Erano tre sorelle, più che l'aurora splendide, ultimi ma bellissimi virgulti d'un antico ceppo nobiliare. Morto il babbo, morta la mamma, morti i fratelli, che con la loro condotta indegna avevano dissipato il patrimonio avito e fatto morire i vecchi genitori di crepacuore, le tre giovinette s'erano ritirate a vivere nella unica proprietà che fosse loro rimasta, su quella montagna che tra la Cima di Peirabroc e la Cima dei Gelas s'aderge ora, a guisa di una piramide tronca, anzi d'un obelisco immane, sopra una triste e sconsolata distesa di ghiacci e di nevi.
Ma ben altro era allora l'aspetto di quei luoghi, a cui la natura aveva prodigato i suoi tesori a piene mani. Se l'inverno stendeva pure sovr'essi la sua candida coltre, la buona stagione vi apprestava invece uno scenario di meravigliosa bellezza. Una corona di secolari castagni cingeva il monte alle sue falde, e vi gettava vaste ombre sui molli tappeti erbosi; qua e là i castagni davan luogo a pingui prati, costellati di innumerevoli fiori, pei quali scorrevano limpidi rivi lucidi come l'argento, a campi biondeggianti, a orti e frutteti; più su eran maestose faggete e folte selve d'abeti e di larici che spandevano intorno il loro forte profumo, mentre pei pascoli sparsi tra esse vagavano lentamente le greggi. Un angolo dell'Alpe tra i più pittoreschi, pieno di vita, pieno di poesia.
Le tre sorelle si erano ritirate in una graziosa villetta, già casa di caccia, ombreggiata da alberi giganti. Un muricciolo da cui pendevano rami di glicine e di altre piante la ricingeva come un cenobio; nel piccolo cortile gemeva una fontanella, e sorridevano in ben ordinate aiuole fiori di tutte le specie. Ma là dentro i fiori più belli erano desse, le tre vergini creature di sogno - Laura, Bice e Lia - esili come steli, flessibili come giunchi, con i visi di madonne che raggiavano bontà, le mani delicate che parevan d'avorio, i piccoli piedi che si sarebbero detti di fate.
Esse vivevano ora in quella solitudine: felici no, ma paghe del loro stato, contente del reciproco affetto, in piena armonia d'intenti e d'opere, aliene dal mondo dove avevan già troppo sofferto. Vivevano del ricordo dei loro cari, rimpiangendo gli uni, perdonando agli altri; ma dacchè quella vasta proprietà procurava loro ancora una modesta agiatezza, altro non chiedevano che d'esser lasciate in pace lassù.
Ma la pace più non arrise alle vergini belle dal giorno in cui la più giovane, l'angelica Lia dagli occhi stellanti, mentre andava iscegliendo fior da fiore lungo il margine di un rivo, incontrò per via il Signore d'Entraque, dei Conti Tana.
Il bel cavaliere, fiero e gagliardo, i cui occhi avevano lampi taglienti come lame d'acciaio, rimase fortemente colpito alla vista della bellissima creatura. Ma mentre questa, soggiogata dal suo sguardo, ne provò un intimo dolce turbamento che poteva diventare amore puro e grande, egli svelò tosto un'anima trista, sol di libidine accesa.
Non il cuore egli voleva della dolce Lia, ma la carne; voleva possederla per saziare voglie immonde, passione di bruto. Essa, tostochè se n'avvide, reagi sdegnosamente; e sfuggendo alla turpe aggressione portò tra le sorelle stupite e sgomente l'agitazione ond'era invasa, desolata per l'inganno e per la delusione che aveva sofferto, offesa per l'ignobile affronto che aveva ricevuto.
Nè l'affronto ebbe fine. Il superbo signore d'Entraque, dal giorno della ripulsa che ne aveva sferzato l'orgoglio, divenne delle tre candide creature romite sul monte il nemico mortale, sitibondo di vendetta. Egli sobillò lor contro la comunità di cui era a capo. e l'indusse a riesumare dai polverosi archivi documenti vecchi di secoli, atti a confortare delle pretese di possesso, da parte della stessa Comunità, di quelle terre su cui ora vivevano; e gli uomini di legge, facilmente indotti a sostenere l'iniqua asserzione, trovarono presto i cavilli e le speciose argomentazioni che facevano apparire il falso come pura verità.
Indifese contro la violenza, abbandonate persino dai servi e dai villici che avevano sempre avuto attorno, le sorelle cercarono invano di dimostrare il loro buon diritto. Questo fu calpestato, e gli stessi uomini della cosiddetta giustizia, che avrebbero dovuto essere la loro salvaguardia, le proclamarono illegittime proprietarie, e ordinarono perentoriamente che le loro terre fossero restituite alla Comunità di Entraque.
Quanta tristezza, ora, in quella piccola, romita casetta, che era stata per lungo tempo nido di pace
serena!
Quante lacrime piovvero da quegli occhi di sole, annebbiati dal dolore!
Il pensiero del Conte nemico, che ghignava alle loro spalle, perfido ministro di sciagura, era divenuto l'incubo di quelle povere fanciulle perseguitate. Lia specialmente se lo vedeva sempre dinanzi, nei sonni inquieti, come l'immagine del demonio, nascondente la immonda sua natura sotto la maschera del sorriso. I ritratti degli avi guardavano dalle pareti le ultime eredi della loro stirpe con una strana fissità: parevano anch'essi irrigiditi nel dolore, rassegnati alla fatale prossima fine di tutta la loro storia, invano onorata di gesta cavalleresche e d'eroiche imprese.
E venne il tristissimo giorno nel quale gli ufficiali della legge salirono da Entraque alla casetta romita, ed intimarono lo sfratto.
- Via di qua! - diceva l'ordine iniquo.
E l'ombra del Conte malvagio ghignava lontano.
- Via di qua! -, gridava con cipiglio severo la cosiddetta Giustizia.
Le tre sorelle s'incamminarono. Appoggiate l'una all'altra in amorosa catena, come le Marie dolenti a piè della Croce, sostenendosi a vicenda perché l'angoscia le abbatteva, tra lacrime dirotte e gemiti e singhiozzi, andarono innanzi per lungo tratto senza voler più guardare la casetta amica, dove avrebbero voluto vivere tutta la restante vita, dov'erano composte tutte le loro cose
più caramente dilette..... Non osavano più guardarla perché temevano di cadere affrante, uccise
dalla disperazione.
Ma ad un tratto Laura, la maggiore di esse, reagendo al dolore, infiammata di santo sdegno contro i persecutori che già erano entrati nel loro nido a profanarlo, fece forza alle sorelle, e le costrinse a rivolgersi con lei verso la bella montagna che spiegava al sole il ricco e variopinto mantello della sua fiorita verzura. Le costrinse a riguardare la loro proprietà che tutta copriva la montagna maestosa, e:
- Maledetta! - gridò a gran voce, con l'anima e col braccio tesi verso quella.
- Maledetta! - ripeterono a gran voce le sorelle, subito consentendo con tutto lo slancio del cuore appassionato.
- Maledetta! - ripetè ancora l'eco impietosita, rimbalzando dalle rupi vicine.
Le tre sorelle proseguirono la loro via andando raminghe pel mondo e sparvero in esso, come fragili navicelle abbandonate alle onde spariscono nei gorghi del mare. Ma sulla montagna abbominata, sulla montagna macchiata dalla violenza e dall'ingiustizia, cominciò tosto a cadere la neve. Nevicò per giorni e giorni, ininterrottamente; e quando l'inverno precoce v'ebbe steso il suo funebre manto, questo vi rimase per sempre.
Là dove era stata tanta bellezza e tanta vita, la primavera non tornò più. Neve s'aggiunse a neve; quella sciolta dal sole estivo si rassodò in croste e lastre e blocchi di ghiaccio; le selve odorose, i campi. i prati, i frutteti, i giardini e la casetta che sorrideva tra essi rimasero per sempre sepolti sotto l'eterno gelo.
E perciò la montagna, divenuta una triste e sconsolata distesa di ghiacci e nevi, su cui solo l'aquila distende ora il suo volo nero e il camoscio passa correndo come impaurito, la montagna divenuta un vasto sepolcreto perché maledetta dalle creature virtuose e dolenti che Dio predilige ed esaudisce, ebbe il nome che serba tuttora. Nome che sa di condanna e di sciagura, d'orrore e di morte: la "Maledia".

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