per perseguir lo jòc, lo jòi benlèu.
– Sabes?... La dòna metiá lo trobador a l’espròva...
– Òc, sabe... L’assag...
Valor, Prètz... siatz doncas encara de bon viure dins nòstre sègle? Cortesia, nos menariá encara a bona fin! Me prenguèsse dins sos braces, aqueste cavalièr, crese que... Mas, non: la dòmna, la siái ieu. Se passarà res que non o vouguèsse!
Per ara, es aquí, eu, apiejat sus un coide, tendut dins son voler de res faire que m’agachar, sèxe totjorn quilhat. Espèra. E ieu, siái en balanç entre mon enveja d’eu e lo saupre que lo desir, mestrejat, es una font de jauviment esperitau d’autant mai rica qu’es inagotabla.
Adomengir lo desir e n’ofrir a l’autre son mestritge, mai que se véncer se, es onorar l’autre dins sa desmarcha parièra. Se despassar ensemble e un per l’autre.
Pas de besonh de dire tot aquò, tròp long e complicat amb lo pauc de mots qu’an en comun. Inutil, tanben: son actitud mòstra ben pro que parteja la mèma etica.
– Es ben, çò ditz.
Alara, se relevant un pauc, tend la man e seguís doçament las linhas de son còrs, lo sentís que tremòla jos sos dets. Sap ela que sos dets gardaràn la memòria d’aqueste còrs.
Una lagrema li perleja a las cilhas.
*
L’aire fresc de l’auba la desrevelha. Uòlhs clucats encara, se soven. Auriá quasi un regret ara... Mas, non, entau es melhor.
Eu dormís, alongat sus lo ventre, una camba replegada. L’abandon pasible de la nuditat ne joslinha l’elegància.
Sens bruch, pren sos afars, se’n vai.
(…)
TESTO ITALIANO
Tratto da: “Fin’Amors Triptic... e mai”,
IEO Eraut, 2022
TRITTICO DI AMORI CORTESI… E ALTRO
(…)
La stanza era stata rifatta nell’albergo installato di recente in un vecchio stabile. Le pareti, rosso sangue “alla fresca antica”, le danno un tono d’intimità. Tre pacchetti in un angolo: gli strumenti, riposti negli astucci. Nessun bagaglio personale, solo il minimo di vestiti che serve a proteggerli. Un libro sulla tavola. La finestra è aperta sul cielo. In basso, un cortile stretto esala la freschezza delle mattonelle unite dall’erba e qualche effluvio di fiori. Una porta stile rinascimento, nell’angolo, mette in risalto la finezza del luogo.
Ed eccoli, ognuno da un lato del letto, a spogliarsi.
Lui, nudo, un mezzo sorriso sul viso, le spalle quadre, il corpo muscoloso.
Lei, non osa avventurare più lontano il suo sguardo.
– “Scusate”, dice.
Scusarlo? Di che?
Allora, abbassa gli occhi: con il membro eretto, proclama il desiderio di lei. Ne è turbata. Tanta voglia e tanto ritegno!
– Scusarti? Ma… non c’è nulla di cui…
Nello sguardo teso, ognuno legge la volontà dell’altro di dominare la voglia, l’offerta di questa lotta con se stessi, il rispetto reciproco di questa libertà.
Con un gesto ampio, lei, sdraiandosi per prima, lo invita. Il contatto setoso del copriletto la fa trasalire.
– “Gentildonna, avete freddo?”, chiede rollando la erre alla maniera trovadorica e all’ungherese.
– No. Grazie.
Non serviva altro per continuare il gioco, la gioia forse.
– Sai?... La donna metteva il trovatore alla prova…
– Sì, lo so… L’ “assag”…
“Valor”, “Prètz”… siete ancora facili da vivere nel nostro secolo? La “cortesia”, ci porterebbe ancora a buon fine! Se mi prendesse fra le sue braccia, questo cavaliere, credo che… Ma, no: la “dòmna” sono io. Non accadrà nulla che non voglia!
Per ora, è lì, appoggiato ad un gomito, teso nel suo non voler fare nient’altro che guardarmi, il membro sempre eretto. Aspetta. Ed io, sono indecisa fra la mia voglia di lui e il sapere che il desiderio, dominato, è una fonte di godimento spirituale così ricca da essere inesauribile.
Domare il desiderio e offrirne all’altro la propria padronanza, più che vincersi, è onorare l’altro nel suo simile agire. Superarsi insieme l’uno per l’altro.
Non c’è bisogno di dire tutto ciò, troppo lungo e complicato con le poche parole che hanno in comune. E inutile: il suo fare dimostra che condivide la stessa etica.
– Certo, dice.
Allora, levandosi un po’, tende la mano e segue dolcemente le linee del suo corpo, lo sente fremere sotto le sue dita. Sa che le sue dita conserveranno la memoria di quel corpo.
Una lacrima luccica sulle sue ciglia.
*
L’aria fresca dell’alba la risveglia. Con gli occhi ancora chiusi, si ricorda. Avrebbe quasi un rimpianto, ora… Ma, no, così è meglio.
Lui dorme, allungato sul ventre, con una gamba piegata. Il quieto abbandono della sua nudità ne sottolinea l’eleganza.
Senza rumore, prende le sue cose, se ne va.
(…)
(traduzione Peyre Anghilante)
TESTO OCCITANO
Tratto da: “Negrelum”,
L’Aucèu libre, 2019
NEGRELUM
(…)
Aqueste diluns, lo mètge venguèt. Ara es pas mai necite de li donar los remèdis costumièrs.
– Alimentacion-plaser, çò ditz, idratacion jos-cutanèa per evitar lo patiment, morfina quand caudrà .
Aquò’s la fin anonciada.
Quauques jorns entau, a li faire engolir un culhierat de compòta, dos o tres de flan, amiras dins la jornada qu’an de sens sonque per los vius, que traucan un acossomiment, una letargia venguts permanents per ela que sap pus s’es jorn o nuòch.
Divendres, miègjorn. Alena broncament, boca badanta, uòlhs clucats. Lo personau s’afana, coma de costuma, pòrta lo manjar aquí, alai, s’interpèla, ritz, buta un fautuèlh, lo corredor s’anima. Ela, se morís.
Passa l’infirmièr.
– Li donèrem, aqueste matin…,
la morfina, solide.
Pauc a cha pauc, començan los uòlhs a se tresvirar. Regularament. Puòi un sanglòt, esfòrç coma de vòmit que monta dau ventre, secodís lo còrs vengut quasiment esqueleta, e s’estavanís sus las bregas. Un autre. E maites. De mai en mai prigonds. Aquesta vida entestardida a s’escapar pas… Faussetat de l’expression «rendre l’arma», engana lengatgièra e religiosa. Se quicòm es rendut quand òm se morís, saique, es pas l’arma, es ben la vida. La vida se vomís, immateriala, tota contenguda dins l’esfòrç per la rendre.
Passa mai l’infirmièr.
– Caudriá preparar los vestits que li volètz metre…
Venguèron puòi los raufèus, nòtas bassas tot just moduladas de contunh. La vida fai sa musica de mòrt. La vida o çò que ne demòra, tota se concentra dins aquesta alenada. Lo trauc negre de la boca. Lo blanc das uòlhs. Ges de marca de patiment sus la cara. Ges de gèstes descabestrats. Es apasimada, an fach çò que caliá. Li tene la man. Ara, los sanglòts an desaparegut, la musica de mòrt s’alonha, en sordina. Alena a la chut-chut. Lisa, la cara. Alena de mai en mai a la chut-chut, de mai en mai… chut-chut… chut… chut... ch... Alena pus. Son darrièr buf ven de sortir.
Es mòrta la maire.
(...)
TESTO ITALIANO
Tratto da: “Negrelum”,
L’Aucèu libre, 2019
OSCURO
(…)
Questo lunedì, il medico è venuto. Non servono più i soliti rimedi.
– Alimentazione-piacere, dice, idratazione sottocutanea per non soffrire, morfina, quando sarà necessario.
L’annuncio della fine.
Qualche giorno così, a farle inghiottire un cucchiaio di composta, due o tre di flan, prospettive nella giornata che hanno senso solo per i vivi, che bucano un assopimento, un letargo divenuti permanenti per lei che non sa più se è giorno o è notte.
Venerdì, mezzogiorno. Respira a colpi, la bocca aperta, gli occhi chiusi. Il personale si affanna, come al solito, porta il cibo qui, là, si consulta, ride, spinge una carrozzella, il corridoio si anima. Lei, sta morendo.
Passa l’infermiere.
– Stamattina le abbiamo dato…
La morfina, certo.
A poco a poco, i suoi occhi iniziano a roteare. Regolarmente. Poi un singhiozzo, sforzo come di vomito che sale dal ventre, scuote il corpo divenuto quasi scheletro, sviene sulle labbra. Un altro, e molti ancora. Sempre più profondi. Questa vita che si ostina a non fuggire… Falsità dell’espressione «rendere l’anima», inganno linguistico e religioso. Se qualcosa è reso quando si muore, di certo, non è l’anima, è la vita. La vita si vomita, immateriale, tutta contenuta nello sforzo per renderla.
Ripassa l’infermiere.
– Bisognerebbe preparare i vestiti che volete indossarle…
Poi sono venuti i rantoli, note basse appena modulate di continuo. La vita fa la sua musica di morte. La vita o ciò che ne resta, si concentra tutta in quel respiro. Il buco nero della bocca. Le pupille. Nessun segno di patimento sul suo viso. Nessun gesto convulso. È calma, hanno fatto ciò che dovevano. Le tengo la mano. Ora, i singhiozzi sono spariti, la musica funerea si allontana, in sordina. Respira piano. Il suo viso è liscio. Respira sempre più piano, sempre più… piano… piano.... p… Non respira più, ha appena esalato il suo ultimo respiro.
È morta la madre.
(traduzione Peyre Anghilante)
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