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"Conte" - Racconti Frp

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La montagna maledetta

La mountinheu modita

Traduzione e audiolettura in francoprovenzale a cura di Matteo Ghiotto

La montagna maledetta
italiano

Erano tre sorelle, più che l'aurora splendide, ultimi ma bellissimi virgulti d'un antico ceppo nobiliare. Morto il babbo, morta la mamma, morti i fratelli, che con la loro condotta indegna avevano dissipato il patrimonio avito e fatto morire i vecchi genitori di crepacuore, le tre giovinette s'erano ritirate a vivere nella unica proprietà che fosse loro rimasta, su quella montagna che tra la Cima di Peirabroc e la Cima dei Gelas s'aderge ora, a guisa di una piramide tronca, anzi d'un obelisco immane, sopra una triste e sconsolata distesa di ghiacci e di nevi.

Ma ben altro era allora l'aspetto di quei luoghi, a cui la natura aveva prodigato i suoi tesori a piene mani. Se l'inverno stendeva pure sovr'essi la sua candida coltre, la buona stagione vi apprestava invece uno scenario di meravigliosa bellezza. Una corona di secolari castagni cingeva il monte alle sue falde, e vi gettava vaste ombre sui molli tappeti erbosi; qua e là i castagni davan luogo a pingui prati, costellati di innumerevoli fiori, pei quali scorrevano limpidi rivi lucidi come l'argento, a campi biondeggianti, a orti e frutteti; più su eran maestose faggete e folte selve d'abeti e di larici che spandevano intorno il loro forte profumo, mentre pei pascoli sparsi tra esse vagavano lentamente le greggi. Un angolo dell'Alpe tra i più pittoreschi, pieno di vita, pieno di poesia.

Le tre sorelle si erano ritirate in una graziosa villetta, già casa di caccia, ombreggiata da alberi giganti. Un muricciolo da cui pendevano rami di glicine e di altre piante la ricingeva come un cenobio; nel piccolo cortile gemeva una fontanella, e sorridevano in ben ordinate aiuole fiori di tutte le specie. Ma là dentro i fiori più belli erano desse, le tre vergini creature di sogno - Laura, Bice e Lia - esili come steli, flessibili come giunchi, con i visi di madonne che raggiavano bontà, le mani delicate che parevan d'avorio, i piccoli piedi che si sarebbero detti di fate.

Esse vivevano ora in quella solitudine: felici no, ma paghe del loro stato, contente del reciproco affetto, in piena armonia d'intenti e d'opere, aliene dal mondo dove avevan già troppo sofferto. Vivevano del ricordo dei loro cari, rimpiangendo gli uni, perdonando agli altri; ma dacchè quella vasta proprietà procurava loro ancora una modesta agiatezza, altro non chiedevano che d'esser lasciate in pace lassù.

Ma la pace più non arrise alle vergini belle dal giorno in cui la più giovane, l'angelica Lia dagli occhi stellanti, mentre andava iscegliendo fior da fiore lungo il margine di un rivo, incontrò per via il Signore d'Entraque, dei Conti Tana.

Il bel cavaliere, fiero e gagliardo, i cui occhi avevano lampi taglienti come lame d'acciaio, rimase fortemente colpito alla vista della bellissima creatura. Ma mentre questa, soggiogata dal suo sguardo, ne provò un intimo dolce turbamento che poteva diventare amore puro e grande, egli svelò tosto un'anima trista, sol di libidine accesa.

Non il cuore egli voleva della dolce Lia, ma la carne; voleva possederla per saziare voglie immonde, passione di bruto. Essa, tostochè se n'avvide, reagi sdegnosamente; e sfuggendo alla turpe aggressione portò tra le sorelle stupite e sgomente l'agitazione ond'era invasa, desolata per l'inganno e per la delusione che aveva sofferto, offesa per l'ignobile affronto che aveva ricevuto.

Nè l'affronto ebbe fine. Il superbo signore d'Entraque, dal giorno della ripulsa che ne aveva sferzato l'orgoglio, divenne delle tre candide creature romite sul monte il nemico mortale, sitibondo di vendetta. Egli sobillò lor contro la comunità di cui era a capo. e l'indusse a riesumare dai polverosi archivi documenti vecchi di secoli, atti a confortare delle pretese di possesso, da parte della stessa Comunità, di quelle terre su cui ora vivevano; e gli uomini di legge, facilmente indotti a sostenere l'iniqua asserzione, trovarono presto i cavilli e le speciose argomentazioni che facevano apparire il falso come pura verità.

Indifese contro la violenza, abbandonate persino dai servi e dai villici che avevano sempre avuto attorno, le sorelle cercarono invano di dimostrare il loro buon diritto. Questo fu calpestato, e gli stessi uomini della cosiddetta giustizia, che avrebbero dovuto essere la loro salvaguardia, le proclamarono illegittime proprietarie, e ordinarono perentoriamente che le loro terre fossero restituite alla Comunità di Entraque.

Quanta tristezza, ora, in quella piccola, romita casetta, che era stata per lungo tempo nido di pace

serena!

Quante lacrime piovvero da quegli occhi di sole, annebbiati dal dolore!

Il pensiero del Conte nemico, che ghignava alle loro spalle, perfido ministro di sciagura, era divenuto l'incubo di quelle povere fanciulle perseguitate. Lia specialmente se lo vedeva sempre dinanzi, nei sonni inquieti, come l'immagine del demonio, nascondente la immonda sua natura sotto la maschera del sorriso. I ritratti degli avi guardavano dalle pareti le ultime eredi della loro stirpe con una strana fissità: parevano anch'essi irrigiditi nel dolore, rassegnati alla fatale prossima fine di tutta la loro storia, invano onorata di gesta cavalleresche e d'eroiche imprese.

E venne il tristissimo giorno nel quale gli ufficiali della legge salirono da Entraque alla casetta romita, ed intimarono lo sfratto.

- Via di qua! - diceva l'ordine iniquo.

E l'ombra del Conte malvagio ghignava lontano.

- Via di qua! -, gridava con cipiglio severo la cosiddetta Giustizia.

Le tre sorelle s'incamminarono. Appoggiate l'una all'altra in amorosa catena, come le Marie dolenti a piè della Croce, sostenendosi a vicenda perché l'angoscia le abbatteva, tra lacrime dirotte e gemiti e singhiozzi, andarono innanzi per lungo tratto senza voler più guardare la casetta amica, dove avrebbero voluto vivere tutta la restante vita, dov'erano composte tutte le loro cose

più caramente dilette..... Non osavano più guardarla perché temevano di cadere affrante, uccise

dalla disperazione.

Ma ad un tratto Laura, la maggiore di esse, reagendo al dolore, infiammata di santo sdegno contro i persecutori che già erano entrati nel loro nido a profanarlo, fece forza alle sorelle, e le costrinse a rivolgersi con lei verso la bella montagna che spiegava al sole il ricco e variopinto mantello della sua fiorita verzura. Le costrinse a riguardare la loro proprietà che tutta copriva la montagna maestosa, e:

- Maledetta! - gridò a gran voce, con l'anima e col braccio tesi verso quella.

- Maledetta! - ripeterono a gran voce le sorelle, subito consentendo con tutto lo slancio del cuore appassionato.

- Maledetta! - ripetè ancora l'eco impietosita, rimbalzando dalle rupi vicine.

Le tre sorelle proseguirono la loro via andando raminghe pel mondo e sparvero in esso, come fragili navicelle abbandonate alle onde spariscono nei gorghi del mare. Ma sulla montagna abbominata, sulla montagna macchiata dalla violenza e dall'ingiustizia, cominciò tosto a cadere la neve. Nevicò per giorni e giorni, ininterrottamente; e quando l'inverno precoce v'ebbe steso il suo funebre manto, questo vi rimase per sempre.

Là dove era stata tanta bellezza e tanta vita, la primavera non tornò più. Neve s'aggiunse a neve; quella sciolta dal sole estivo si rassodò in croste e lastre e blocchi di ghiaccio; le selve odorose, i campi. i prati, i frutteti, i giardini e la casetta che sorrideva tra essi rimasero per sempre sepolti sotto l'eterno gelo.

E perciò la montagna, divenuta una triste e sconsolata distesa di ghiacci e nevi, su cui solo l'aquila distende ora il suo volo nero e il camoscio passa correndo come impaurito, la montagna divenuta un vasto sepolcreto perché maledetta dalle creature virtuose e dolenti che Dio predilige ed esaudisce, ebbe il nome che serba tuttora. Nome che sa di condanna e di sciagura, d'orrore e di morte: la "Maledia".

franco-provenzale

I avet tré souére, plu trelouiseinte que l’arba, li derér e ina vreiò bel redzeton d’ina hepò viélhe e nobla.

Dessedù lo pare, dessedouò la mare, dessedù li frare, qu’avó sa condouita seinsa respet ou l’aviont dessipà lo patremouéno e fet mouère le viélhe dzenn de crevacor, le tré dzeveneu ou s’aviont retreiò a vivre din lo soleut bieunn qu’ou l’isso encorò avoù, dessù helò montinheu qu’o moueitein entre la Pouinta de Peirabroc e la Pouinta di Gelas lhe se léve, a la ressemblanse d’ina piramida ehemaia, on mioù d’in obelisco, dessù ina trista e deconsolaia ehendouò de glhé e de nei.

Totun l’apareinse de he caro lh’éret ina vreiò difareinta, e la natura lh’avet balhò si tresor a plein-ne man. Si l’evert ou l’ehendet sa blantse coutse, la bon-na sezhon lh’aprestave in paisadzo de formidabla beltà. Ina coronò de tsahnhér seculéro lh’aherclhave la montinheu a si piò e lhe tapave de greuntes ombre dessù le tepeu garavan-ne ; iheu e lai li tsahnhér ou formavo de pra dru, ehelà de plein de flour, o moueitein diquin ou couriont des éve clhère reflendeinte comme l’ardzeunn, a de tseunn blondéieunn, e curtil e verdzér ; plu inot i avet de pouisseunn boué de fou e de foré de souife e de meledó qu’ou l’enfancévo a l’entòrt son bon fla, tendeunn que pre li pahér despressó pre iquieu ou garonavo li troupel. In caro de l’Alpe entre li plu bel, plein de viò, plein de poesì.

Le tré souére ou s’aviont retreiò en ina grahiousa vila, dzò moueizhon de tsahe, ombrejò de plante dzeeinte. In meralheut doquin ou pendiont de brantse de glhesseunn e d’otre plante, ou l’entourave comme in monehér ; din la petiota còrt lhe dzemet ina fontan-na, e ou racanhévo bieunn ordenaie de flour de toteu les espéhe. Ma iquieu dedin le flour plu bèle ou iéro lhour, le tré vieurdze qu’ou semblavo in sondzo – Laura, Bice e Lia – mégre comme de bushe, flessible comme de sinhére, avó li vesadzo a madona qu’ou reionavo bontà, le man fin-ne qu’ou paressiont d’ivouéro, li petiòt piò qu’ou poliont iéhre de faie.

Ou veviont arò din helò solitude : eirouse pa, pa soudesféte de heunn qu’ou l’aviont, conteinte pre l’amour resseproco, en plein-na armonì d’entenshon e d’ovre, louein do mondo enté qu’ou l’aviont dzò tròt sefert. Ou veviont din l’ensevenianse de si tsér, en regreteunn héti, en predoneunn héli ; totun dipé que helò greunta piéhe lhe donave encorò ina serténa eseinse, ou mandavo pa otro que d’iéhre lishìe en pé iquieu inot.

Ma la pé lh’areut pa plu resù dipé lo dzòrt que la plu dzevenò de le vieurdze, l’andze Lia di oueulh eheleunn, tandeunn que lh’alave en eherneunn le flour o lon de la brò d’in gourdzé, lh’at rencontrà dessù son tsemin lo Moshù d’Entréve, di Conto Tana.

In bè tsevalhér, fiér e coradzoù, liquin oueulh ou l’aviont d’artselemó talheunn comme de lame d’ahér, ou l’eut ihà ravì a la vue de helò superba creatura. Ma, tendeunn que lhi, soubetaia de son reguert, lh’at sentù in entimo turbameunn qu’ou polet venir in amour pur e greunn, loueu ou s’at revelà fit in’ama trista, anemiaia rinque de desiro.  

Ou volet pa lo cor de la douhe Lia, ou volet la tser ; ou la volet pre loueu afin de soudesfare se pouèrtses envieu e sa pashon de sarvadzon. Lhi, dret que lhe s’at endonà, lhe s’at vreiò radzousameunn ; e en fouiseunn a l’enfama agreshon, lh’at portà o moueitein de le souére artseite si mémo trobló, desolaia pre la tromperì e pre lo tsagrin que lh’avet sefert, ofendouò pre lo meprisablo afron que lh’avet ressevù.

E l’afron ou l’ére pa frenì. Lo vorieunn Moshù d’Entréve, dipé do dzòrt do refù qu’ou l’avet ferì son orgoueulh, ou l’eut venù lo desnemì mortalo de le tré candie creature isolaie dessù la montinheu, aglheus de reveindze. Ou l’at touisenà contra de lhour, la comunità de laquinta ou iére cap e ou lh’at poussà a garabotar din li artsivo de documeunn plein de pouha e vieulh de séclho, afin de renforsér se preteise de posses, do caro de la méma comunità, de heleu tère enté qu’arò ou veviont ; e li omó de lei, fassilhemeunn portà a soutenir l’enjusto, ou l’ont fit trovà le tseteu e li argumeunn qu’ou fazhont semblar la buzhò tal qu’ina simpla veretà.

Endefendeuve contra la violense, abandonaie di serveunn e di campanhin qu’ou l’aviont delon avoù a l’entòrt, le souére ou l’ont serchò pre reunn de demohrar son bon drouet. Het ou l’eut ihà tsarpesà, e li mémo omó de la dita dzustihe, qu’ou l’ariont devù iéhre sa sovegarda, ou les ont proclamaie métre gotse, ou l’ont ordenà emperativameunn que se tère ou sisso ihà rendeuve a la Comunità d’Entréve.

Quinta tristour, arò, din helò petiota, soletò moueizhon, que pre briva lh’éret ihaia in ni de bon-na pé !

Que des engremeu ou l’ont plovù de hi oueulh de solei, anheblà de doulour !

Lo sondzo do Conto nemì, qu’ou guinhéve a ses efale, metseunn ministro de deféta, ou l’ére venù in cotsemaro de heleu povre filheu persecutaie. Lia pé dzò ou lo voueiet delon deveunn lhi, din li senó atroblà, tal que la madze do diablo, catseunn son afrousa natura desòt la vesadzére do souris. Li retròt di vieulh ou l’avouitavo de le meralhe le derére eretiére de sa familhe avó in drolo de reguert : ou semblavo asseu lhour reido de doulour, ressinhò a la protse fin de tòt son istouére, a reunn onoraia de le bèles ashon de tsevalerì e di at eroicco.

E ou l’eut arevà lo mové dzòrt enté que li ufishalo de la lei ou l’ont montà a Entréve a la moueizhon tòt soletò, e ou l’ont balhò l’ordre d’espulshon.

« Viò d’iheu ! » ou deset l’ordre enjusto.

E l’ombra do Conto metseunn lhe guinhéve de louein.

« Viò d’iheu! » lhe brelave sombrameunn la dita Dzustihe.

Le tré souére ou se sont betaie en tsemin. Apoìe unò a l’otra en ina douhe trenò, tal que le Marì plereinte i piò de la Crouì, en se souteneunn entre lhour pre mo que l’angouéhe le tapave ba, entre engremeu a vers e dzemó e sanglheut, ou sont alaie ineunn pre in bè tòc seinsa volér avouitar la moueizhon, enté qu’ou l’ariont volù vivre pendeunn tòt la viò, enté qu’ou iéro composaie se tsose plu tsére… Ou l’osavo pa mé avouitar-la pre mo qu’ou creiont de tseihre acablaie, touaie de la desesperashon.

Tòt en in còl Laura, la plu greunta, en readzeunn a la doulour, enflamaia d’endinhashon contra li persecutour qu’ou iéro dzò intrà din son ni afin de profanar-lo, lh’at solajò se souére, e lhe l’at forhiò a alar vers la bèla montinheu que lhe depleiéve o solei son retsó e bariolà mantel de son veurt flourì. Lhe l’at oblijò a avouitar se piéhe qu’ou creviont tòt la montinheu, e :

« Modita ! » lh’at brelà a greunta voues, avó l’esprit e lo bré tendù iquieu.

« Modita ! »  ou l’ont repetà a greunta voues le souére, avó in elanso apashonà do cor.

« Modita ! » lh’at repetà encorò la ressonanse, en ressoteunn dessù le falése a l’entòrt.

Le tré souére ou sont alaie ineunn pre son tsemin, soleteu pre lo mondo e ou l’ont embalevì, tal que de naviro fradzilo abandonà a les onde ou l’embaleveisso din li terbeulh de la mar. Ma dessù la montinheu abominabla, dessù la montinheu machò de la violeinse e de l’endzustihe, i at toi comensiò a tseihre la nei. I at nevù pre dzòrt e dzòrt, seinsa aret ; e canque l’evert pretenér ou l’at ehendù son tristo pastran, iquieu ou l’eut pa mé alà viò.

Lai enté qu’i avet avoù si teunn de beltà e teunn de viò, la premò lh’at zhamé plu fet son retòrt. De nei lhe s’at dzouintà a d’otra nei ; helò fondouò do solei do tsotein lhe s’at enduriò en crouhe e glhavon e blòc de glhé ; li boué do bon fla, li tseunn, li pra, li verdzér, li curtil e la petiota moueizhon que lhe resolave iquieu o moueitein, ou sont ihà pre delon entarà desòt la fret eternéla.

E pre heunn la montinheu, venouò ina trista e deconsolaia ehendouò de glhé e de nei, enté que rinque l’églhe lh’ehire son volho nér e lo tsamour ou passe plein de pour, la montinheu venouò in amplo hemetiéro prequei modita de le creature vertiouse e doleinte que lo Bon Dió ou l’eime mioù, lh’at lo non que lh’at encorò arò. In non qu’ou sat de condanashon e de deféta, d’afro e de mòrt : la « Maledia ».