Al secondo anno dei miei studi universitari (1975-76), frequentando Filologia romanza, m’imbattei per conto mio ne La letteratura occitanica moderna, di Fausta Garavini (è ancora lì, nella mia libreria). Con somma meraviglia, intuii che, nonostante gli studi accademici esclusivamente consacrati al Medioevo, la lingua occitana non si era assopita in un sonno di morte con i suoi trovatori faidit e i suoi roghi. Ma compresi pure che quel volume, se volevo diventare filologa romanza (come poi fu) dovevo lasciarlo sigillato. E così avvenne per una quarantina d’anni, fin quando non conobbi l’autrice di quell’antico volume. Prima il mio viaggio a Firenze (dove Fausta aveva vissuto con il marito, Robert Lafont – che sorpresa anche questa!) e poi fu lei a farmi l’onore di venire a parlare ai miei allievi a Ferrara (aprile 2015). Sono appena due anni che sospingo i miei passi esitanti nella letteratura occitanica moderna e mi si è aperto un mondo di opere di cui ben pochi sospettano l’esistenza. Perché questo cono d’ombra su di una letteratura tanto bella e varia? Ma soprattutto ho ascoltato voci che ancora mi suonano familiari e conosciuto persone che vantano l’occitano come lingua madre. Non è di poca emozione per chi il provenzale lo ha studiato solo sui manoscritti. Nozioni libresche cui non ho prestato attenzione e alimento finché non mi sono spinta ad Ostana (giugno 2016) per conoscere gli organizzatori del Premio alle letterature in lingua madre. È molto toccante partecipare a questa fratellanza di figli cadetti e senza terra di una stessa madre (io, toscana, se non “Cruscante”). E non è solo per risarcimento, ma per vivo interesse che gli ospiti alle mie giornate sulle lingue minoritarie hanno contagiato alcuni dei miei allievi (Vincenzo Perez, il primo “sfornato” di questa covata di giovani studiosi). Poi la tesi su Marcela Delpastre e Ida Vallerugo, friulana (Susi Berti). Altre tesi si preparano: sul Baroncelli di Blad de Luno (Valentina Prugni); sulla letteratura del paesaggio “Da un delta all’altro”, tra Rodano e Po (Irene Lycourentzos); su Delavouët, Istòri dóu rèi mort qu’anavo à la desciso (Anna Piovani); su Aurélia Lassaque (Laura Gioia); sullo stesso Premio Ostana e la sua fondamentale animatrice, Ines Cavalcanti (Elena Realdini); sui romanzi di Joan Ganhaire (Federico Cavicchi).
Nel numero di Lengas appena uscito en ligne (79/2016 https://lengas.revues.org/, eccezionale il lavoro redazionale di Hervé Lieutard), si possono leggere i contributi di molti studiosi europei che al convegno ferrarese concentrarono la loro attenzione sulle lingue minoritarie o lingue meno fortunate dell’Europa romanza: galego, catalano, romeno, francoprovenzale (un particolare ringraziamento, per quanto mi ha fatto familiarizzare con la cultura occitana, va a Giovanni Agresti). Con una di loro, Gilda Russo, ho siglato un Erasmus Ferrara-Montpellier. In questo recente numero di Lengas, io ho dato il mio piccolo contributo, valorizzando Antonio Bodrero, Claudio Salvagno e Ida Vallerugo, per quel filo della memoria che ancora li lega alla loro comune patria letteraria, la Provenza. Li ho chiamati Troubadours de lunchour, perché parlano a noi, alla nostra accademia sorda per quelle voci, da una lontananza struggente: «Me sientes? I sies encara?» (Salvagno), e, con Forêt, sembrano chiedermi: «Nos abandones pas tu qu’un pauc nos coneisses».
E ne ho parlato in un Congresso Internazionale romano del luglio 2016, intitolando il mio intervento : Oltre il medioevo: proposte per una didattica della continuità in Filologia Romanza, auspicando un décloisonnement degli studi italiani verso la letteratura occitanica moderna, nell’ottica di quell’eredità del medioevo che in questa terra luenchenca si è conquistata un suo «necessario cielo» (I. Vallerugo).
commenta