A volte, presi da chissà quale impeto, sopraffatti da qualche energia, crediamo che il mondo sia ai nostri piedi, in ascolto, pronto ad soddisfare i nostri desideri, a piegarsi alla nostra volontà. Ma ci si ritrova presto a tirare pugni in aria, guardandocisi attorno. Di fronte all’effimera volontà dell’uomo di dominare la realtà si pone poi un fattore, il tempo, dimensione talmente vasta e al di là della nostra comprensione da far venire subito la voglia di rimettersi le mani in tasca, o sulle ginocchia, e riflettere. E basta poco per accorgersi di essere gli ultimi, che tutto è già stato sperimentato, vissuto e posto alla ragione. Una ragione che appartiene ad un ente che percepisce e sperimenta l’esistenza, in una dimensione temporale finita, cercando di comprenderne il senso ed operando delle scelte. E se l’essere fosse al di là del tempo e come sostengono alcuni, lo stesso tempo non esistesse e fosse soltano una nostra percezione? Le mani stringono le cosce... davvero non ci è dato sapere?
Del rapporto fra l’essere e il tempo ha scritto il filosofo Martin Heidegger in varie opere, fra le quali, giustamente, Sein und Zeit (Essere e tempo). Il suo pensiero parte da un semplice assunto: per comprendere il senso dell’essere, occorre entrare nel campo dell’ontologia, lo studio dell’essere, e passare necessariamente attraverso lo studio di quell’ente che è l’uomo, che Heidegger chiamava Esserci (Dasein). L’Analitica esistenziale, l’analisi del modo dell’essere dell’Esserci, è l’unica strada, secondo Heidegger, per giungere alla determinazione di quel senso dell’essere che è il termine finale dell’ontologia. Poiché la sua esistenza è caratterizzata dalla capacità di porre il problema dell’essere e dalla possibilità d’essere. “L’Esserci è sempre la sua possibilità”, l’esistenza non una realtà fissa e predeterminata, ma un insieme di possibilità fra le quali l’uomo deve scegliere. L’uomo è ciò che “ha da essere” ciò che è, in quanto, come possibilità, è ciò che egli stesso sceglie o progetta di essere. “Ex-sistere”, dunque, significa trascendere la realtà in vista della possibilità. L’alternativa è fra autenticità e inautenticità, che il filosofo tedesco argomenterà ampiamente nella sua opera, partendo da questa affermazione: “Appunto perché l’Esserci è essenzialmente la sua possibilità, questo ente può, nel suo essere, o ‘scegliersi’, conquistarsi, oppure perdersi e non conquistarsi affatto o conquistarsi solo ‘apparentemente’”.
Stringendo il cerchio, l’uomo, secondo Heidegger, è legato alla propria finitudine e si trova, “in cospetto della nudità del suo destino”, di fronte alla radicale nullità dell’esistenza. Scrive egli: “Noi concepiamo la morte come la possibilità già chiarita dell’impossibilità dell’esistenza, cioè come la pura e semplice nullità dell’Esserci”. Egli è un progetto-gettato nelle varie dimensioni del tempo. L’esistenza è in primo luogo un essere possibile, un progettarsi in avanti che non fa che cadere all’indietro, su ciò che l’esistenza è di fatto. Ma in una temporalità che, in termini filosofici, è il senso dell’essere dell’Esserci, che egli chiamava Cura, intesa come totalità delle determinazioni dell’essere dell’uomo e struttura fondamentale dell’esistenza. Così il tempo non si aggiunge all’esistenza, cioè all’essere dell’uomo. “L’Esserci è tempo, o meglio, la temporalità è ciò che rende possibile l’Esserci nella totalità strutturale delle sue determinazioni. L’uomo, infatti, ‘esiste’ storicamente e temporalmente non perche vive ‘nel’ tempo o in una storia che lo condiziona dall’esterno, ma perché propriamente l’essenza dell’ ‘esserci’, la sua ‘ex-sistenza’, è un ‘temporalizzare’, un dispiegarsi nelle dimensioni temporali, il passato, il presente, il futuro, nell’orizzonte delle quali si colloca e spiega la comprensione dell’essere”. La storicità si configura infine, nella visione del filosofo, come “ripetizione” e “destino”, ossia come assunzione consapevole dell’eredità del passato e come fedeltà alle possibilità tramandate.
È vero, il tema è complesso e legato, come si è visto, a quello della storia, risultato inevitabile del rapporto fra l’essere e il tempo. Secondo lo storico Franco Cardini, “La storia è una rete fatta di fila che si annodano fra loro, e ad ogni nodo si può prendere una strada piuttosto che un’altra. In fondo, c’è tutto in questa rete. Il problema è che si devono operare delle scelte”. La storia è dunque il risultato del passato, presente e futuro uniti in una trama... di un solo tappeto. A ciò, a sua volta, è legato il tema della strategia fra passato e futuro. Spiega Dario Fabbri, esperto in geopolitica: “La strategia è l’elemento centrale per guardare al futuro, quella parte di pensiero, non soltanto legata alla geopolitica, ma centrata su di essa, che va oltre la contemporaneità. Ma ha una caratteristica peculiare: non va soltanto oltre la contemporaneità, la salta totalmente. La strategia, e dunque lo stratega, non si occupa del presente. Egli è fisso sul passato, mentalmente, poi fa un salto carpiato e si ritrova nel futuro. In che modo? Lo stratega non è lo stratega militare. Tutto ciò che afferisce al militare è pura tattica, perché l’arte bellica è presente, è contemporaneità. Mentre la strategia è molto di più. Lo stratega è un individuo che può svolgere qualsiasi mestiere, ma che, in uno specifico momento di valutazione, immagina che cosa deve capitare alla sua collettività per trasferirsi nel futuro. Lo stratega pensa al suo contesto, non solo, ce l’ha addosso. Egli vive dentro di sé la storia della sua collettività, riconoscendone tutto ciò che è stato ed immaginando di andare oltre sé stesso ed oltre il presente. La strategia non conosce tempo, è totalmente asincrona e anacronistica. Essa immagina, nel suo momento più alto, forse, che cosa è importante e che cosa irrilevante. Taglia la realtà. E non conosce sovrastutture, non le prende mai in considerazione. Lo stratega conosce solo struttura, è convinto che attraverso i tempi la collettività rimane identica, se non cambia la cifra antropologica”.
L’esempio che ne fa Dario Fabbri è da sedersi sulla paglia, come un tempo (ma neanche poi tanto), quando di sera ci si raccoglieva nella stalla e si passava del tempo assieme, e ascoltare: “Ellesponto (i Dardanelli), confine classico fra l’Europa e l’Asia Minore. Nel 480 a.C. due signori si guardano negli occhi: sono Serse, l’imperatore di Persia, e il suo principale consigliere Artabano, zio del medesimo. Stanno puntando all’Europa, vogliono sconfiggere i greci, i loro nemici classici. Non possiedono una grande conoscenza del mare. Serse ha stabilito che si dovesse costruire un ponte di barche per attraversare lo stretto. ‘Mettetele una dietro l’altra, legatele fra di loro, che io e la mia corte le attraverseremo a piedi’. Si trattava di una distanza di più di un chilometro, nella parte più stretta. Al primo tentativo le barche vengono rovesciate dalle onde. Serse ordina la ‘flagellazione del mare’, cioè dà ordine ai suoi di prendere letteralmente a frustate le onde. Ma impone che il ponte sia ricostruito, dopo tale spreco di imbarcazioni. È pronto a passare l’Ellesponto. Serse è convinto che questa immensa opera d’ingegneria idraulica spaventerà talmente tanto i greci che si arrenderanno senza combattere. ‘Chi può resistere’, dice Serse, ‘ad un uomo che cammina sulle acque?’. ‘Nessuno’, si risponde da solo. Ma Artabano gli dice: ‘Beh no, stiamo sprecando un sacco di energie umane e materiali e non si impressionerà nessuno. Non solo, se perdessimo la battaglia, i greci potrebbero fare il percorso a ritroso. Farebbero un ponte, se noi non lo distruggiamo, o non sciogliamo le navi’. Serse guarda suo zio e gli dice: ‘Fosse per te non faremo mai niente, saremmo condannati all’inerzia, o all’apatia, mentre il mondo scorre’. Artabano gli risponde: ‘Il punto è valutare tutto ciò che succede e che è succeso. Ricordati di Maratona’. E soprattutto gli dice, ed è il punto decisivo di questa storia: ‘Pensa al futuro’. Improvvisamente Serse scoppia in lacrime. L’imperatore di Persia piange come un qualsiasi essere umano davanti al suo consigliere. Egli gli chiede perché e Serse risponde: ‘Perché fra cento anni tutti i miei soldati saranno morti’. ‘E quindi?’, risponde Artabano. ‘E quindi adesso o mai più!’. Parte, attraversa. Erodoto racconta di un attraversamento che dura tre notti e tre giorni, con tutta la sua corte e i militari. Si ritrova in Europa, dove va incontro alla disfatta”.
Conclude l’analista: “Serse è il tattico, vive nel presente. Mentre lo stratega valuta tutte le variabili, e quindi è tendenzialmente immobile nel presente. Perché quando si fa ciò ogni movimento fatto è errore. Il tattico si lancia, vive solo per i contemporanei. Al contrario, lo statega vive per gli antenati e i posteri. Nello scontro dialettico sui Dardanelli – in una giornata che Erodoto racconta come molto ventosa – c’è la differenza fra strategia e tattica. Il tattico è un tecnico d’area, conosce il suo campo. Lo stratega fissa gli obiettivi d’ultima istanza. Il tattico li deve realizzare nel presente, poverino, è un mestieraccio. E deve farlo adesso, con i mezzi che ha a disposizione. Se lo stratega deve variare, dall’antropologia a tutte le forme d’arte, alla psicologia, alla storia, all’arte bellica, mediamente il tattico no. Ma lo stratega non interviene sul campo di battaglia direttamente. Lo stratega ha una vertigine, un’intuizione, un guizzo per cui immagina il futuro con il presente dietro le spalle e soprattutto addosso al passato. Vede la sua collettività e dice: ‘Fra trent’anni, fra cinquant’anni dobbiamo fare questo, per essere o una grande potenza, o sopravvivere semplicemente’. Pensa alla narrazione, che è un strumento strategico. Toglie tutto ciò che non conta e va oltre”.
Non si tratta di ghiribizzi o fantasie di qualcuno, ma del racconto storico resoci da Erodoto e di profonde riflessioni su uno dei temi più affascinanti di sempre e centrale riguardo all’esistenza per darci una traccia, una via per interpretare il reale. Sono assolutamente convinto che l’uomo, poiché ne è capace, abbia un grande bisogno di “volare alto”, di indagare in profondità il proprio essere, di riscoprire un sano esistenzialismo, come certamente fece Heiddeger e per fortuna qualcuno già molto tempo prima di lui, di indagare i massimi sistemi. Il quale è dovuto, nel nostro caso, anche solo per parlare di queste tematiche in lingua d’oc, non come amusement, ma come mattone, come progetto. Se la verità coincide con il disvelarsi dell’essere (e non dell’Esserci), ciò presuppone che l’uomo si apra all’essere e si renda disponibile per esso, misurando la verità della sua conoscenza mediante la conformazione di essa alle cose esistenti. “La libertà si scopre così come ciò che ‘lascia essere’ l’ente”. Per l’uomo essere libero significa “abbandonarsi allo svelamento dell’ente come tale”. Ciò che, secondo il filosofo tedesco, è un dono, anzi, il “dono preliminare”, dell’essere all’uomo, per essere lui stesso quell’ente che è e trovarsi ricompreso nella verità dell’essere. Lasciare la corda, senza tornare in uno stato di” deiezione” (la caduta dell’essere dell’uomo al livello delle cose del mondo, dove l’essere è celato a sé stesso), ritornando “all’indietro”. Vedere, e abbandonarsi a quel dono.
“Ora, mentre gli altri Persiani se ne stavano in silenzio e non osavano manifestare un’opinione contraria a quella proposta, Artabano, figlio di Istaspe, zio paterno di Serse, in ciò appunto confidando, parlò in questo modo: «O re, se non si esprimono dei pareri contrari tra loro, non è possibile, facendone una scelta, adottare il migliore. È giocoforza attenersi a quello che è stato proposto; invece è possibile farlo quando questi pareri siano stati manifestati come per l’oro: non possiamo riconoscere quello che è puro guardandolo isolatamente, ma quando lo passiamo sulla pietra di paragone accanto ad altro oro, allora sí che possiamo distinguere il migliore”.
Erodoto (VII, 10)
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