Intervistatori:

Insegnante

Gallasso Maria Grazia

Classe II

Francesco Vair

Fabio Chiamberlando

Valter Belletto

Classe III

Diego Sereno

Chiara Vair

Classe IV

Ivana Campo Bagattin

Barbara Sereno

Manuela Belletto

Carla Ponsero

Fabio Annovazzi

Monica Ferrando

Classe V

Luca Maberto

Simone Ansaldi

Ilenia Belletto

Laura Richard

Alessia Borello

Gli alunni di seconda hanno collaborato al lavoro in classe con i disegni.

Ogni alunno dopo la stesura collettiva di griglie con domande, a casa ha intervistato i nonni, i vicini di casa. A piccoli gruppi si sono intervistate persone anziane, registrate e trascritte notizie.

I ragazzi hanno partecipato con vivo interesse ed impegno alla raccolta di vecchie fotografie, documenti quali pagelle, attestati di frequenza, libri, oggetti che testimoniano il modo di vivere dei nostri nonni e bisnonni quando erano bambini.

INTERVISTATI

ANNO NASCITA

Elena Ferrando

1903

Benedetta Rossetto

1912

Adele Chiamberlando

1915

Pietro Givodano

1903

Emilia Campo

1903

Albertina Ponsero

1906

Francesco Campo Bagattin

1925

Cecilia Borello

1924

Rosina Aschieris

1922

Celestina Deyme

1926

Gemma Rumiano

1928

Massimo Gallasso

1928

Letizia Borello

1930

Rosa Borello

1929

Battista Borello

1930

Maria Ponsero

1932

Mirella Baroz

1933

Ernesta Campo

1915

Maria Belletto

1934

Bernardo Ferrando

1905

Tutte le persone intervistate sono residenti a Giaglione.

Oggi tutta la famiglia partecipa e vive la dolce attesa di un bimbo! Al contrario di come avveniva al tempo dei nonni…

Quando in famiglia doveva nascere un bimbo, spesso i più grandicelli venivano portati dagli zii o dai parenti e ritornavano a casa al termine del lieto evento.

A volte erano felici, altre volte un po’ arrabbiati magari perché la nidiata era già molto numerosa e la solita domanda era la seguente:

Dove avete preso questo bimbo?

Ai bambini venivano date risposte varie e a seconda della stagione il luogo di provenienza del neonato variava:

Din in tsoû

In un cavolo (nell’orto)

Din li quinn de palha

In una fascina di paglia

Venû bâ plou fournèl

Venuto giù dal camino

Din lou boueidoet dle chouevroes

Nel recinto delle capre nella stalla

Nâ din ina valiza

In una valigia

Soun alâ tsitèlo a la fèiřa de Suiza

Sono andati a comprarlo alla fiera a Susa

Lhot pourtalo in grô eizouèl blan devan la porta

Lo ha portato un grosso uccello bianco davanti a casa

Nâ din la crèipe

Nato nella mangiatoia

Din ina dzavèla

In un covone di paglia

Ottenute queste risposte, capitava a volte che i bambini facessero a gara, mettendo tutto a soqquadro, per vedere chi riusciva a trovare altri “fagottini”.

La signora Elena Ferrando ricorda molto bene il giorno in cui, con sua grande sorpresa e ….gelosia, nacque sua sorella:

Me è moun fraře alian dzò a l’èicola tot i doué..

Arivoen de l’èicola: notroun paře atacâ lou fouva ou l’aprestave mařoenda!!!

Ařò, que te fâ ? – damandoen nos aoutris tot troulo.

È, maře ?

Maře, lhe bâ a l’èitrablo…lhot deibélâ la trapounâ de foelhoes è lhot trouvâ ina bèla petsita. Anque viřian le foelhoes su lou trapoun anout a Tsanduran, aioen pâ sentula aroen, iot pâ capitâ de toutsèla è aioen pourtala a mèizoun.

Notroun paře ou lot doet – Alâ bâ a l’eitrablo, trouvée maře è votra soëra, tendan que me vou apresto mařoenda.

È me è moun fraře – O bèn, éet lèn quezina inqué.

.ieřan dzelous!!!!

Io e mio fratello andavamo già a scuola tutti e due..

arriviamo da scuola: mio padre vicino al fuoco stava preparando pranzo!!!

Adesso cosa fai? Domandiamo noi tutti allegri.

E , adesso bisogna prepararvi il pranzo.

E mamma?

Mamma è giù nella stalla….ha disfatto la balla di foglie e ha trovato una bella bambina.

Quando ammucchiavamo le foglie sul trapoun su a Tsanduran, non l’abbiamo sentita affatto, non è capitato di toccarla e l’abbiamo portata a casa.

Nostro padre ci ha detto – Andate giù nella stalla, a trovare mamma e vostra sorella, mentre io vi preparo pranzo.

E io e mio fratello: Oh beh, è presto cucinato oggi. –

Eravamo gelosi!!!

IL PARTO

Una volta le gestanti, al momento del parto erano assistite ed aiutate dalle donne più anziane e più esperte del paese: amiche, parenti o vicine di casa.

Solo nei casi difficili interveniva la levatriz (l’ostetrica) o il medico oppure la partoriente veniva ricoverata in ospedale.

La maggior parte delle donne, quindi partoriva in casa: se era d’inverno, nella stalla su un letto di foglie (moutò) e riscaldate dal fiato delle mucche, oppure nelle camere e se di notte, rischiarate dai lumini ad olio o a petrolio.

Verso la metà degli anni 40 già molte donne per partorire venivano ricoverate all’ospedale di Susa e dopo gli anni 50 nessuna ha più partorito in casa.

LE PRIME CURE

Quando il bambino era appena nato gli si annodava l’ambeřilh (l’ombelico), poi si faceva piangere con qualche “ciacca” sul sederino, quindi si preparava una bacinella con dell’acqua calda e gli si faceva il bagnetto. Si asciugava. Quando era tutto a posto si fasciava. (Manuela)

Il neonato veniva lavato in una soluzione di vino e rosmarino. (Barbara)

La mia bisnonna Vicenza racconta che i bambini appena nati venivano lavati din lou vin tèibe (nel vino tiepido) ed asciugati din la fařinò de sèila (nella farina di segala). (Carla)

Una volta non si faceva tutti i giorni il bagnetto al neonato, per pulirlo si prendeva un pezzo di panno morbido bagnato nell’acqua tiepida e strizzato e si passava delicatamente sul viso e sulle varie parti del corpo. (Ilenia)

Si diceva che al neonato non bisognava tagliare le unghie perché altrimenti sarebbe diventato balbuziente. (Alessia)

In tante famiglie quando il neonato aveva superato i due mesi si aveva l’abitudine di fargli il bagnetto nel vino dicendo che serviva a farlo crescere forte e robusto. (Ivana)

Il bambino veniva lavato nel vino e, senza essere asciugato, si fasciava e si metteva nella culla. Qualcuno faceva il bagnetto nel vino dopo una settimana di vita per rinforzargli i nervi. (Fabio)

LA PINTÓ

La pintó era una pettinina a denti fitti.

Un tempo ai bambini piccoli non si faceva molto di frequente lo shampoo. Per il cuoio capelluto usavano la pintó e la passavano in modo molto aderente al cuoio capelluto per togliere le “impurità”. (Carla)

L’ALIMENTAZIONE

Il neonato veniva allattato al seno (dounavoun tetée). Se la mamma fosse stata senza lèt (latte) si ricorreva a quelle mamme che avevano tanto latte e potevano allattare due bambini. Si chiamavano bèiloes (balie). (Carla)

Fino a che la mamma aveva latte il neonato succhiava il latte materno. Poi veniva sostituito con il latte di capra che era più leggero e più simile a quello materno. (Barbara)

Mia nonna Rosina mi ha detto che non aveva latte per allattare mio papà, perciò andava da una signora che aveva le mucche, prendeva il latte e lo mischiava con un po’ di acqua all’inizio per renderlo più leggero e poi man mano latte puro. (Monica)

Il bambino veniva svezzato con il latte nel biberon. Allora non si acquistava il biberon, ma la teteřèla (la tettarella) che veniva applicata ad una piccola bottiglia. (Fabio)

Man mano che il bambino cresceva cominciava a mangiare le prime pappe con il latte di mucca, semola e un po’ di zucchero (li crouzët), Puréia (puré di patate) e le prime minestrine. Si preparavano anche delle zappette di latte con una goccia di caffè e qualche biscotto sbriciolato (di preferenza savoiardi). Il piccolo cominciava poi anche a mangiare polenta e latte. (Barbara)

I SUCCHIOTTI

Per fare addormentare il neonato veniva fatto un succhiotto (in tèrtsoun) con un biscotto avvolto in un pezzo di tela bagnato nello zucchero. Al posto del biscotto metteva una biaouna (castagna bollita). (Ivana)

Si usava anche immergere un pezzo di tela nello zucchero e poi nel vino, così i bambini stavano tranquilli e le mamme potevano fare i lavori. (Luca)

LOU BATÈIMO (il rito) – LE BATIALHOES (tutta la festa)

Una volta il neonato veniva portato al fonte battesimale dopo pochi giorni per paura che il piccolo dovesse morire. Nel peggiore dei casi si aveva la certezza che il piccolo ritornasse fra gli angeli.

Se il bambino si trovava in ospedale, il più delle volte, lo battezzavano prima di portarlo a casa.

Per il giorno del battesimo il neonato veniva vestito tutto di bianco. A contatto con la pelle un camicino nuovo, poi le fasce, sopra una maglietta di lana anch’essa nuova e finemente lavorata. La cuffietta era molto bella, di pizzo. Il neonato così vestito veniva messo nel portanfan (portenfant) bianco di pizzo, o ricamato, con volants.

Sopra, per ultimo si stendeva una bella copertina bianca ricamata oppure lavorata aou croutsët (all’uncinetto). Qualcuno al posto della copertina usava un lenzuolino, magari orlato con del pizzo.

La coperta veniva appoggiata sulle spalle della madrina (la marèina). Era tenuta ferma con due spille. Il neonato non si vedeva, doveva restare coperto.

A volte la copertina o il lenzuolino erano abbelliti con un nastrino tutto intorno. Oppure vesioun de grô fioc avée ina livréia roza o bloia (facevano dei grossi fiocchi con nastri rosa o azzurri).

Il compito del padrino: poiché la madrina era impegnata a tenere sulle braccia il neonato, il padrino, in chiesa, aveva il compito di aiutare a scostare la coperta bianca e di togliere la cuffia per permettere al Parroco di battezzarlo.

Il neonato veniva portato in chiesa dalla marèina (madrina), dal parèin boun (padrino), dal papà e da eventuali fratelli o sorelle. La mamma restava a casa.

Un bambino, se il neonato era maschio, una bambina se era femmina, avevano il compito di portare la torta (il cero) a cui veniva legato un grosso fiocco rosa o azzurro. Il cero dalla casa alla chiesa si portava spento, si accendeva per il sacro rito e si ritornava a casa cercando di mantenerlo acceso.

Durante il percorso a piedi dall’abitazione alla chiesa, il neonato veniva portato sulle braccia della madrina, la quale non doveva mai voltarsi indietro altrimenti il bambino da grande sarebbe diventato curioso. La madrina doveva anche camminare molto veloce, affinché il bambino diventasse veloce e lesto nei lavori. Inoltre doveva tenere il bimbo con grazia e stare attenta che la coperta lo coprisse bene.

LE MALADIOES

Un tempo le famiglie erano molto numerose: in ogni famiglia nascevano in media 5 o 6 bambini.

Tanti però morivano alla nascita o nei primi anni di età, spesso per la scarsità di medicine e di cure efficaci al superamento delle malattie.

Le malattie più frequenti

L’amproumouselâ

Il raffreddore di testa, naso chiuso

L’anfrèidâ

Il raffreddore

Mal aou col

Mal di gola

La fiévra

La febbre

La freidoû

La tosse

Mal a les ourlhoes

Mal d’orecchie

Mal a le dën

Mal di denti

Lh’ouilh couzû

La congiuntivite

Mal aou vëntre

Mal di pancia

Astoumacâ

Indigestione

La couran – lou flus

La dissenteria

La rifa

La crosta lattea

La tousnina

La pertosse

Il mughetto

Le mucose della bocca si ricoprivano di fiocchi bianchi e il neonato non poteva più succhiare

Le malattie esantematiche

La rèisola

Il morbillo

Le malattie gravissime

Lou mal de cota

La polmonite

Lou grip

La difterie

La vèirola

Il vaiolo

Le counvoulsioun

Le convulsioni

Lou mal dzô

Il tifo

ALCUNI RIMEDI

Se i bambini piccoli avevano il sederino arrossato, le mamme prendevano della tela di canapa, la grattugiavano fino a ridurla in polvere e dopo la mettevano sul sederino o sulle parti arrossate. Questo sostituiva il borotalco. (Carla)

Quando un bambino di pochi mesi si ammalava, si prendeva una sacca di tela in cui si metteva della farina di segala ) fařinò d’ sèila e dell’incenso che si acquistava da l’aspésiaře (il farmacista). Il tutto si faceva scaldare, poi si deponeva il bambino nella sacca che veniva allacciata sopra le spalle e lo si metteva a dormire. (Ivana)

Spesso i bambini piccoli piangevano e non si sapeva cosa fare: le mamme allora guardavano le ciglia. Se erano incrociate affermavano che avevano li vèes (i vermi).

Il rimedio più efficace era l’alh (l’aglio): si prendeva qualche spicchio e si metteva in un sacchettino di tela appeso al collo oppure si faceva una collana di aglio. (Manuela)

Se ciò non bastava, si somministrava qualche goccia di petrolio da annusare o da bere.

Sempre per combattere i vermi si faceva l’astoumiët: si preparava dell’incenso con del barbèl (canapa da filare) e si bagnava il tutto con qualche goccia d’èiva vitò (acqua vite). Questa zappetta si faceva intiepidire in un tegamino e si versava su un pezzo di carta azzurra (la carta dello zucchero) e veniva messa sul pancino del bambino.

Finché l’astoumiët non si staccava da solo, i vermi non erano scomparsi. (Ivana, Manuela, Barbara)

Oppure ancora infusi di incenso che venivano somministrati in piccolissime dosi. (Barbara)

A volte al posto dell’incenso era usato lou fort (l’assenzio).

La malattia più frequente era l’anfrèidâ (il raffreddore) che, se trascurato, poteva portare a malattie gravi e spesso mortali come la polmonite.

Le mamme premurose quindi si preoccupavano anche di un semplice raffreddore e somministravano ai piccoli de tizaounoes (delle tisane) di violette, di tiglio, di sambuco, di malva. (Carla)

Se i bambini erano raffreddati si prendeva lou bèrnadzo (la paletta di ferro usata nel camino), si metteva sopra della braza (brace) a cui si aggiungevano fiori di camomilla. Con il fumo che ne usciva si profumava la cuffietta del bimbo. Questo rimedio aiutava a far maturare il catarro dalla testa. (Manuela)

Anche per combattere la tosse si facevano tisane con fiori di montagna: viole, camomilla, lichene e si dolcificavano con il miele. (Fabio)

Contro la freidoû (la tosse) era molto in uso le poulèintinoes o li papin (cataplasmi) di semi di lino macinati. Venivano applicati tiepidi sul petto del bambino e si rinnovavano due volte al giorno. (Barbara)

Ai piccoli che accusavano male al pancino, mettevano sulla parte interessata un pezzo di carta azzurra unta di burro fresco che facevano intiepidire sulla fiamma. Il bambino veniva poi fasciato con un pezzo di tela per tenerlo al caldo. (Manuela)

Per guarire li nisoun (ematomi) mia nonna possiede ancora un flaconcino che contiene una medicina naturale: lou bidzoun (la resina) che si raccoglie dai sap (gli abeti). (Manuela)

Per guarire lh’ouilh couzû (congiuntivite) si lavavano gli occhi con acqua e zucchero oppure con infuso di camomilla e di malva.

Spesso i bambini avevano mal di orecchi; per guarirli facevano entrare nell’orecchio alcune gocce di latte direttamente dal seno delle nutrici.

Oppure facevano intiepidire l’olio di oliva con dei capolini di camomilla. Quando era a temperatura corporea lo mettevano nell’orecchio e chiudevano con un po’ di cotone.

LE CUNOES

Quando il neonato era lavato e cambiato, si poneva nella cunó (culla) che era fatta di legno ed era simile ad una cassetta rettangolare leggermente svasata verso l’alto. Era appoggiata su due gambe a dondolo o due mezzelune che servivano a cullare il bambino quando piangeva o per farlo dormire. Sui fianchi, all’esterno, vi erano scolpiti o dipinti dei fiori. (Fabio)

Vi erano vari tipi di culle:

  • Le cunoes de vèn (le culle di vimini intrecciate)

  • Le cunoes de bôc (le culle di legno) : alcune erano bassissime, altre, forse più recenti, molto più alte e grandi. Erano quasi tutte verniciate. (Manuela)

Le culle avevano lungo i fianchi alcuni fori per permettere di passare ed incrociare una fettuccia per evitare che il bambino potesse cadere dalla culla mentre veniva cullato o si muoveva. (Ivana)

Se la culla era bassa, di notte, prima di andare a letto, si metteva sopra due sedie vicino al letto della mamma e per paura che durante la notte si rovesciasse si legava uno spago al letto. (Manuela)

Quando il bambino dormiva, per non essere molestato dalle mosche o dalle zanzare, sui lati della culla in corrispondenza della testa del bambino veniva fissato un archetto sul quale si posava un velo leggero. (Barbara)

Nella culla si poneva lou palhasot (il materassino): in sac de tèila (un sacco di tela) a righe, riempito di foglie di faggio e foglie di granoturco, oppure di lana.

Il neonato veniva coperto con un petsoet leinsuve de tèila d’meizoun (un lenzuolino di tela di canapa) e qualche copertina di lana. (Ivana)

L’ABBIGLIAMENTO

Dopo che il neonato era lavato ed asciugato si vestiva. Sul corpicino si metteva un camizín (camicino), poi ancora un altro camicino felpato o di flanella annodati dietro. Si procedeva quindi alla fasciatura. Su di un piano o sul letto si svolgeva un po’ la fèisa (fascia), sopra si metteva un mouletoun (mollettone di stoffa felpata, poi si metteva un pias quadrato (pezzo di tela fine della stessa misura del mollettone).

In tempi più recenti era usato anche un triangolino di tela fine per avvolgere il sederino e serviva da pannolino.

Si avvolgeva il bimbo prima con il pias poi con il mouletoun che venivano ripiegati sulle ginocchia; quindi si procedeva ad avvolgerlo nella fèisa (fascia) partendo dalle spalle se si fasciava con le braccia lungo il corpo oppure dalle ascelle se si lasciavano le braccia libere.

La fascia lunga circa 2 metri e mezzo si fermava legando i lacci che erano cuciti alla sua estremità. Usavano la fasciatura per tenerli al caldo e, si diceva, che i bambini sarebbero cresciuti con le gambe dritte.

LA BARTINA o LA BARTÓ

In testa si metteva una bartina o bartó (cuffietta) di tela rifinita spesso con un pizzo e si legava sotto il mento. Se era d’inverno, mettevano al bimbo una cuffia di tela fine a contatto con la cute e sopra una cuffia di lana che era generalmente lavorata ai ferri o all’uncinetto e confezionata in casa.

LOU PORTANFAN

Lou portanfan (il port-enfant) era una specie di sacco aperto con il fondo imbottito e il bordo nella parte superiore era arricchito e formava come una conca.

Deposto il neonato, la parte del sacco oltre i piedini veniva ripiegata sul bimbo fino al petto e i lembi laterali si annodavano. L’imbottitura sorreggeva il bambino il quale stava così al caldo.

Il portanfan era anche comodo per tenere il bimbo in braccio.

Fino a sei mesi circa i bambini erano completamente fasciati con le braccia lungo al corpo. Poi, continuavano a fasciarli, ma solamente dalle ascelle in giù lasciando le braccia libere. All’età di un anno o poco più gradatamente si toglievano le fasce per permettere al bambino più libertà nei movimenti. Lo fasciavano ancora la sera per farlo dormire più tranquillo.

Quando il bimbo era solo più fasciato dal busto in giù, la mamma per tenerlo al caldo gli metteva dei guantoni di lana che si chiamavano móufloes o mitènoes (muffole).

Tolte le fasce i bimbi cominciavano ad indossare i primi vestitini e le calze.

Sopra la pelle una maglietta di lana con una fascia più corta (si facevano tre o quattro giri intorno al busto) per reggere il corpicino.

Indistintamente sia i maschi che le femmine dall’età dei primi passi indossavano la roba (il vestitino) e delle tsaousoes (calze) di lana di pecora che le mamme o le nonne filavano in inverno.

Per reggere le calze le mamme confezionavano li dzacoutín (una specie di corpetto di tela che si portava sulla maglietta). A questo corpetto erano attaccati degli elastici con un’asola al fondo; alle calze si metteva un bottone che poi veniva passato nelle asole e le calze “tenevano su” (era una specie di reggicalze).

Sopra la roba (vestitino) mettevano un bel baveřèl (bavagliolo), se faceva freddo un tricô (golfino). Un foudâl (grembiulino) spesso senza maniche copriva il tutto. Non poteva mancare la cuffietta in testa.

L’ABBIGLIAMENTO FEMMINILE

Le bambine dai sette – otto anni in poi e le donne indossavano la roba (il vestito) di sarda (tela di canapa): la gonna lunga fino ai polpacci o alle caviglie era molto ampia ed arricciata in vita. La parte superiore era aderente al busto e abbottonata davanti.

Ornava il vestito delle bambine un grosso colletto, molto spesso bianco fatto all’uncinetto.

Per ripararsi dal freddo indossavano lou tricô, ma in tempi più lontani vi erano esclusivamente li shal e le mantélinoes, gli scialli e le mantelline fatte all’uncinetto.

Sopra il vestito indossavano lou foudal (il grembiule) completo ma senza maniche oppure solo a vita.

Sotto il vestito indossavano lou fourô (la sottoveste), sotto ancora la flanèla (la maglia intima)e a contatto con la pelle la tsémiza (la camicia).

Le mutande con un pezzo di gamba erano rifinite in fondo con un volant guarnito di pizzo.

Le calze lunghe erano di lana lavorate in casa e tenute su con le lèintsamboes (giarrettiere appena sopra il ginocchio). Le lèintsamboes erano fatte con un elastico cucito a cerchio largo circa due centimetri.

L’ABBIGLIAMENTO MASCHILE

I ragazzi vestivano calzoni corti alla zuava con calzettoni di lana oppure pantaloni lunghi di drap o pantaloni di pèl de diablo (pelle di diavolo): erano fatti con una stoffa grigia consistente.

Indossavano la flanèla (maglia sulla pelle), la tsèmiza d’tèila d ‘meizoun (la camicia di tela di canapa), spesso dei tricô (golf) e dei courpët (gilé). Li tricô erano molto pesanti di lana di pecora.

Le mudandoes (le mutande) corte o lunghe di tela d’estate e d’inverno lunghe di lana.

In testa in inverno i ragazzini più piccoli portavano lou bartìn o la calota (bettero con la benò – visiera) la mettevano i più grandicelli. Altri, sempre o solo per la festa portavano lou tsapèl (il cappello).

LA TÈILA D’ MEIZOUN

Per fare la tela in casa, si coltivava lou tséneivo (la canapa). Si tagliavano gli steli, si mettevano a bagno in una specie di stagno (lou nées), per un po’ di tempo.

Poi si blouiavoun: si rompevano gli steli per togliere la rista (i filamenti) che venivano poi usati nelle varie lavorazioni per fare la tela. Quello che restava degli steli (dzandévelh) veniva usato per accendere il fuoco.

LE CALZATURE

Quando il bambino iniziava a muovere i primi passi, gli mettevano le prime scarpine (tsousìe): scarponcini alti in cuoio per reggere le caviglie; in inverno portavano gli zoccoli per tenere asciutti i piedi. Il bambino andava poi a scuola con gli zoccoli oppure le bambine calzavano scarpe alte (tsousìe viôi – stivaletti fino ai polpacci). Erano legate con courioes (stringhe) passate ed incrociate nei croudzët (gancetti).

Queste calzature erano fatte tutte allo stesso modo e fatte dai calzolai di Giaglione o acquistate al mercato. I ragazzi oltre ai sépoun, calzavano scarponi (scarpoun) anch’essi con i chiodi sotto le suole.

Li sepoun (gli zoccoli) si acquistavano al mercato o si ricavavano dagli scarponi che avevano la suola consumata. Si portavano le tomaie dal calzolaio del paese che attaccava la tomaia ad una suola di legno.

Le suole le fabbricava lui stesso. Possedeva le forme della misura del piede. Sotto la suola di legno si metteva una piccola suola di gomma per non scivolare. Antecedentemente lou soucoulée (lo zoccolaio) sotto la suola di legno piantava tanti chiodi (le brotsoes).

  • Lhët: anelli per far passare i lacci

  • Courioes: lacci

  • Tidza: tomaia

  • Sola: suola in legno

  • Brétsetoes di sepoun: chiodini che univano la suola alla tomaia

  • Sola de goma: suola di gomma

  • Guarnizione in metallo per salvare la punta

  • Bordino nero che si applicava tra la suola e la tomaia

LA NOSTRA SCUOLA

La scuola elementare di Giaglione è situata in piazza Europa, in regione Breida. È abbastanza recente, la sua costruzione infatti è terminata nel 1963.

Gli scolari hanno fatto il loro ingresso nel novembre del 1963 e hanno lasciato le aule situate nell’antico edificio del palazzo comunale.

La nostra scuola ha quattro aule ubicate su due piani. Attualmente la frequentano 22 alunni divisi in due pluriclassi: classi prima e seconda con 9 alunni; classi terza, quarta e quinta con 13 alunni. Fino all’anno scolastico 1989/90 le insegnanti erano tre; con l’introduzione dei moduli le insegnanti che operano attualmente sono quattro: due impegnate sul primo ciclo e due sul secondo ciclo.

L’orario si svolge tutti i giorni dalle ore 8.30 alle ore 12.30 con due rientri pomeridiani al martedì e al giovedì, dalle ore 14 alle ore 16.

L’ÈICOLA UNA VOLTA – IL VECCHIO EDIFICIO SCOLASTICO

Quando i nostri nonni e bisnonni erano bambini, la scuola di Giaglione era situata in Frazione san Giuseppe, nei locali della Casa Municipale.

Verso i primi anni del 1900, quando le scolaresche erano molto numerose, le aule utilizzate erano tre (a Giaglione a quei tempi si frequentava solo fino alla terza, per proseguire negli studi bisognava recarsi a Susa). Qualcuno ricorda che non essendo sufficienti le aule, veniva utilizzato un locale nella casa adiacente la scuola (era la casa del Podestà).

Dagli anni ’50 in poi, diminuita la popolazione, le aule utilizzate nei locali del Municipio sono state due: una al piano inferiore per le classi I e II e l’altra al piano superiore per le classi III, IV e V.

Tali locali sono stati frequentati fino al 1963, dopo le scolaresche si sono trasferite nella scuola nuova in Regione Braida.

L’ARREDO SCOLASTICO

L’arredo scolastico era povero, ma vi era l’indispensabile.

Il pavimento era costituito da pos (assi di legno).

I banchi (li ban) erano di legno, alti e pesantissimi, erano a due o, quelli più vecchi a tre posti. Il piano d’appoggio era inclinato e sotto vi era uno scomparto che serviva a riporre la cartella.

Sul bordo del banco in alto vi era una scanalatura che serviva per appoggiare le matite e la penna. In alto a destra c’era un buco in cui si infilava il calamaio; i banchi più recenti con il rivestimento in formica avevano il calamaro incorporato.

Le sedie erano anch’esse di legno e fisse alla pedana del banco. Quando le classi erano numerose, nell’aula vi erano 4 o 5 file di banchi uniti tra loro e ben allineati.

Al centro dell’aula di fronte agli alunni si trovava la cattedra o scrivania della maestra. Era in legno, fissa su un piedistallo per fare in modo che la maestra potesse vedere tutta la classe stando seduta. La sedia in legno era anch’essa fissa al piedistallo.

In un angolo vicino alla cattedra c’era la lavagna. Era quasi uguale a quella che abbiamo ancora oggi in classe: ribaltabile e con il supporto in legno.

Ogni aula era riscaldata da una grossa stufa di ghisa a legna. La legna veniva procurata dal Comune (si raccoglieva nei boschi comunali delle Salèintsoes) e segata dal Messo comunale.

In genere si aveva sempre un po’ freddo perché la legna non era abbastanza secca, quindi non ardeva.

Il compito di accendere la stufa, dice il signor Bernardo, era degli studenti, ossia il primo che al mattino arrivava a scuola, oppure si facevano i turni.

Sempre a turno era compito degli alunni fare la pulizia dell’aula.

Se la legna procurata dal Comune fosse stata insufficiente, i bambini oltre alla cartella portavano a scuola dei pezzi di legno o fascinette di sarmenti per stare al calduccio.

Nell’aula esisteva un armadio di legno dove la maestra custodiva i quaderni di bella ed i suoi libri.

Appeso al muro sopra la cattedra vi era un quadro con la fotografia del Re e della Regina, sostituita poi dalla fotografia del Duce.

Sopra la porta era appeso il Crocifisso.

Ad una parete la carta geografica dell’Italia.

IL CORREDO SCOLASTICO

Oggi…

Attualmente, ogni anno a settembre, all’inizio della scuola, gli scolari sfoggiano gli zainetti più belli, più colorati, più capienti, delle migliori marche, con tanti scomparti e tasche laterali.

30 anni fa…

quando andavano a scuola i nostri genitori, si usavano le cartelle in cuoio di colore naturale o colorate. Si usava la stessa cartella generalmente per tutto il corso della scuola elementare.

60 anni fa….

Al tempo dei nostri nonni le cartelle erano ben più semplici e di piccole dimensioni. Alcune non erano altro che cassette di legno con una cinghia in cuoio, costruite in casa dai papà. In inverno esse servivano anche da slitta!

Le usavano preferibilmente i maschi, mentre le bambine avevano una sacca di tela spessa bianca (la sarda) e poi tinta di colore a piacere. Questa sacca si chiamava taquetò.

Gli scolari più ricchi possedevano già la cartella di cartone robusto verniciato e di tela cerata.

LE TSOZËS QUE SERVIOUN A L’ÈICOULÉE CANQUE OU L’ALAVE A L’ÈICOLA :

Li scartaře

I quaderni

L’abétsedaře

L’abbecedario (in classe prima)

Lou silabaře

Il sillabario (in classe prima)

Lou lèivro

Il libro (come il sussidiario)

Lou portamatitoes

Il portapenne

Lou portaèindzo

Il porta inchiostro o calamaio

Din lou portamatitoes iavèt

L’èicrioun

La matita

La plumó

La penna

Li pénin

I pennini

La goma o le lamétoes

La gomma o le lamette

All’inizio della prima elementare fino a circa metà anno scolastico gli alunni scrivevano con l’èicrioun (la matita) (ma non come adesso che a metà si butta, allora si usava fino a consumarla completamente, fino a scrivere quasi con le dita).

La punta alla matita si faceva con il coltello (opinel).

Quando gli alunni avevano raggiunto un buon grado di sicurezza nella scrittura si passava a scrivere con la plumò (la penna). Nei tempi più antichi si scriveva con una penna di gallina intinta nell’inchiostro.

Successivamente la penna era un pezzo di legno in cui si infilava un pennino.

Il pennino si intingeva nel calamaio in cui c’era l’èintso (inchiostro).

Quando scappava una macchia sul quaderno si asciugava con la carta assorbente e si cancellava grattando con il temperino (coltellino) o con una lametta da barba. Successivamente con la gomma. Quando si bucava il foglio si strappava, ma il più delle volte a rompersi era il pennino perché gli alunni erano soliti giocare con gli stessi per farsi gli scherzi, a volte anche pericolosi.

Vi erano svariate forme di pennini, che venivano usati a seconda del tipo di calligrafia.

Gli alunni diligenti nel riporre il pennino facevano attenzione a non romperlo e lo asciugavano con cura.

Gli alunni scrivevano sugli scartaře (i quaderni). Generalmente possedevano tre quaderni: uno a righe per scrivere, uno a quadretti per fare di conto e uno per la calligrafia (bella scrittura).

Il portapenne – lou portamatitoes era una scatoletta rettangolare in legno e conteneva l’indispensabile: la matita, la penna, la gomma, i pennini. Aveva un coperchio scorrevole che a volte serviva anche come righello, all’interno della scatola vi erano 2 o 3 piccoli scomparti. Molti di essi venivano costruiti in casa.

Mio nonno aveva un portapenne costituito da un tubo in legno: poteva essere la corteccia svuotata del sambuco oppure bambù o canna. Era chiuso da un coperchietto di ottone. (Barbara)

I colori si mettevano in un sacchettino di tela (taquetò).

LI LÈIVRO

Nella classe prima il primo libro usato era l’abétsedaře (abbecedario): era praticamente un presillabario in cui venivano presentate tutte le lettere dell’alfabeto.

Noi alunni, nelle nostre case, in fondo ai vecchi bauli, abbiamo trovato questo libro e tanti altri usati nelle scuole elementari.

  • Titolo: “Albe radiose” anno 1897

  • La gioia dei bambini” costo L. 1,80

Sempre nella classe prima seguiva lou sillabaře (il sillabario)

  • In cammino, fanciulli” (sillabario moderno) L.1,80

Dalle interviste è risultato che nelle altre classi si possedeva esclusivamente un libro per tutte le materie, ma noi abbiamo trovato soprattutto libri di lingua italiana:

  • I mesi dell’anno” – letture per la classe seconda stampato nell’anno 1891

  • Per essere promosso” – avviamento al comporre e grammatica per gli alunni della classe terza.

  • Voci nuove” – letture di antologia per la terza classe elementare – ed. Mondatori – anno 1928

  • Il buon italiano” ad uso della III classe elementare in conformità dei Programmi e delle Istruzioni ministeriali 29/11/1897. Le materie erano: educazione morale, doveri e diritti, storia, geografia, nozioni pratiche varie, composizione orale e scritta.

IL COMPORTAMENTO A SCUOLA

L’èicoulée ou devèt arivée per tèn a l’èicola, ou devèt èitre bèn bitâ, poulît, ourdinâ, bèn pinâ, les oungloes talhâ, avée tot lou netsésaře din la cartèla.

L’alunno doveva arrivare in orario a scuola, doveva essere ben vestito, pulito, ordinato, ben pettinato, le unghie tagliate, avere tutto il necessario nella cartella.

Se per caso gli alunni arrivavano a scuola con le mani sporche la maestra li mandava a lavarsi con del sapone mescolato a della sabbia. (Carla)

Quando di entrava in classe, si stava in piedi, composti fino a quando l’insegnante, che era già in classe, non faceva cenno di sedersi. Il saluto era: “Riverisco, signora maestra”.

(Luca)

Gli alunni dovevano stare composti nel loro banco, non chiacchierare ed ubbidire. (Chiara)

Gli alunni dovevano prestare molta attenzione, essere educati; non potevano alzarsi dal banco senza chiedere il permesso. (Diego)

Le maestre erano molto severe e gli alunni avevano quasi paura. (Carla)

Durante le lezioni gli alunni stavano in silenzio e non si permettevano di ribattere durante le spiegazioni, né tantomeno contestare i compiti che assegnava la maestra. (Manuela)

IL PREMIO

Quando gli alunni si comportavano particolarmente bene, venivano premiati con la medaglia.

Mia nonna Benedetta ricorda alcuni tipi di medaglie:

  • una era a forma di stella e portava la scritta “Regno d’Italia”

  • un’altra era rotonda con al centro l’immagine del RE

  • un’altra ancora recava la scritta “al merito”

La medaglia era dorata ed era abbellita da un nastrino tricolore; dietro una piccola spilla permetteva di puntarla sul petto. (Ilenia)

Ricevere la medaglia era un vanto; essa veniva sfoggiata anche alla domenica andando a Messa.

Dopo alcuni giorni si restituiva alla maestra che la dava in premio ad un altro alunno meritevole. (Monica)

PUNIZIONI E CASTIGHI

Quando gli alunni non rispettavano le regole di comportamento o non si impegnavano nello studio venivano spesso puniti:

  • con voti o giudizi negativi

  • note sul quaderno o sul registro

  • richiami orali

  • mandati in castigo dietro alla lavagna

  • in ginocchio con le braccia in alto

  • in ginocchio su un pezzo di legno

  • in piedi con le braccia alzate

  • con bacchettate sulla punta delle dita

  • tirate d’orecchie

  • qualche sberla

  • venivano mandati fuori dall’aula (all’aperto)

Se un alunno non avesse studiato la lezione, spesso era costretto a rimanere chiuso in classe da solo a studiare nell’intervallo del pranzo (dalle 12 alle 14)

Chi non sapeva le tabellone era punito con dei “pensi”. A casa per il giorno successivo l’alunno doveva magari riempire mezzo quaderno di conticini…per ripassare le tabellone.

Sin dalla prima esistevano le bocciature, era anche possibile ripetere più volte la stessa classe. (Gli alunni di V)

LA SCUOLA A GIAGLIONE DAL 1900 AD OGGI

Dalle testimonianze orali e dai documenti scolastici degli alunni (pagelle ed attestati) è risultato che:

dal 1900 al 1915 circa, a Giaglione, c’erano le classi dalla prima alla terza elementare ed era obbligatorio frequentare.

Si conseguiva così il compimento del corso elementare inferiore.

Dalle testimonianze è emerso che si andava a scuola a sette anni, mentre le disposizioni della legge 15/7/1877 e del Regolamento 9/10/1895 prescrivevano l’iscrizione alla classe prima a sei anni. Dal confronto di alcune pagelle, nello stesso periodo, c’era chi andava a scuola a sei anni, altri a sette.

Un attestato certificava il proscioglimento dell’obbligo scolastico della istruzione elementare inferiore (di norma quindi a nove anni).

Dopo non era più obbligatorio frequentare in quanto non vi erano altre classi nel Comune.

Gli alunni che intendevano proseguire gli studi, dovevano recarsi a Susa dove frequentavano le classi quarta, quinta e sesta e conseguivano così il grado di istruzione elementare superiore ed erano dichiarati idonei al lavoro.

Negli anni 1913-14-15 a Giaglione vi era anche una scuola privata in frazione Catena. Essendo molto numerose le classi di Susa, non c’era più posto per gli alunni di Giaglione che avevano completato il grado inferiore e volevano proseguire.

Il Consiglio comunale si è incaricato di trovare un locale da adibire ad aula, mentre la retta da pagare era a carico delle famiglie. Il maestro era il professor Vercellin Antonio di Susa.

Alla fine dell’anno scolastico, gli alunni dovevano sostenere l’esame a Susa.

Dopo il 1915 a guaglione furono istituite anche le classi quarta, quinta e sesta e restarono in vigore fino agli anni 1929/30 (non sappiamo con precisione).

Dal 1930 circa è stata abolita la classe sesta con una nuova riforma della scuola. Nello stesso tempo, a Guaglione restavano le classi fino alla quarta elementare e chi intendeva frequentare la quinta, si recava a Susa. Tutti andavano a piedi al mattino, si fermavano a Susa per il pranzo e la sera ritornavano a casa.

Dai primi anni ’50 la classe quinta venne nuovamente ripristinata a Guaglione e tale situazione permane tuttora.

I BISNONNI E I NONNI SI DEDICAVANO SIN DA PICCOLI AI LAVORI AGRICOLI…A VOLTE ANCHE TRASCURANDO LA SCUOLA

Tutti frequentavano, ma non costantemente; la scuola era spesso considerata un lusso. Le famiglie numerose, i lavori dei campi, il pascolo impegnavano completamente le giornate dei più piccoli.

La grande necessità obbligava i genitori a far lavorare tutti e solo nei mesi invernali potevano frequentare la scuola. Ma quando la neve lasciava il posto alla primavera, i piccoli scolari riprendevano il loro lavoro: guardavano i fratellini più piccoli, andavano al pascolo per intere giornate e molti andavano a “servizio”, ossia sotto padrone. Tutto per avere qualche soldo in più e una bocca in meno da sfamare. (Monica)

I bambini ed i ragazzi venivano mandati nelle famiglie “ricche”, che possedevano tanta terra; venivano assunti come pastorelli, bambinaie, aiutanti nei lavori domestici. Li mandavano a servizio anche all’età di otto anni. (Ivana)

I maschi venivano mandati a lavorare alle dipendenze, all’età di 12-13 anni e svolgevano mansioni di qualsiasi tipo e quando non trovavano lavoro in vallata erano costretti ad emigrare all’estero. (Fabio)

Mia nonna Rosina mi ha raccontato che il mio trisnonno Francesco all’età di 10 anni non è più andato a scuola perché era morto suo papà Luigi.

Per aiutare la famiglia andava a lavorare: con gli zoccoli scivolosi portava sulle spalle la calce e le pietre attraversando la Dora e poi su per un sentiero ripidissimo (di fronte a Giaglione).

Faceva il manovale e portava questo materiale per la costruzione dei ponti su cui sarebbe passata la linea ferroviaria To-Modane. Il padrone lo sgridava perché cadeva sempre e lui con il suo primo stipendio ha poi comprato un paio di scarponi. (Ivana)

Invece i genitori di mio bisnonno Ettore, lo mandavano a scuola, ma lui non ci andava più perché non aveva voglia (aveva già ripetuto quattro volte la classe I e poi senza essere promosso l’avevano passato alla classe II). Invece di frequentare la scuola, in gran segreto, andava a lavorare con i muratori che gli promettevano di pagarlo, ma…lo devono ancora pagare adesso!!! (Ivana)

La mia bisnonna ha frequentato solo la terza elementare e poi è andata in montagna a pascolare le mucche e le pecore al servizio di una famiglia.

La sera, finito di pascolare e dopo aver messo le mucche nella stalla, la padrona la mandava alla fontana a lavare lou couloe (tela per colare il latte) e le diceva di sbrigarsi. La mia bisnonna, lavata la tela, tornava a casa, la padrona spesso la rimandava a lavarla più volte dicendo che non era abbastanza pulita e di fare in fretta così da grande lei sarebbe diventata una donna lesta. (Barbara)

I più grandicelli aiutavano nella semina delle patate, cominciavano a tagliare il fieno con la falce, aiutavano a dare l’acqua alle viti, nella mietitura e i più giovani all’età di 7-8 anni andavano al pascolo. Alcuni per aiutare i genitori, finita la scuola nei mesi estivi andavano presso i margari: guadagnavano quel poco e tante volte erano pagati solo con burro e formaggio.

I ragazzi di 13-14 anni alavoun an dzournâ (lavori giornalieri) presso le famiglie che avevano bisogno di manodopera. Con qualche spicciolo in più potevano comprare l’indispensabile per vestirsi e calzarsi. (Manuela)

Mia nonna Ernesta ha smesso di andare a scuola perché doveva pascolare le pecore, andare a prendere l’acqua alla fontana, portare il letame con lou gratin, andare a tagliare l’erba con lou voulam. (Chiara)

All’inizio dell’autunno quando le mucche tornavano dagli alti alpeggi, non venivano portate subito a Giaglione, ma venivano lasciate nelle stalle di mezza montagna di Vèrtsaouře, le Dariouinoes, Bouzinhera, Fountanî. I bambini con le loro mamme abitavano là fino alla prima neve (verso i Santi) e le aiutavano a pascolare. Se la località era molto distante i bambini non frequentavano la scuola fino ad autunno inoltrato, se la località era più vicina, i bambini scendevano al paese per andare a scuola e facevano ritorno al termine delle lezioni. (Diego)

Alcuni ragazzi andavano a fare delle “giornate” con i muratori, altri alle dipendenze dei margari in prevalenza al Moncenisio o nella zona di Lanslebourg. (Carla)

Dall’intervista al sig. Ferrando Bernardo (cl. 1905)

A tredici anni cominciai a lavorare a Susa, facevo l’idraulico fumista, cioè aggiustavo stufe e fui uno dei più fortunati a trovare lavoro e guadagnare qualche soldo. Prendevo come stipendio 2 lire al giorno, 10 lire alla settimana. (Diego)

Mia nonna Gemma mi ha raccontato un episodio della sua vita.

Mia nonna Gemma e sua sorella, ancora bambine, erano andate a pascolare le pecore. Era primavera, faceva abbastanza caldo, loro bambine avevano ancora molta voglia di giocare, quindi, giunte nel prato, si sono distratte nel gioco e non si sono accorte che era già tardi e che una pecora era sparita. Dopo varie ricerche, sono tornate a casa, sperando di trovare la pecora nella stalla, purtroppo non c’era.

Logicamente si sono prese una bella sgridata dalla mamma.

L’indomani mattina presto, non si sono fatte chiamare per svegliarsi, assillate dal pensiero della pecora smarrita. Si sono messe in cammino, fiduciose di ritrovarla e hanno raggiunto la baita di Val Clarea. La pecora, era proprio lì che brucava tranquillamente l’erba, loro stanchissime ma gioiose di averla ritrovata. (Fabio)