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"Conte" - Racconti Frp

"Conte" - Racconti Frp

Il pan preparato

Lo "pan preparato"

Traduzione e audiolettura in francoprovenzale a cura di Matteo Ghiotto

Il pan preparato
italiano

Fu circa l'anno 930, dunque mille anni fa, nè più nè meno.

In Valle Casotto, su una delle ultime propaggini del monte Mindino aspro e selvoso, sorgeva a quei tempi una grossa torre; e intorno a quella, come a chiederle protezione, si stringevano molte umili case di contadini, chiuse tutte insieme da una cerchia di mura rozze e massiccie. Se quel villaggio avesse già un nome, non so: certo non aveva ancora quello derivatogli dal fatto che ora racconterò.

Da parecchi anni erano apparsi sulle Alpi Marittime, crescendo via via di numero e dilagando per valli a spargervi desolazione e terrore, i nemici più accaniti di Cristo e dei suoi seguaci, i Saraceni. Venivano dalle loro terre lontane, scatenati da Maometto a far guerra e rapina. Brutti e neri come demoni, sì che al solo apparire facevan gelare il sangue nelle vene, ti venivano addosso con la rapidità del fulmine; sbucavan dalle selve come lupi, s'arrampicavano per i muri come gatti, entravan nelle case sparse per le campagne portando via tutto, bestiame, carri, masserizie. E facevan di peggio: afferravan le donne e i bambini pei capelli, e, punto impietositi dalle loro grida, li trascinavan seco in alta montagna dove bivaccavan tra le roccie e nelle caverne, o li spedivano al mare per farli trasportare come schiavi ai mercati di Tunisi e di Algeri. E guai a chi tentava la minima resistenza! Portavan certe sciabole enormi a forma di mezzaluna con le quali tiravan giù botte da orbi; con un sol colpo ti tagliavan netto un braccio, o ti staccavan la testa, o ti dividevano in due. Un'ira di Dio come quella non s'era mai avuta. Satana trionfava.

Ma coloro che abitavano nella gran torre e nel villaggio or ora accennati, ben sapendo che con quegli anticristi ogni via d'accordo era impossibile, e vana ogni speranza di remissione, quando li videro comparire, abbandonati i campi e i pascoli, corsero tutti dentro la cerchia delle loro mura, vi raccolsero ogni mezzo possibile di difesa, e s'apprestarono a resistere fino all'estremo. Ed ecco giungere tosto attorno al villaggio le feroci orde dei Mori. Erano tanti che parevano un formicaio. Come le onde si gettano contro gli scogli, essi corsero alle mura decisi a superarle; gridando come ossessi appoggiarono delle lunghe scale, e tentarono di salirvi su. Ma alla loro volta i terrazzani, fatti eroi dalla disperazione, si diedero a scagliare su quei maledetti freccie e pietre e olio bollente in tal quantità da farli precipitare a mucchi nei fossati, o colpiti a morte, o schiacciati, o fritti addirittura.

Allora i Saraceni, rinunciando al proposito di prendere il villaggio d'assalto, risolvettero di porvi regolare assedio, così strettamente da non lasciarvi più entrare nè una goccia d'acqua nè un pugno di grano. Ah, per Allah e pel suo Profeta, sarebbe pur venuto il giorno in cui i testardi montanari, ridotti agli estremi dalla fame e dalla sete, si sarebbero arresi a discrezione! E allora l'avrebbero pagata ben cara la loro testardaggine! Le donne e i fanciulli, tutti schiavi; agli altri un gran bel colpo di scimitarra sul collo e di tutte le loro teste un mucchio alto come la loro torre. Per gli occhi neri, delle dolci "urì", che deliziosa orgia di sangue avrebbero fornito i "giaurri" sozzi e fetenti!

Passarono giorni, settimane e mesi.

Consumando con grande parsimonia i viveri che avevano accumulato all'arrivo degli invasori, i bravi terrazzani, sempre vigili e decisi, reggevano alla durissima prova. Ma invano essi speravano che i Saraceni perdessero la calma e s'allontanassero. Quelli erano sempre là d'attorno, con i loro vestiti multicolori, i loro grossi anelli alle orecchie e le loro lunghissime pipe, in pazientissima attesa che il frutto maturo cadesse nelle loro mani.

E non s'apponevano male, quelle canaglie! Venne, pur troppo, il tristissimo giorno in cui le risorse degli assediati si trovarono esaurite. Fra tutti quanti non restavano più da consumare che... un pane ed una bottiglia di vino. Poi tutto sarebbe finito!

Che momento terribile per quei disgraziati! A qual partito avrebbero dovuto ora appigliarsi? - Tentare ancora una sortita in massa e la fuga? - Impossibile.

Tutto il paese all'intorno era in dominio dei Mori; ed erano tanti, quei ribaldi! - Arrendersi? - Ma si sapeva troppo bene qual fine atroce li attendeva! - Uccidersi tutti fra loro per non cadere vivi nelle mani dei nemici? - Era un rimedio punto gradevole, una soluzione troppo energica e parecchio fastidiosa!

Fra questi diversi partiti, uno peggiore dell'altro, quei valorosi, che erano anche astuti, ebbero un lampo di genialità. Presero quell'unico pane che loro rimaneva, lo intinsero per metà nel poco vino che era l'altra loro risorsa estrema, e poi con una fionda gli fecero disegnare una bella traiettoria per l'aria, si che cadesse nel mezzo del campo nemico. E, ciò fatto, stettero ad aspettare.

Lo credereste? Poche ore dopo si videro i Saraceni, che intorno a quella terra parevano aver messo le radici, disfare le tende e le baracche, caricare ogni cosa sui carri, e andarsene mogi mogi come cani bastonati... Cos'era avvenuto? Presto spiegato. Quel pane inaffiato di vino aveva fatto il miracolo. Al vederlo piover tra loro come se i terrazzani ne avessero da buttar via, gli assedianti s'erano tutti convinti che certo qualche magico potere riforniva i loro nemici di continuo, e li avrebbe riforniti in eterno.

Ciò stando, a che pro avrebbero dovuto continuare un assedio destinato inesorabilmente a fallire?

In quei tempi - badate bene - si parlava ancora latino; e i Saraceni, che eran tra noi da un pezzo, lo avevano imparato anche loro. Fu dunque in latino che questi espressero la loro impressione per quel pane caduto nel campo.

Dissero: «Habent panem paratum!» che era anche - osservate come l'avevano imparato bene! - un latino corretto, quasi quanto quello di Virgilio o di Orazio o di Tito Livio. « Habent panem paratum! »

«E se hanno la loro provvista di pane, e per giunta lo inaffiano con del buon vino, tanto vale che noi ce ne andiamo!» Così partirono come i pifferi di montagna; e non tornarono mai più.

D'allora in poi quel villaggio, per il suo "panem paratum" che era invece una pagnotta sola, si chiamò Pamparato; e a ricordo del fatto fu inserita nel suo stemma la pagnotta miracolosa.

franco-provenzale

Ét ihà empopré din l’eunn 930, mile eunn fet, ni plu ni moueins.

En Val Casòt, dessù un di derér contrafòrt do mon Mindino, apro e plein de boué, i avet ina greunta tour ; e a son entòrt, case a mandar-lhe proteshon, ou s’ehrinhont ina vreiò de moueizhon umile de campanhe, clhavaie ensein d’in herclho de meralhe grossére e massife. Si he veladzo ou l’isse dzò in non, de sé pa : sur ou l’avet pa encorò hel derevà do fet qu’iheu de vouì contar-vo.

Dipé bieunn d’eunn ou l’aviont aparù dessù les Alpe Maritime, en creisseunn de neumbro e en s’ehendeunn pre le valaie pre enfantsér desolashon e pour, li desnemì plu acanì do Crist e de si dessiplo, li Sarasin. Ou veniont louein de se tère, anemià de Maomeut a fare la guèra e le feurfe. Lédo e nér comme li diablo, que rinqu’a vér-li ou fazhont dzalar lo san din les avein-ne, ou te veniont dessù avó la vitésse do foudro ; ou sortiont di boué o bié di lou, ou grapilhévo pre le meralhe comme de tset, ou l’intravo din le moueizhon enfentsìe ahai e anai pre le campanhe en porteunn tòt viò, béhe, tomberel, moblo. E ou fazhont asseu pire : ou l’atrapavo le feméle e li moueinà pre li pél, e, pa reunn sensiblo a si breló, ou li treinavo en hota montinheu enté qu’ou passavo la nouet o moueitein de le rotse e de le barme, on li levravo a la mar pre menar-li, en teunn qu’esclavo, i marceunn de Tunisi e d’Algeri. Guèra a hè qu’ou tentave la moueindra resesteinse ! Ou portavo de sabro en forma de demì-lenò avó liquin ou fotiont de creup a radze ; avó in creup soleut ou te troussavo in bré, on ou te dehacévo la téha, on ou te devediont en doueu. Ina coléra devin-na zhamé vue. Lo trionfo de Satan.

Ma hi qu’ou l’ihavo din la greunta tour e din lo veladzo, bieunn qu’ou saviont qu’avó hi antecrist dzin acòrd ou l’ére possiblo, e dzin-ne esperanse de remishon, canqu’ou li ont vu arevà, lishò en bandon li tseunn e li pahér, ou l’ont fouì din lo herclho de se meralhe, ou l’ont amassà tsaque mouieunn possiblo de defeinse, e ou se sont aprestà a resistre tein qu’a la fin. E vouiheu arevar a l’entòrt do veladzo les afrouse orde di Sarasin. Ou iéro si teunn qu’ou semblavo in fremelhér. Comme les onde ou se tapo contra le rotse, ou l’ont courù vers le meralhe pre superar-le ; ou brelavo comme de fòl, ou l’ont apoiò se lóndzes ishéle e ou l’ont serchò de montar-zi dessù. Ma a son tòrt li abiteunn do veladzo fortifeiò, rendù eroicco de la desesperashon, ou l’ont tacà a tapar dessù de héli de flétse e de labio e d’olho belheunn tal de fare-li tseihre a mohel din le douve, on touà, on enhacà, on finca frecahiò.

Aloura li Sarasin, en renonseunn pre heunn de preinde lo veladzo a l’assot, ou l’ont dessidà de betar en plahe in siédzo, si firmameunn qu’ou l’ont pa mé lishò passar ni in degòt d’éva ni ina punhò de bla. Ah, pre Allah e pre son Proféto, i sareut arevà lo dzòrt enté que li montanhin cabohon, redouì o plu ba de la fan e de la sei, ou se sariont rendù ! E aloura ou l’ariont paiò bieunn tsére sa caboherderì ! Le feméle e li moueinà, touit li esclavo ; i otri in greunn creup de sabro dessù lo còl, e de toteu se téhe in bè mohel hot comme sa tour. Pre li oueulh nér de douhe urì, quinta delehiousa debotse de san ou l’ariont fournì di giaur pouerc e fleireunn!

Ou l’ont passà dzòrt, seman-ne e mei.  

En consumeunn avó greunn menadzo la mendzér qu’ou l’aviont amohelà canqu’ou sont arevà li assiedzeunn, li abiteunn do veladzo fortifeiò, delon vedzeleunn e resolù, ou teniont dur. Totun a reunn ou l’esperavo que li Sarasin ou l’isso predù la calma e ou se sisso elouenhò. Héli ou iéro delon iquieu a l’entòrt, avó se guenilhe bariolaie, se grosse vire a les orelheu e se londze fume, din l’ateinta que la pomò moura lh’isse tset din se man.

E ou la preniont pa a mal, hi modit ! Belavan, i at venù lo mové dzòrt enté que le ressourse di assiejò ou iéro frenìe. Entre touit i avet plu qu’a mendzér ina metseu de pan e ina botilheu de vin. Apé tòt i sareut levrà !

Quin momeunn teriblo pre hi maleroù ! A qui ou l’ariont possù arò mandar in édo? – Tentar ina sortouò e la fouita ? – Empossiblo. Tòt lo paì a l’entòrt ou iére desòt lo dzou di Sarasin; e ou iéro ina vreiò, hi sarmantan! – Reindre-se? – I se savet finca tròt bieunn l’atrosse fin qu’ou l’ariont fet! – Touar-se entre lhour pre pa tseihre vi din le man do desnemì? – Ou l’éret in remédo pa teunn pleiseunn, ina solushon tròt dessisa e ina vreiò fastedzousa!

Entre hi difareunn poueunn de vue, un pire que l’otro, hi valoroù, qu’ou iéro asseu adret, ou l’ont avoù in’idéa acutta. Ou l’ont prein he pan soleut qu’i avet, ou l’ont sossà pre la moueità din he po de vin qu’ou l’ére l’otra ressoursa a desposeshon, apé avó ina flétse ou lh’ont fet fare in bè sot en aria, afin qu’ou l’isse tset din lo camp nemì. E, heunn fet, ou l’ont atendù.

Ou zo creieré ? Carque oura apré ou l’ont vu li Sarasin, qu’a l’entòrt de helò tèra ou semblavo qu’ou l’isso avoù betà le rei, deboueilar le teinde e le baraque, tsardzér tòt dessù li carton e alar-sezeunn nec nec comme de tsin bahonà…

Quei qu’i s’avet passà ? Vuto deut. Hè pan arosà de vin ou l’avet fet in meraclho. En voueieunn-lo plovre iquieu o moueitein comme si li assiejò ou n’isso avoù a tapar viò, li assiedzeunn ou l’ont sonjò que carque possér surnaturalo ou l’isse eidà si desnemì, e qu’ou lh’isse refournì pre delon.

Pre heunn, pre quinta reison ou l’ariont devù alar ineunn avó in siédzo destenà a la defèta ?

A hi tein lai – avouità bieunn – i se parlàvet encorò en latin ; e li Sarasin, qu’ou iéro iheu en tse no dipé briva, ou l’aviont amprein a son tòrt. Adonca ét ihà en latin que héti ou l’ont espressà son ehonemeunn pre he pan tset din lo camp.

Ou l’ont deut : « Habent panem paratum ! » que volet asseu dire – avouità comme qu’ou l’aviont amprein amodo ! – in latin parfet, dabòr semblablo a hè de Virgilio, Orazio on de Tito Livio. « Habent panem paratum ! ».

« E s’ou l’ont son empléta de pan, e de plu ou l’aroso avó de bon vin, mioù que de no s’en alisso ! ». Meheunn ou l’ont modà comme de pifre de montinheu ; e ou sont zhamé plu tornà.

Deiloura hè veladzo, pre son panem paratum qu’ou l’ére rinque ina metseu soletò, ou s’at mandà Pamparato ; e din l’ensevenianse de he fet, ina metseu meraclhousa lh’eut ihaia plahiò