Fu circa l'anno 930, dunque mille anni fa, nè più nè meno.
In Valle Casotto, su una delle ultime propaggini del monte Mindino aspro e selvoso, sorgeva a quei tempi una grossa torre; e intorno a quella, come a chiederle protezione, si stringevano molte umili case di contadini, chiuse tutte insieme da una cerchia di mura rozze e massiccie. Se quel villaggio avesse già un nome, non so: certo non aveva ancora quello derivatogli dal fatto che ora racconterò.
Da parecchi anni erano apparsi sulle Alpi Marittime, crescendo via via di numero e dilagando per valli a spargervi desolazione e terrore, i nemici più accaniti di Cristo e dei suoi seguaci, i Saraceni. Venivano dalle loro terre lontane, scatenati da Maometto a far guerra e rapina. Brutti e neri come demoni, sì che al solo apparire facevan gelare il sangue nelle vene, ti venivano addosso con la rapidità del fulmine; sbucavan dalle selve come lupi, s'arrampicavano per i muri come gatti, entravan nelle case sparse per le campagne portando via tutto, bestiame, carri, masserizie. E facevan di peggio: afferravan le donne e i bambini pei capelli, e, punto impietositi dalle loro grida, li trascinavan seco in alta montagna dove bivaccavan tra le roccie e nelle caverne, o li spedivano al mare per farli trasportare come schiavi ai mercati di Tunisi e di Algeri. E guai a chi tentava la minima resistenza! Portavan certe sciabole enormi a forma di mezzaluna con le quali tiravan giù botte da orbi; con un sol colpo ti tagliavan netto un braccio, o ti staccavan la testa, o ti dividevano in due. Un'ira di Dio come quella non s'era mai avuta. Satana trionfava.
Ma coloro che abitavano nella gran torre e nel villaggio or ora accennati, ben sapendo che con quegli anticristi ogni via d'accordo era impossibile, e vana ogni speranza di remissione, quando li videro comparire, abbandonati i campi e i pascoli, corsero tutti dentro la cerchia delle loro mura, vi raccolsero ogni mezzo possibile di difesa, e s'apprestarono a resistere fino all'estremo. Ed ecco giungere tosto attorno al villaggio le feroci orde dei Mori. Erano tanti che parevano un formicaio. Come le onde si gettano contro gli scogli, essi corsero alle mura decisi a superarle; gridando come ossessi appoggiarono delle lunghe scale, e tentarono di salirvi su. Ma alla loro volta i terrazzani, fatti eroi dalla disperazione, si diedero a scagliare su quei maledetti freccie e pietre e olio bollente in tal quantità da farli precipitare a mucchi nei fossati, o colpiti a morte, o schiacciati, o fritti addirittura.
Allora i Saraceni, rinunciando al proposito di prendere il villaggio d'assalto, risolvettero di porvi regolare assedio, così strettamente da non lasciarvi più entrare nè una goccia d'acqua nè un pugno di grano. Ah, per Allah e pel suo Profeta, sarebbe pur venuto il giorno in cui i testardi montanari, ridotti agli estremi dalla fame e dalla sete, si sarebbero arresi a discrezione! E allora l'avrebbero pagata ben cara la loro testardaggine! Le donne e i fanciulli, tutti schiavi; agli altri un gran bel colpo di scimitarra sul collo e di tutte le loro teste un mucchio alto come la loro torre. Per gli occhi neri, delle dolci "urì", che deliziosa orgia di sangue avrebbero fornito i "giaurri" sozzi e fetenti!
Passarono giorni, settimane e mesi.
Consumando con grande parsimonia i viveri che avevano accumulato all'arrivo degli invasori, i bravi terrazzani, sempre vigili e decisi, reggevano alla durissima prova. Ma invano essi speravano che i Saraceni perdessero la calma e s'allontanassero. Quelli erano sempre là d'attorno, con i loro vestiti multicolori, i loro grossi anelli alle orecchie e le loro lunghissime pipe, in pazientissima attesa che il frutto maturo cadesse nelle loro mani.
E non s'apponevano male, quelle canaglie! Venne, pur troppo, il tristissimo giorno in cui le risorse degli assediati si trovarono esaurite. Fra tutti quanti non restavano più da consumare che... un pane ed una bottiglia di vino. Poi tutto sarebbe finito!
Che momento terribile per quei disgraziati! A qual partito avrebbero dovuto ora appigliarsi? - Tentare ancora una sortita in massa e la fuga? - Impossibile.
Tutto il paese all'intorno era in dominio dei Mori; ed erano tanti, quei ribaldi! - Arrendersi? - Ma si sapeva troppo bene qual fine atroce li attendeva! - Uccidersi tutti fra loro per non cadere vivi nelle mani dei nemici? - Era un rimedio punto gradevole, una soluzione troppo energica e parecchio fastidiosa!
Fra questi diversi partiti, uno peggiore dell'altro, quei valorosi, che erano anche astuti, ebbero un lampo di genialità. Presero quell'unico pane che loro rimaneva, lo intinsero per metà nel poco vino che era l'altra loro risorsa estrema, e poi con una fionda gli fecero disegnare una bella traiettoria per l'aria, si che cadesse nel mezzo del campo nemico. E, ciò fatto, stettero ad aspettare.
Lo credereste? Poche ore dopo si videro i Saraceni, che intorno a quella terra parevano aver messo le radici, disfare le tende e le baracche, caricare ogni cosa sui carri, e andarsene mogi mogi come cani bastonati... Cos'era avvenuto? Presto spiegato. Quel pane inaffiato di vino aveva fatto il miracolo. Al vederlo piover tra loro come se i terrazzani ne avessero da buttar via, gli assedianti s'erano tutti convinti che certo qualche magico potere riforniva i loro nemici di continuo, e li avrebbe riforniti in eterno.
Ciò stando, a che pro avrebbero dovuto continuare un assedio destinato inesorabilmente a fallire?
In quei tempi - badate bene - si parlava ancora latino; e i Saraceni, che eran tra noi da un pezzo, lo avevano imparato anche loro. Fu dunque in latino che questi espressero la loro impressione per quel pane caduto nel campo.
Dissero: «Habent panem paratum!» che era anche - osservate come l'avevano imparato bene! - un latino corretto, quasi quanto quello di Virgilio o di Orazio o di Tito Livio. « Habent panem paratum! »
«E se hanno la loro provvista di pane, e per giunta lo inaffiano con del buon vino, tanto vale che noi ce ne andiamo!» Così partirono come i pifferi di montagna; e non tornarono mai più.
D'allora in poi quel villaggio, per il suo "panem paratum" che era invece una pagnotta sola, si chiamò Pamparato; e a ricordo del fatto fu inserita nel suo stemma la pagnotta miracolosa.

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