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"Conte" - Racconti Frp

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La messa dei morti

La messò di mòrt

Traduzione e audiolettura in francoprovenzale a cura di Matteo Ghiotto

La messa dei morti
italiano

Sulla fine d'un ottobre già freddo e brumoso, in una notte senza luna e senza stelle, un montanaro di Casteldelfino, di nome Luca, camminava lentamente verso il suo paese da una capanna sperduta sul monte ove era stato a vegliare un amico infermo. Quel poveretto, solo al mondo, aveva trovato in lui e in pochi altri coetanei chi l'assisteva nella sventura; e Luca, essendo stato rilevato da uno di quegli altri, tornava dunque, ora, a casa sua.

L'oscurità era tanto fitta che quasi non discerneva la strada; per fortuna egli la conosceva cose bene che avrebbe potuto percorre ad occhi chiusi.L'aria era umida e quasi diaccia; la nebbia faceva strillare i rami degli alberi e delle siepi. Tutto era silenzio; non udiva che il fragore del Varaita, sordo e roco; e Luca, avvolto nei suo pesante tabarro, andava innanzi un po' insonnolito, gravato il corpo dalla stanchezza e la mente da tristi pensieri.

Ad un tratto parvegli che la campanella dell'umile chiesa campestre della Torretta, davanti alla quale avrebbe dovuto passare tra breve, desse alcuni rintocchi lenti e gravi. Ma nel cuor della notte era ciò possibile? Ristette un momento: non sentì più nulla. Rise allora di sè stesso, che aveva creduto suon di campana chissà quale notturno rumore; e si rimise in cammino. Ma qualche leggero fruscio che poco dopo gli parve d'avvertire a sè accanto, come se alcuno lo sfiorasse passando, lo fece un'altra volta trasalire.

- Che cosa m'accade, insomma, stanotte? - chiese a sè stesso - Sono forse impazzito? - E rimase col cuore turbato, lontano però le mille miglia dal prevedere la grande sorpresa che l'aspettava.

Giunto infatti davanti alla cappella della Torretta, vide che due fasci di luce uscivan direttamente dalle finestruole aprentisi ai lati della porta, e tagliavan l'aria perdendosi contro gli alberi della strada. Ma chi, ma chi poteva essere là dentro a quell'ora? Luca non aveva mai sentito dire che in quella rustica chiesa si celebrassero delle cerimonie notturne; nè, d'altra parte, eccettuata la notte di Natale, aveva mai conosciuto altra funzione religiosa che avesse luogo oltre l' Ave Maria della sera. Come mai, invece, la chiesetta che aveva dinanzi era tutta illuminata? S'avvicinò ad una di quelle finestre, e scrutò l'interno: parvegli pieno di gente.

Ancora non s'era riavuto dallo stupore per l'insolito straordinario evento quando la porta si spalancò, e sulla soglia apparve un prete con i paramenti sacerdotali. Era alto e magro; aveva un viso smunto e pallido, con gli occhi cavi e la bocca slabbrata.

- Brav'uomo, - disse quegli a Luca con un filo di voce priva di modulazioni, - sapete voi servire la messa?

- Sì - rispose l'interrogato, che infatti da ragazzo, andando in parrocchia, aveva imparato a compiere quel ministero.

- E allora volete farmi questo servizio? Vi procurerete una grande benemerenza per l'anima vostra.

- Volentieri - balbettò il buon Luca, il quale d'altronde non sapeva nemmeno che cosa dicesse, tanto era sopraffatto dalla meraviglia. Il prete si volse allora l'altare, ed egli lo seguì; s'inginocchiò accanto a lui, e la messa ebbe principio.

Ma dopo il primo dialogo fra il sacerdote e il suo ministro, quando quello fu salito alla sacra mensa tra le candele accese e crepitanti, e Luca, meno occupato nel suo ufficio, potè volgere lo sguardo all' intorno e osservare coloro che assistevano alla messa, provò tale impressione che sentì un gelo corrergli per l'ossa e mancargli il respiro. Non persone vive erano quelle, ma anime di morti! Esse avevano ancora l'apparenza corporea, ma quanto diversa dalla realtà! Erano ombre vane, simili a quelle che noi vediamo di noi stessi attraverso il vetro, o in acque chiare e tranquille; serbavano in parte i lineamenti del corpo in cui eran vissute, e persino le vesti antiche; ma nelle vuote occhiaie, nelle mascelle stecchite, nelle bocche prive del fior del sorriso, nella pelle disseccata e nelle mani scarne e ossute, apparivan più scheletri che persone.

E chi erano? Luca lo comprese facilmente quando s'accorse che la maggior parte eran pastori, alcuno dei quali riuscì a riconoscere: c'erano pure dei contrabbandieri, delle guardie di finanza, dei turisti scalatori di rocce; e non mancavano neppure le donne e le giovinette. C'era persino un pastorello sui dodici anni con la fronte spaccata. Chi erano dunque? Erano i morti rimasti sull'Alpi più eccelse e scoscese, i morti senza sepoltura, caduti per disgrazia o per altrui violenza nel fondo degli abissi e ricordati dalle croci tendenti le braccia sull'orlo degli scoscendimenti che erano stati la loro tomba, lassù dove la bufera o la valanga o la lotta atroce li aveva fatti precipitare. Dio misericordioso aveva perdonato ai loro peccati in considerazione della loro tragica fine così repentina; ma non avendo avuto sepoltura in luogo benedetto, e dovendo pur espiare le loro colpe, essi eran venuti, e venivano forse anche altre volte, a quella messa fatta apposta per loro, celebrata da uno di loro. I rintocchi che Luca aveva creduto di sentire erano stati veramente battuti alla campana della chiesetta per chiamare i dispersi: e questi in un baleno erano accorsi da ogni parte alla pietosa celebrazione.

Il nostro uomo si strinse più fortemente nel suo mantello e concentrò lo sguardo nel sacerdote, evitando di guardare in giro. Ma perché la sua sorpresa s'accrescesse ancora, ecco una di quelle anime battere i denti e avviare la recitazione del Santo Rosario... Le altre rispondevano in coro con un mormorio cupo che aveva una tristezza infinita; parevano voci arcane, non prossime, ma lontane lontane, voci veramente d'oltretomba, simili ad echi di campane portati dal vento tra la bufera. Quando poi la messa giunse al momento più solenne dell' elevazione, la preghiera fu interrotta; e nel silenzio profondo, mentre tutti quei devoti s'inchinavano e battevansi il petto ritmicamente, parve al buon Luca d'udire uno scricchiolio macabro d'ossa dinoccolate... Dovette allora raccogliere tutte le poche forze che gli rimanevano per non cadere a terra privo di sensi.

Il sacro rito finalmente giunse al suo termine. Il sacerdote si rivolse agli astanti, recitò l'« Ite missa est », e impartì la santa benedizione. Poi scese dall'altare, e all'unico essere vivente che vi aveva assistito disse con accento cortese: - Grazie, buon uomo. Potete andare. Dio vi terrà conto della vostra prestazione.

Luca non se lo fece dire due volte; salutò con un inchino e s'incamminò verso la porta tra le due file di scheletri vestiti, che lo guardavano intensamente. Aveva però le gambe così raggranchite e legate dall'emozione che dovette strascicarsi a gran fatica per giungere fin sulla soglia. Nè ancora aveva fatto un passo più oltre per mettersi a sedere sul rustico sedile di pietra ch'era sotto il piccolo atrio, quando senti un breve confuso tramestio, seguito da un gran colpo. La porta era stata violentemente richiusa. Guardò allora per le finestre: le candele già erano spente, la oscurità era tornata fitta e profonda. I morti, i poveri morti venuti ad assistere alla Santa Messa nell'umida mattinata mentre i vivi ancora giacevano quasi tutti nel sonno, avevan già fatto sollecito ritorno alle loro tristi dimore nel fondo dei burroni, negli anfratti delle rocce più impervie, sui gelidi ghiacciai, tra le fosche selve o macchie sospese sugli abissi, dove le loro ossa avrebbero continuato a biancheggiare, polverizzandosi via via, nell'attesa del dì del Giudizio, che ridarà loro e forma e vita.

franco-provenzale

Dessù la fin d’in otobro dzò fret e sombro, en ina nouet seinsa lunò e seinsa ehéle, in montanhin de Tsaheldelfin, a non Leuc, ou marcéve touplan vers son veladzo d’ina grandze deferdouò dessù la montinheu enté qu’ou l’éret alà vér in cambrada malado. Hè povro, soleut o mondo, ou l’avet trovà en loueu e en po d’otri de son adzo, hi qu’ou lo cudiont din li tsagrin; e Leuc, dipé qu’ou l’éret ihà remplahiò de un de héti, ou rintrave, adonca, en tse loueu.

Lo hur ou l’ére si fehì que dabòr ou deharnet pa lo tsemin; pre boneur ou zo cunusset si bieunn qu’ou l’areut possù fare-zo a oueulh sarà. L’aria lh’éret umida e case dzalaia; lo gévro ou faset dehilhér le brantse de le plante e di boueishon. Tòt iére meut; i se sentet rinque lo vacarmo do Varaita, sòrt e ròi; e Leuc, empatolhò din son peseunn pastran, ou l’alàvet ineunn en semelheunn, lo còrs tracahiò de la lassour e la téha di mové sondzo.  

Tòt en in còl i seimble que la petiota clhotse de l’eglhise umila de la Touretò, deveunn laquinta ou l’areut devù passar d’iquieu po, lhe donisse de bòt leunn e ba. Ma, o cor de la nouet, i polet passar-se? Ou s’at plantà in petiòt tein: ou l’at pa mé sentù reunn. Pre heunn ou l’at resù de loueu mémo, qu’ou l’avet creiù in son de clhotse qui set quin otro son de la nouet; e ou l’at reprein son tsemin. Totun carque otro seneveut lendzér que po apré ou l’at creiù seintre protso de loueu, tal que carcun ou l’isse tochò en passeunn, ou l’at fet in otro iadzo ardzopar.

Mondio, quei qu’i me passe héta nouet? - ou s’at mandà tòt da soleut. - Enféra de véno fòl? - E ou l’eut ihà avó lo cor atroblà, ina vreiò louein totun de prevér la surpreisa qu’ou l’areut atendù. 

Arevà de fet deveunn la tsapéla de la Touretò, ou l’at vu que doueu rei de clher ou sortiont dret di fenehròt i caro de la porta, e ou talhévo l’aria en se predeunn contra le plante do tsemin. Ma qui polet iéhre iquieu dedin a hel’oura? Leuc ou l’avet zhamé sentù dire que din hel’eglhise de campanhe ou l’isso fet de messeu nouitseinte; ni, d’otro caro, viò la messò de Tsaleinde, ou l’avet zhamé cunussù d’otri ufiho qu’ou sisso ihà deut apré les Eimarì do véfro. Prequei, o contréro, l’eglhisetò qu’ou l’avet en fahe lh’ére tòt alenaia? Ou s’at aprochò a unò de heleu fenéhre, e ou l’at avouità dedin: i paret plein de mondo. 

Artset qu’ou s’avet pa encorò reprein, a cosa do drolo e strordenéro eveunn, canque la porta lhe s’at embarnà, dessù lo pa i at arevà in préhre avó le parameinte pre la messò. Ou l’ére greunn e mégro; ou l’avet in vesadzo blan e blavo, avó li oueulh engavà e la goula seinsa lavre. 

Bon omó, - ou l’at deut a Leuc avó in fil de voues plat, - ou sé vò servir la messò?

Ouò - ou l’at refondù l’enterojò, que de fet moueinà, en aleunn en parotse, ou l’avet amprein a acomplir he ministéro.

Ou volé adonca fare-me he servisho? Ou ganherei ina greunta bienemereinse pre vohra ama.

Volontér - ou l’at blesseiò Leuc, loquin totun ou savet nhanca bieunn heunn qu’ou deset, tal qu’ou l’ére surfet de l’ehonemeunn. Lo préhre ou s’at aloura vreiò vers l’otal, e Leuc ou lh’eut alà apré; ou s’at betà en dzenelhon a piò de loueu, e la messò lh’eut comensiò. 

Ma apré lo premiér dialogo entre lo préhre e son ministro, canque hel ou l’eut montà a l’otal o moueitein de le tsandéle alenaie e petrelheinte, e Leuc, pa si teunn ocupà din son ufisho, ou l’at possù avouitar a l’entòrt e vér hi qu’ou preniont messò, ou l’at provà in si greunn efet qu’ou l’at sentù lo fret din lh’os e lo fla manqueunn. Ou iéro pa de vi héli, ma les ame di mòrt! Ou vardavo encorò l’apareinse do còrs, ma ina vreiò difareinta do vér! Ou iéro d’ombre van-ne, semblable a heleu que de voueiein de no mémo a travers di véro, on en d’éve clhère e plate; en pert ou l’avarantiont le linhe do còrs din loquin ou l’aviont vevù, finca le viélhe guenilhe; ma din lo reguert vouido, din le moueishéle en aheurpio, din le goule seinsa la flour do souris, din la pel dessechò e din le man blave e seinsa tser, ou semblavo plu squelétro que presseneu.

E qui ou iéro? Leuc ou l’at fassilhemeunn comprein canque ou s’at endonà que la plu pert ou iéro de bredzér, diquin ou l’at asseu recunussù carcun: i avet de contrabandiér, de parposér, de touristo escalatour de rotse; ou mancavo pa asseu le feméle e le dzeveneu. I avet fin-na in bredzér de contòrt dòzh’an avó lo fron ahlhapà. Adonca, qui ou iéro? Ou iéro li mòrt dessedù dessù les Alpe plu hote e dreite, li mòrt seinsa enterameunn, tset pre desgrahe on pre la man d’otri din lo fon di abimo e ensevenù de le crouì qu’ou l’alondzo li bré dessù la brò de le drehére qu’ou iéro ihaie sa tomba, iquieu inot enté que la tempéhe on la laveintse on la luta afrousa li avet vu tseihre. Lo Bon Dió ou l’avet predonà si pechò en forse de sa fin teribla e sebita; ma a cosa do fet qu’ou l’aviont pa avoù in enterameunn en in caro beneissù, e en deveunn asseu paiér pre se fote, ou iéro venù, e enféra ou veniont asseu d’otri còl, a helò messò féta aspres pre lhour, selebraia de un de lhour. Li bòt que Leuc ou l’avet creiù seintre ou iéro pre dabon batù a la clhotse de l’eglhisetò pre mandar li deferdù: e héti, tòt en in còl, ou iéro acourù de touit li caro a la pietousa selebrashon. 

Nohro omó ou s’at ehrinhò plu fòrt din son pastran e ou s’at fizhò din lo reguert do préhre, en eviteunn d’avouitar a l’entòrt. Ma pre mo que son ehonemeunn ou l’isse creissù davantadzo, vouiheu unò de heleus’ame batre le denn e comahér lo Sein Zèrio… Les otre ou refondiont toteu ensein avó in sombro dzemó qu’ou portave ina greunta tristour; ou semblavo de voues misteriouse, pa protse, ma louein louein, de voues de l’endelai, tòt semblable e la ressonanse de clhotse portaie de l’ora din la tourmeinta. Apé, canque la messò lh’eut arevaia o momeunn plu solenélo de l’elevashon, la preiére lhe s’at entrerontouò; e din lo seleinsho plu profon, tendeunn que touit hi devòt ou s’endzenolhévo e ou se bationt lo petró a tein, o bon Leuc i paret de seintre lo macabro crecreuc d’os deboueilà… Adonca ou l’at devù amassar le po forse qu’ou l’avet encorò pre pa avadir.

Lo sacro rito ou l’eut pre tsanse arevà a la fin. Lo préhre ou s’at endrehiò i preseunn, ou l’at deut l’«Ite missa est», e ou l’at donà le seinta benedishon. Apré ou l’eut dessendù de l’otal, e o soleut vi qu’ou l’avet prein messò ou l’at deut avó in ton delicat: - Mersì, bon omó. Ou polé alar, lo Bon Dió ou teunt pé contio de vohro servisho.

Leuc ou l’at pa atendù de seintre-lo doueu còl; ou l’at reisonà avó ina revereinse e ou l’at reprein son tsemin vers la porta entre le deuve file de squelétro vehù, qu’ou l’avouitavo fis. 

Totun ou l’avet le tsambe si amertìe e gropaie de l’emoshon qu’ou l’avet devù treinar-se a fatiga tein qu’o pa de la porta. Ou l’avet pa encorò fet in pa plu anai pre betar-se a astar dessù lo ban de labio qu’i avet desòt do petiòt portio, canque ou l’at sentù in batibeulh confù, souivì d’in greunn creup. La porta lh’éret ihà saraia avó violeinse. Aloura ou l’at avouità de le fenéhre : le tsandéle ou iéro dzò amòrte, lo hur ou l’ére mé dru e profon. Li mòrt, li povro mòrt venù a preindre messò din l’umida matenà tendeunn que li vi encorò ou dzahiévo din lo senó, ou l’aviont dzò fet retòrt din se néque trouin-ne o fon di abimo, din le fendereu de le rotse plu dreite, dessù li glhahér dzalà, entre le sombre foré e li boué en brandeunn dessù li sot, enté que si os ou l’ariont blantsì, en veneunn maman de pouha, din l’ateinta do dzòrt do Dzudiho, qu’ou lhe balheret forma e viò.