Stefen Dell’Antonio Monech Nasce a Moena (Valle di Fassa) nel 1958, in una famiglia dove la lingua e le tradizioni si trasmettono di generazione in generazione. In ladino si lavora la terra, si prepara la legna, si vivono le stagioni e la religiosità tramandata dagli antenati.
L’italiano è la lingua dei villeggianti. I bambini balbettanti lo apprendono, ma è la scuola a diffonderne l’uso attivo.
In quell’ambiente dove il vento di primavera soffia anche a Natale, Stefano cresce imparando a guardare e ascoltare la natura, gli animali, l’uomo, le piante. Ottenuta la Maturità Magistrale, si iscrive all’Università, che abbandona per inseguire e vivere i suoi sogni in montagna. Comincia il suo percorso lavorativo come bibliotecario presso l’Istitut Cultural Ladin “Majon di fascegn”, ricercatore e guida presso il Museo Ladin de Fascia. In seguito è referente culturale e guida presso il Servizio Parchi e Territorio, Foreste e Fauna della Provincia di Trento. Oggi svolge attività di guida naturalistica e culturale e di accompagnatore di media montagna, iscritto al Collegio delle Guide Alpine della Provincia di Trento.
Scrive testi per canzoni e filastrocche, opere teatrali, libri d’arte, storia e etnografia, strumenti didattici per la scuola, prosa e poesie. Realizza materiale didattico e programmi culturali per la radio e la televisione. È tra i fondatori del Gruppo teatrale Sedimes e membro del Gruppo letterario ladino Scurlins, con i quali ha organizzato numerose edizioni dei Dis de Letradura, rassegna inter-ladina dedicata alle lingue delle Dolomiti.
Ha suonato nei gruppi Marascogn e Lingue Morte, ora suona nel Trio InCorda e nell’OXT OrcheXtra Terrestre a Trento.
Le sue poesie sono raccolte nei libri Te n’outa demò (2004-2005) - Su la NEIF de la Vita (2007) - la regoeta dai colores de la bandiera ladina NEVE (2009) - Vèresc/Passi (2011) - Valivanzes (2015) - Anter sfenes de chierida lum (2018) - Nef codèes e na piva de sèl (2022) - Indèna che te rues: paroles lijieres tras nef meisc de speta (2015).
Le sue storie sono raccolte nei libri Mudazion, storie ladine - L’identità dimezzata: silenzi e rancori, amori e finzioni tra i ladini di Fassa - T’es na bela colombina… de Mèscres, de Faceres, de Tempes che cor, Saores e Colores: de tradizion, de speisa, de stories de Fasha.
Nel 2023 ha scritto e curato il catalogo d’arte Le stagioni dei colori nell’arte e nella vita di Luigi Pederiva, IGI Pitor. A gennaio 2024 ha dato alle stampe il volumetto: Tia Facera: co la pissèr zipièr, depenjer… e la durèr. Altri suoi scritti, ritratti e testi sono apparsi in numerose pubblicazioni collettive di autori ladini, tedeschi e italiani.
MOTIVAZIONE
Il Premio Ostana 2024 per le Minoranze linguistiche storiche in Italia è conferito a Stefen Dell’Antonio Monech per l’impegno genuino e profondo nella promozione e divulgazione della lingua ladina attraverso la letteratura, la musica, il teatro. Stefen è persona poliedrica che fa della vita quotidiana una testimonianza attiva della sua identità, legandola al territorio e alla sua cura e traducendola in arte letteraria. Vive la sua ladinità fra la gente, normalmente, ogni giorno, in ogni contesto e in ogni luogo. Un om da mont (uomo di montagna) che ha fatto della lingua e dell’identità ladina un lavoro e che sa essere di sprone per le generazioni future nella consapevolezza della loro “ladinità”.
Il Premio vuole inoltre essere un riconoscimento a Stefen Dell’Antonio Monech per le numerose Mascherèdes, farse teatrali “domestiche”. Queste erano in uso nel tempo del carnevale negli abitati di Alba e Penia, in alta Val di Fassa. Stefen ha così dato continuità alla tradizione popolare che annovera il Carnevale ladino di Fassa tra i più originali e caratteristici dell’intero arco alpino.
PER SAPERNE DI PIÙ:
https://ladiniacreativa.it/it/catalogo/stefen-dellantonio-monech
INTERVISTA A STEFEN DELL’ANTONIO MONECH
a cura di Sabrina Rasom
Ladini di Fassa: dove vanno, come, perché?
• Cos’è per te il ladino?
Il ladino è la mia acqua quotidiana, la coscienza attraverso la quale soppeso il mio e il nostro tempo, i valori della vita e il mio stare qui. È come le onde del mare che si generano e si rigenerano.
• Qual è lo status della lingua ladina in Val di Fassa?
In Fassa, come nelle altre valli dolomitiche, è in fase di regresso: dove l’unico scopo della vita è l’ostentazione del denaro, è in caduta libera. Così negli ambienti legati al turismo e alla speculazione; ambienti dove qualunque lingua parli è fatta di numeri. Altrove il regresso è meno marcato: si pensa e si parla in ladino, lo si apprende, lo si cura, lo si arricchisce con passione, condividendolo, creando ponti, relazioni e ospitalità.
• Cosa significa nella tua crescita personale, artistica e professionale essere ladino?
La consapevolezza di uomo aperto e libero, sapendo chi sono e da dove vengo. Significa affrontare ogni mia giornata con curiosità, voglia di imparare e scoprire ciò che sta oltre l’orizzonte della valle in cui sono nato. Vuol dire sentirmi dentro energia, forza e volontà e provare stupore.
• Come ti sei avvicinato alla letteratura ladina?
Da piccolo, guardando mio padre che leggeva ogni volta che poteva, lui, falegname impegnato dall’alba al tramonto, mi chiedevo cosa ci fosse mai in quei libri. Crescendo, ho capito che la letteratura è un antidoto alla noia, all’ignoranza, all’indifferenza. Lui leggeva libri di storia. Lì ha avuto inizio la mia, fatta di letture, di buoni maestri scrittori, studiosi, cantautori e poeti. Più leggevo e più volevo scrivere, dare e non solo prendere, creare testi, non solo leggerli. È stato così che ho cominciato a scrivere, cose piccole, confidenze a me stesso, qualche descrizione della natura, del paesaggio, degli uomini e delle donne di allora. In ladino naturalmente, poiché quella era la chiave con cui aprivo e chiudevo le porte della mia mente, del mio pensiero e del mio cuore.
• Dal 1989 al 2002 hai lavorato come bibliotecario e assistente culturale all’Istituto Culturale Ladino “Majon di fascegn”: qual è stata in quegli anni la tua più grande missione?
Non lo so. Se penso a quegli anni, avverto un senso di vuoto. Forse non mi è stata mai concessa la responsabilità di una vera missione. Quella ho dovuto cercarla fuori, dove il ladino era unione, confronto aperto e costruttivo, musica, poesia e condivisione. Mentre l’esperienza precedente l’avevo vissuta come una cosa torbida, sembrava una dittatura, una sorta di tresca. Oggi sento che quel tempo non mi appartiene più. L’ho lasciato andare quando il ladino dentro e attorno a me ha conosciuto una nuova rinascita, un modo nuovo di vedere il mondo, sentire, parlare, scrivere e vivere in ladino. È stata una liberazione, come salire su una cima e sentire dentro la voglia di ridere, suonare e ballare.
• La standardizzazione del ladino comporta scelte e percorsi difficili per non “rubare” la lingua ai parlanti e far comprendere l’importanza di questo passaggio per il futuro della lingua stessa. Ne hai parlato in uno dei racconti di Mudazion, dal titolo L descors del Gran Ladin…
Quello è un testo mitico, all’epoca, fuor di metafora, un vento nuovo nel panorama linguistico filologico ladino, in quegli anni fin troppo serio, che solo la satira e l’ironia di un personaggio teatrale potevano smascherare, celebrare, capire o condannare. In effetti il testo ha avuto un grande successo, anche grazie all’interpretazione di Vigilio, un amico oggi scomparso.
È stato lui a portare il Descors nelle scuole, nei teatri e nei programmi televisivi della Rai ladina. Affrontava temi scottanti: questioni territoriali riguardanti la diffusione del ladino nelle provincie di Trento, Bolzano e Belluno, grafia unitaria e nuova grammatica. Quindi scelte che riguardavano libri di testo, dizionari per le scuole e i corsi di ladino e per l’uso della lingua nell’amministrazione pubblica. È stata una battaglia lunga e difficile, tuttora in corso. Non so dire se ci sono stati vinti o vincitori forse non è questo il punto. L’obiettivo è continuare a scegliere, a migliorare, a credere nella forza di una lingua minoritaria.
• Se dovessi esprimere in tre parole ladine la tua identità, quali sceglieresti?
Rames, ciamp, ensema.
Rames sta per rami di un albero, ma si possono intendere metaforicamente anche come braccia, diramazioni… Questa parola, accostata alla mia identità, significa appigli e appoggi da usare per salire e scendere dalla cima di un albero, anche quello della vita. Sono grato ai rami che mi hanno permesso di raggiungere un punto alto dove guardare e guardarmi. Allora, come oggi, devo scendere dai rami per ricominciare. Rames significa anche fuoco, quello di legna, caldo, amico. Il fuoco dei rames è casa, calore, identità.
Ciamp è il campo, terra da lavorare, suolo su cui maturano le spighe, le idee, i sogni. Terra che si rigenera stagione dopo stagione, anno dopo anno, neve dopo neve. È lì, nel ciamp della vita, che sempre si torna e sempre si rinasce, come la primavera dopo l’inverno.
Ensema vuol dire insieme, uniti. È la parola chiave della mia identità: insieme saremo e andremo. Il domani sarà se sapremo unirci, affrontare insieme, in un rapporto di relazioni, le incognite e le sfide, per vivere tutti noi, minoranze e maggioranze, autoctoni e non, insieme godere e condividere il bene di altri uomini. Anche in silenzio, senza dire nulla. Lo si fa in Tibet e altrove. Lo si può fare anche in ladino.
Rames, ciamp, ensema, tutto in cordata, tutto è connesso.
• Ladinità e montagna: un connubio su cui puntare per lo sviluppo della Val di Fassa?
Credo che ladinità e montagna stiano attraversando tempi difficili e incerti, pieni di “tutto esaurito” e di vuoti, di promesse e delusioni, veri e falsi amori. La montagna è sempre più presa d’assalto, dall’arroganza dei soldi sia da parte dei montanari che dai turisti affamati di emozioni forti e fatue, di tutto e di niente. La ladinità rimane in disparte, buona e bella quando bisogna vendere la vacanza o il prodotto chiamato locale, dimenticata e lasciata sola quando chiede attenzione, serietà e dignità. Le popolazioni ladine si stanno facilmente adattando, partecipano alla mercificazione della loro storia, terra e lingua, svendono il mantello santo per quattro denari pensando solo al qui e ora. Senza la montagna, la ladinità cambia anima, volto e maschera, veste, lingua e storia. Se questa mercificazione non verrà meno, non ci sarà un futuro sicuro né per la montagna né per la ladinità.
• Identità ladina e giovani: come vedi il futuro del ladino?
Vedo tanti giovani, soprattutto donne, impegnate nella ricerca di una casa, di un futuro e la situazione non favorisce le coppie e le famiglie locali. In Valle i prezzi delle case sono elevatissimi così come gli affitti annuali. Gli appartamenti vengono affittati settimanalmente e i giovani devono spesso lasciare la valle e andare ad abitare in Val di Fiemme o altrove. Con i giovani viene a mancare una parte di ladinità e di futuro. In questo ambiente le giovani generazioni perdono fiducia e si vedono costrette ad abbandonare la loro lingua, già intrisa di contaminazioni e invenzioni. Il ladino avrà un futuro solo se sapremo pensare insieme il Bene di tutti, mettendo da parte il “Dio Io”, come lo chiama il teologo Vito Mancuso, e pensare e generare un Noi.
• Parliamo di Mudazion, edito dal Grop Ladin da Moena: lo definirei un album di storie, riferimenti, realtà sottintese…
Nel medioevo della mia vita, ho raccontato quanto sentivo e avvertivo attorno a me. Il mondo, non solo il nostro, stava cambiando, erano in corso mutazioni, da cui il titolo del libro. I miei pensieri volevano fermare tra le righe ricordi e riflessioni, storie e vite passate ma non ancora troppo lontane né dimenticate. Forse per la prima volta apparivano in ladino racconti dove erano protagonisti uomini e donne deboli e fragili, schiavi di giudizi, pregiudizi e tabù. La diversità di chi abitava e camminava ogni giorno accanto a noi, in Mudazion viene sviscerata e raccontata, interpretata attraverso diari anche intimi, pensieri di menti audaci o fragili, vite passate, chiari e scuri, mutazioni individuali e collettive. È stato e forse è tutt’ora un libro che come uno specchio riflette le radici psicologiche e antropologiche di chi lo legge. Come uno specchio mostra e rivela, crea curiosità, gli si dà luce. Poi a volte si appanna e diventa una lavagna, la parete scura che convive con noi.
• Sei un artista eclettico. Ti sei occupato anche di musica tradizionale e non.
Creare è un po’ come fare il pane, è ogni volta una prova diversa. Così mi sono avvicinato alla musica. Qui ho incontrato dapprima la musica della tradizione. Con la ghironda, il salterio, i flauti e l’armonica ho aperto tante finestre e porte, ho visto entrare e uscire sassi e oro, spine e rose. Attraverso la trasfigurazione e condivisione della parola ladina in musica ho vissuto e vivo amicizie profonde e vere, emozioni forti, legami di seta che porterò avanti per sempre. Nella mia vita ho scritto tanto e di tutto, anche testi per cori di grandi e bambini, proverbi, calendari e discorsi celebrativi.
• Le mascherèdes: genere teatrale tutto fassano col quale ti sei cimentato, entrando in un mondo, quello del Carnevale di Penia, che ti ha accolto con entusiasmo, grazie alla tua capacità di rispettare e valorizzare la cultura della gente. Vuoi parlarcene?
Ne ho scritte una dozzina e le ho portate in giro per le case nei giorni del Carnevale di Fassa: così come un tempo, quando un gruppo di giovani mascherati partiva la sera con l’organetto e andava di casa in casa portando allegria, musica e piccole e rumorosissime farse comiche. L’obiettivo era fare colpo sulle ragazze. Alla fine si ritrovavano in un ambiente caldo e ballavano, parlavano, cantavano, gettavano le basi per sogni e progetti futuri. Era Carnevale!
Oggi la festa è portata avanti con entusiasmo e coerenza soprattutto nei paesi di Alba e Penia, in alta Val di Fassa. La regia è affidata al Grop de la Mèscres da Dèlba e Penìa, che organizza le sfilate e le corse delle Maschere Guida (Laché, Bufon e Marascons). A Penia, le Mascherèdes sono presentate al pubblico quattro o cinque volte. Queste sono scritte e interpretate in ladino e richiamano il pubblico da ogni paese della valle, che le attende con grande curiosità ed emozione. Alla fine si balla insieme fino a notte fonda al suono di organetti, chitarre e fisarmoniche, si mangia e si beve, ci si lascia e ci si ritrova, dandosi appuntamento al prossimo Carnevale.
Qualche anno fa, quando gli ultimi due autori delle mascherèdes (Simon de Giulio e Fabio de la Menìna) hanno smesso di scrivere, mi è stato chiesto di creare una mascherèda e ci ho provato. Tutte sono state interpretate più volte donando allegria e risate.
Il Carnevale è uno specchio della comunità, ci rivela dove stiamo andando e cambiando. In effetti, nelle mie mascherèdes abbandono ogni freno e con ironia mostro la realtà che ci circonda, come vuole lo spirito del teatro popolare e della satira. È un momento in cui molti giovani si avvicinano al ladino e alla tradizione e partecipano emozionati alla condivisione di una storia secolare. Molti provano a parlare in ladino e se non ci riescono continuano in italiano senza imbarazzo né paura. Le lingue vengono così smascherate e con le lingue le identità. Oggi tanti giovani si sentono ladini parlando e vivendo entrambe le lingue. Magari parlano soltanto italiano ma vivono in ladino. Avvicinano le due lingue che poi diventano tre o quattro o più. Ciò conferma la tesi secondo la quale il bilinguismo genera il plurilinguismo, l’apprendimento facilitato dei vari idiomi dove il ladino, lingua madre o lingua amica, funge da maestra.
ANTOLOGIA
TESTO LADINO
L CIAMP DE ORC
L picol ciamp de òrc adort al soladif l era ló da semper, inlengia gejia, japede cèsa. Delavia, Vernel, bel, in pe, mior chèder del maor autor.
Èa tocà a la fémenes ti ultimes 40 egn, se cruzièr de chel toch de tera, dal sbadilèr e arèr, al semenèr al regoi. Zacan l era la veia mère che regea dut l lurger e do la doi fies, che ogne an, stolzes e aiegres, les rencurèa chel ciamp per tradizion, ogne outa con de neva gaissa e devozion.
L era bel les veder d’aisciuda co la neif ló d’intorn, trèr ca la caeria e la veia ciufola e scomenzèr a spenjer, a trèr, a sinfernèr e bugolèr.
L era sons che l ciamp l pertendea, steora da paèr tel cors del rituèl veie e veior, res de encanteisem. Chela femenes les ge cherdea dassen a chel fèr e a chi moviments che ló se èa semper fat e che per n trat amò… se aessa seghità a fèr. Chel fèr, chel lurger, chel meter en viac la vita, n jerf, na zemenza e n frut, l jia passà, lascià a zachei, a la storia, al doman, al davegnir.
Do i stragauc fac a meter a jir vacia e caeria, la solbia tera la vegnìa tochèda col valif fèr delicat che chela medema mans da sera, les durèa a sliscèr la fedreta pena lavèda del piumac. Se ge fajea n aicia al piumac del nef ciamp, se l snasèa, se ge vardèa al lench, prean sotousc, recordan, coi eies seré.
Dapodò, tel chiet de la sera, n ram de olif l vegnia pojà te mez ciamp, rituèl volù da la tradizion, magich, sacrèl, sènt.
Amò doi orazions smormorèdes indèna che l gial l ciantèa n’ultima outa.
Dapò la femenes, stencèdes, les jia deretorn a cèsa, a fèr la femenes.
TESTO ITALIANO
IL CAMPO D’ORZO
Il piccolo campo d’orzo sul pendio soleggiato era lì da sempre, sotto la chiesa, accanto alla casa. Di fronte, Vernel, splendido, enorme, imponente quadro del miglior autore.
Era toccato alle donne negli ultimi quarant’anni occuparsi di quel pezzo di terra, dall’aratura alla mietitura. L’intero ciclo lavorativo era curato dalla vecchia madre e dalle tre figlie che, orgogliose e felici, accudivano quel campo per tradizione, ogni anno con rinnovata cura e devozione. Era bello vederle a primavera, con la neve lì attorno, inforcare l’aratro, la vecchia vacca magra e incominciare a spingere, soffiare, sudare, imprecare.
Erano suoni che il campo richiedeva, tassa da pagare all’interno del rituale antico e sacro. D’altronde, quelle donne ci credevano a quelle operazioni e a quel lavoro, poiché lì s’era sempre fatto così e quindi andava fatto ancora, andava tramandato, celebrato.
Dopo la fatica dell’aratura, la terra morbida veniva livellata con dignità dalle stesse mani che di sera accarezzavano la fodera appena lavata del piumino. Si accarezzava il piumino del nuovo campo, lo si annusava, lo si guardava a lungo, pregando. Poi, nel silenzio della sera, un ramo di ulivo veniva posto in mezzo al campo, magico rituale propiziatorio.
Ancora due preghiere, sottovoce, mentre il gallo di casa cantava un’ultima volta.
Poi le donne, esauste, rientravano in casa, a fare le donne.
TESTO LADINO
LA LEZION DE LADIN
L ensegnat de ladin l é ruà ite te clasc e sui bec se à calà na gran moza. I recorc de sie lengaz mère se à mesedà col ladin nef, chel rejonà te strèda enveze che te cèsa, chel tout su per cajo, chel lijier, chel che vegn ensegnà te scola. A scola. Ai corsc per se enjignèr ai ejames per la cognoscenza del lengaz ladin. A la scontrèdes de la congregazions de chi che se cruzia del ben comun. Chel che l vegn durà su la cara e semper medema usc che vegn fora ogne trat de temp, su la publicazions, sui placac, sui envic, te la didascalies. Chel ladin nef e cert. Portà dant, sport, ma no semper volù. Cacià con forza te n’ènema zenza sentiment, che se moscia spèvech sun seva, sorì e no, politicamenter, storicamenter e scientificamenter “corretto/dret”.
Desche n strion stencià, l ensegnant domanèa traduzions stufegoles toutes fora da n liber con piates ensalides e consumèdes. I mic i vegnia touc ca per empienir i dis de na cultura doventèda pureta tel sentiment e mudèda, prejenza piena de mencianes, tornaconc sorii, cogner fèr più che voler fèr. Ma no l era na costion de lengaz. De colun lengaz. Sencajo l era na costion de estro. De colun estro.
Vegnia ensegnà e col ensegnèr a chela vida se perdea fiduzia e sbunf. La gaissa. La forza. L coraje. De esser se enstesc. De esser ledesc. De esser feruscoi. De esser... demò ladins.
TESTO ITALIANO
LA LEZIONE DI LADINO
L’insegnante di ladino entrò in classe e sui bambini scese una fitta nebbia. I ricordi della pur sempre lingua madre si confusero con la nuova grafia, la lingua standard, il nuovo ladino, quello, per l’appunto, insegnato. A scuola. Ai corsi di preparazione agli esami per la conoscenza della lingua ladina. Alle riunioni della nuova confraternita pensante il bene collettivo. Quello usato sulla cara sempre uguale voce periodica, su alcune pubblicazioni, manifesti, inviti, didascalie. Quel ladino nuovo e antipatico. Imposto e non scelto. Dato ma non voluto. Vivo nell’anima della morte.
Come uno sciamano stanco, l’insegnante propiziava improbabili traduzioni stanche di pagine ingiallite e consumate. I miti tornavano a riempire l’attualità di una cultura impoverita e cambiata, assenza sempre presente, equilibrio di forze apparenti, nuova imposta, carnevale dei poveri, verità nascosta.
Si insegnava e insegnando in quel modo si impoveriva la voglia e la spinta. La passione. La forza. Il coraggio. Di essere se stessi. Di essere liberi. Di essere svegli.
Di essere ladini, semplicemente.
TESTO LADINO
I PITORES
I pontèa demez che i era joegn e i vegnia de retorn che i era veies, stencé e famé, mingol sveté. No i jia en vera, ma i jia demò a sel vadagnèr.
L era bachegn forc e chiec/boneres che fora per i meisc da d’invern i passèa l confin a pe, envers nord per jir a fèr i pitores – decoradores. I ge lascèa rejer la familia e la stala a la femenes e ai veies de cèsa, i pontèa demez e i se ciarièa su la spales i èrc del mestier, colores, penie, spoctil, cocoi, polveres e speranzes. Dant i passèa via la Dolomites, do la Èlpes e i ruèa tel Tirol, te la Stiria, te la Carinzia, te la Baviera e amò più dalonc, te la Ungheria e te l’Austria del nord. I jia fora per la cèses, per domanèr de lurèr e scialdi i ciapèa. Desche pitores i era bogn de neteèr ju i parees de la cèses, de i fèr da nef o de i comedèr e donca ge dèr ju, o miec de i encolorir con colores vegetèi e naturèi. Zachei de ic se spezialisèa te la decorazions, i era bogn de fornir su con reses, fiores e besties de duc i colores, parees e mobilia, èrc per lurèr, portaores, utères, crisć e capitie.
La era certa la fegura del pitor fascian che, do aer lurà fora per la sajon da d’istà tel bosch e te pra, fora de n bel nia l doventèa artist che vivea te la meseria, bon de mescedèr i colores con gran braura, gustegol bricon con n ciapel massa gran e mans bele demò granes. Beleche semper, chela l’era la soula vida che ge dajea l met a la familia de veder vèlch scioldo, de poder se lascèr su n scioldo segur, de utol e de besegn. No l era tradizion, l era demò besegn, fabesegn, fam. Canche l vegnia de retorn per jir con fegn, l pitor l era stencià, famà, e svetà.
L scomenzèa via endò con sie doeres, sia fadies. L cognea e l era fadia.
Per tradizion se pontèa demez e se vegnia de retorn. Per tradizion se era stencé, sveté e avelii. Ma la tradizion dajea l met a duc de esser, de aer zeche, n grop, n paisc, na storia. Per tradizion se vegnia al mond coscita, lurieranc bogn, bonderes, infideiles. Ladins, coscita.
TESTO ITALIANO
I PITTORI
Partivano giovani e tornavano vecchi, stanchi affamati, un po’ vuoti. Non andavano alla guerra, andavano solo a guadagnarsi da vivere.
Erano forti e tranquilli contadini che nei mesi del riposo campestre, si recavano a piedi oltre confine, a nord, a fare i pittori-decoratori. Lasciavano nelle mani delle donne e dei vecchi di casa la famiglia, la stalla e si mettevano in cammino con l’attrezzatura in spalla, colori, pennelli, spatole, barattoli, polveri e speranza. Attraversando prima le Dolomiti, poi le Alpi, giungevano in Tirolo, Stiria, Carinzia, Baviera ed oltre, su fino in Ungheria e Austria del nord. Girovagando di casa in casa, chiedevano lavoro e spesso lo ottenevano. Come pitores erano in grado di ripulire le pareti domestiche, rifarle o sistemarle e quindi dipingerle, o meglio, colorarle con tinte di origine vegetale e naturale. Alcuni di loro poi, si specializzavano nelle decorazioni, sapevano impreziosire con rose, fiori, animali variopinti pareti e mobili, oggetti da lavoro, cassettine portagioie, altari, crocifissi ed edicole votive.
Era singolare la figura del pittore fassano che, lasciando i lavori stagionali dei boschi e dei prati, si improvvisava artista povero, fantasioso mescitore di colore, simpatica canaglia con il cappello esageratamente grande, le mani semplicemente grandi. Quasi sempre, quella era l’unica possibilità che permetteva alla famiglia di vedere qualche fiorino, di poter contare su un soldo sicuro, utile, indispensabile. Non era tradizione, era semplicemente necessità, bisogno, fame. Quando tornava, per la fienagione, il pittore era stanco, affamato, vuoto.
Riprendeva gli impegni precisi, le fatiche tradizionali, i lavori pesanti, lunghi e pericolosi.
La tradizione, allora, richiedeva fatica. Era obbligatoria ed era fatica.
Per tradizione si partiva e si tornava. Per tradizione si era stanchi, spenti, sconsolati.
Ma la tradizione permetteva anche a tutti di esserci, di avere un qualcosa alle spalle, un gruppo, un paese, una storia. Per tradizione si nasceva così, grandi lavoratori, girovaghi, infedeli. Ladini, còsì.
TESTO LADINO
L VEIE FESTIL
L veie festil l era dalbon melmetù. Ja da tropes egn en ca la jent de la picola vila ge aea domanà a l’Aministrazion de Comun de endrezèr i lurieres per l restruturèr e l fèr doventèr desche chel da dant. Ma nia se aea moet. A la emprometudes di aministradores da dant se jontèa ite la emprometudes de chi de ades, a la domanes de didament vegnia responet che ge volea respetèr i oblighes che l era jà stat tout su, dut vegnia dant e dut aea più prescia, endèna l festil jia en toc, mingol a l’outa e dì per dì. L era da se tegnir de mèl veder chel festil che perdea èga e toc de pera da duc i versc. La femenes no les aea più gust de jir alò a lavèr fora la massaries ajache passèa fora l’èga da duta la sfesses, i bec no jia più a fèr damat ajache l era doventà pericolous e nia sorì, no se fermèa più nesciugn ajache duc aea tema de se bagnèr. Nience i cians ge jia più apede a chel tamoscé pien de èga da color del muschie e da giara, piutost i jia vèlch meter più en ju olache l’èga fajea n picol egacel. La jent se lamentèa, ma zenza nesciuna fazion, no se podea e no se volea fèr nia. Te duta chesta picola vila encomai l era restà l recort de chi egn, canche aló stajea jent e l era vita. Zacan te chela vila stajea beleche cent jent, ades no più che diesc. Purampò l era degnità tel domanèr e degnità te la dezijion de restèr a viver te chela vila, loghèda tant en aut, ju per na costa erta e a soladif. E endèna che i spetèa la dezijions che nesciugn volea tor, ju te paisc, vegnia fat su festii fausc che no servia, vegnia metù ju fons sun strèdes olache l era jà, vegnia fornì su ogne piz e cianton.
Per rejons de turism, bensegur, per rejons de parbuda. Vegnia projetà piac per i auti neves, fabricac neves, autra seconda cèses, porotes per jir coi schi, fosc ence n ciamp per jièr a golf e auter. Dut più de valuta, i dijea, servijes che no pel mencèr, strutures che se no les fossa states duta l’economia dal post aessa podù jir do brea ju, se desfantèr per semper. E coscita l é vegnù adalerch la storia del ors, che l é ruà de net e l se à menàdemez la feides envelenèdes, che do l se à magnà e l é mort.
Te paisc, da vejin ai festii neves passèa i turisć. L’èga vegnia ju, ma nesciugn ge abadèa. I cians no i podea apede per beiver, i bec no i podea apede per fèr da mat, a la femenes no ge vegnia nience tel cef de jir te piaz a se lavèr fora la massaries, les lo fajea da sera, tel scur, co la machina da lavèr. L era desche se chi festii fausc no i fosse, ma la cauja no i era ic. Dut era e l é restà coscita, normal, te chela vila olache la magia la é stata copèda ju da la gaitijia, dal dejenteres e dal pech anteveder del om. Zacan chela vila a foja de steila, la vegnia lodèda, adorèda e mirèda. Do la é stata tradida, perduda al jech di dadoi e venta per cater scioldi. Anchecondì la é aló. Con sie festii fausc. Con dut. E con nia.
TESTO ITALIANO
LA VECCHIA FONTANA
La vecchia fontana era proprio messa male. Da anni gli abitanti del piccolo borgo avevano chiesto all’amministrazione comunale un intervento per restaurarla e riportarla alla tradizionale funzione. Ma non c’era stato nulla da fare. Alle promesse degli amministratori di prima si erano aggiunte le promesse di quelli attuali, alle richieste d’aiuto si rispondeva con altri impegni assunti, tutti prioritari e più urgenti, intanto la struttura andava a pezzi, lentamente ed inesorabilmente. Era una vergogna vedere quel manufatto perdere acqua e pezzi di pietra tutt’attorno. Le donne non vi si recavano più volentieri a lavare i panni poiché l’acqua traboccava da ogni fessura, i bambini non ci passavano più le ore a giocare poiché era pericoloso e scomodo, i passanti non si accostavano più temendo di bagnarsi completamente. Anche i cani non si avvicinavano volentieri a quel rudere traboccante un liquido color muschio e ghiaia, preferivano bere qualche metro più a valle dove l’acqua formava un piccolo ruscello. Inutilmente la gente protestava, non si poteva e non si voleva fare niente. L’intera frazioncina viveva ormai sulle fondamenta di un passato ricco di presenze e di avventure. Un tempo quasi cento persone abitavano il villaggio, ora poco più di dieci. Eppure, c’era della dignità nelle loro richieste e dignità nella loro scelta di rimanere a vivere in quel paese posto in alto, su un pendio ripido e soleggiato.
E mentre loro aspettavano una volontà che nessuno voleva esprimere, in paese, nel cuore del comune cui la frazione apparteneva, si costruivano fontane inutili e finte, si pavimentavano strade già pavimentate, si abbelliva ogni angolo e ogni piazza. Per motivi turistici, naturalmente, per motivi di immagine, di facciata. E si progettavano nuovi parcheggi, nuove enormi strutture, altre seconde case, piste da sci, forse un campo per il golf e altro.
Cose “prioritarie” dicevano, bisogni irreversibili, strutture senza le quali l’intera economia locale rischiava di precipitare, di sparire, per sempre.
E allora si raccontava la storia dell’orso, che arrivò una notte e si prese le pecore avvelenate che mangiò e lo fecero morire.
Nel paese, accanto alle nuove fontane sfilavano i turisti. L’acqua scorreva ma nessuno ci badava. I cani non potevano bere, i bambini non ci potevano giocare, le donne non ci pensavano nemmeno a lavare i panni in piazza, preferivano farlo di sera, al buio, con la lavatrice. Era come se non ci fossero quelle false fontane, ma non era colpa loro.
Il tutto era e resta così, normale, in quel paese dove la fata fu uccisa dall’ingordigia, dall’indifferenza e dalla vista corta dell’uomo. Un tempo era cantato, adorato e ammirato quel paese a forma di stella. Poi fu tradito, perso ai dadi e quattro denari vinsero la sfida. Oggi è lì. Con le fontane finte. Con molto. E con poco.
TESTO LADINO
LA BRAES DE FUSTAGN
La braes de fustagn l era i jeans de anchecondì. D’aisciuda, les ruèa più o manco aló dal jeneie e duc i se les tirèa ite, la guofes les era pienes e reses de figurines e de siessenes. De chel’età se scomenzèa a tratèr su la cosses, se comprèa e se venea, se baratèa per valutèr vadagnes e tornacont. Ma se fajea ence damat, trop, te strèda, te piaz, olache vegnia vent e perdù. L jech l era/doventèa n ejempie de vita olache la creatività e la fantasia se destachèa dai schemes de la familia, de la scola, de la religion e sorafora la sieves, sui èlbres chiò e ló, enlongia i ruves, ti bosć e ti pre se slarièa fora na ledeza petrignousa. Se fajea damat da soi o en compagnia, a gropes de bricons feruscoi e da ac, vèlch outa violenc, de zenza demò bricons.
D’aisciuda, enlongia la strèdes e ti spiac de tera schicèda se se binèa de tropes a jièr co la siessenes.
Te cèsa, anter i recorc del mond del père, vegnia fora per cajo cheles de creida, peres, che no les era nience deldut torones, depentes a man, con chel che l era, sot la lum de na ciandeila. Te la boteighes, enveze, se podea comprèr chela beles, de vierech, colorèdes, granes, picoles e mesènes.
Do se se scontrèa olache l teren l era bel fis, se sciavèa na buja, che doventèa la basa de ogne partida e se scomenzèa. L jech l vegnia ca da la tradizion, i veies vardèa, i dijea coche se podea e coche no se podea fèr, i despieghèa la regoles. I bec che se binèa i fajea damat en lonch col engaissèr l jech con dic spezièi: ramusc a busc! ramusc a busc! ramusc col ghinc en su! L era paroles zenza nesciugn segnificat, durèdes demò te chela ocajion, dic, regoles prezises, pefie, beleche ordegn. L era n jech demò per ic.
A chesta vida se emparèa a scombater per defener na pèrt, ence picola, de chel che l era sie, a se confrontèr da galatomegn, e a saer perder. I joegn omegn i cognea emparèr a se comportèr coche carenea e a fèr bogn mestiers, a comanèr e a se fèr respetèr.
Endèna che i bec fajea damat co la siessenes, la bezes les jièa a la crousc, les dessegnea jabas na crousc o n cadrat che les spartia te cadrac o trinangoi. Do les sutèa su na giama soula e les parèa con n pe na pera de ruf te duc i spartimenc. L era n jech de braura atletica, grazia e lezitenza. La femena cognea se usèr a chest. Al orden. A la fadia. A la crousc. Zenza nesciua recognoscenza.
E endèna che i bec cigan e trefan i ruèa a cèsa con sacotanta siessenes che i aea vent, la bezes non les venjea nia. Les se tirèa su i scufons fin al jeneie e con sia pera da ruf les se n jia de retorn a cèsa, stencèdes, aboncont contentes.
L era na siessena più grana de la autres che aea inom mondo o bòrlo. La era de utol per fèr gregn mistieres e tropes i la durèa, tel besegn. L era na scurtarela, la tera che smachèa te la luna. N met per ruèr dant e dant di etres. Durèr l bòrlo l era pervedù te la regoles e da coche l vegnia durà se podea entener l esser del bez.
Tel jech de la cugoles de vierech vegnia segnà i confins e respetà regoles, se tolea consaputa di poderes, se i entenea, se si jièa.
Zachei l à amò mingol de chel polver de or te guofa, ogne tant l ge vèrda grignolan, l lo defen. Etres, chi che doura a na vida falèda l mondo/l bòrlo, i lo à desementià, destrabonì enlongia strèda. I va inant col fèr de n peron che rodola e no i ge peissa più.
TESTO ITALIANO
I PANTALONI DI FUSTAGNO
I pantaloni di fustagno erano i jeans di allora. Li portavano tutti, più o meno al ginocchio, a primavera con le tasche rigonfie di figurine e biglie. A quell’età, si incominciava a trattare sulle cose. Si comperava e si vendeva, si barattava valutando ricavi e convenienza. Ma si giocava anche, molto, per strada, in piazza, dove si vinceva e si perdeva. Il gioco era una forma di vita dove la creatività e la fantasia uscivano dagli schemi familiari, scolastici, religiosi e la libertà poteva spaziare gioconda, oltre le siepi, sugli alberi randagi, lungo i greti dei torrenti, nei boschi e nei prati.
Si giocava da soli o in compagnia, a bande di monelli vivaci e chiassosi, un po’ violenti a volte, solitamente solo monelli.
A primavera, lungo le strade e le piazzette in terra battuta, ci si ritrovava numerosi a giocare con le biglie. In casa, ricordi del mondo di papà, si scovavano per caso quelle in creta, povere, di forma vagamente ovale, dipinte a mano, con poco, al lume di candela. Nei negozi, invece, si potevano acquistare quelle belle, in vetro, colorate, grandi, piccole e medie. Poi, ci si trovava dove il terreno era fine e compatto, si scavava una buca, piccola base di ogni giocata e si incominciava. Il gioco era tramandato dalla tradizione, i vecchi guardavano, insegnavano come fare e non fare, spiegavano le regole. I bambini concentrati giocavano a lungo accompagnando con frequenti formule speciali quel gioco particolare: ràmusc a busc! ràmusc a busc e ràmusc! ràmusc col ghinc en su!”. Erano parole senza alcun significato, usate solamente in quell’occasione, formule e regole precise, comandi, quasi ordini. Era un gioco riservato ai soli maschi.
Così si imparava a lottare per difendere una piccola, minima proprietà, a confrontarsi onestamente, a saper perdere. I giovani uomini dovevano imparare la disciplina e il senso per gli affari, a comandare, farsi rispettare.
Mentre i bambini giocavano a le siessene, le bambine giocavano a la crousc, disegnando per terra una croce o un quadrato suddivisi a scomparti quadrati e triangolari. Poi, saltellando su una gamba, spingevano con il piede una piastra di fiume in tutti gli scomparti. Era un gioco di abilità atletica, grazia e perseveranza. La donna doveva abituarsi così. All’ordine. Alla fatica. Alla croce. Senza alcuna ricompensa.
E mentre i bambini, urlando e prendendo la mira si portavano a casa pugni di biglie vinte, le bambine non vincevano niente. Si sistemavano i calzettoni fino al ginocchio e con la loro pietra di fiume tornavano a casa, stanche, comunque contente.
C’era una biglia più grande delle altre chiamata mondo o bòrlo. Permetteva grandi affari e in molti la usavano, all’occorrenza. Era una scorciatoia, la terra che colpiva la luna. Un modo per arrivare prima e primi. Ricorrere al bòrlo era permesso dalle regole ed il suo uso faceva intravedere il carattere del bambino.
Nel gioco delle perle di vetro si tracciavano confini e regole, si conosceva da vicino la terra, la si incontrava, la si metteva in gioco.
Qualcuno ha ancora un po’ di quella polvere d’oro in tasca, ogni tanto la guarda sorridendo, la difende. Altri, quelli che usavano impropriamente il mondo, l’hanno dimenticata, persa per strada. Avanzano con la sensibilità del macigno che rotola e non ci pensano più.
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