Brava valle Maira! Operazione di comunicazione riuscita con il dono dell’abete rosso (lo sap in occitano) che, assieme al presepe, illustra il Natale in Piazza San Pietro. Un simbolo pagano (l’albero) accanto a un simbolo cristiano (il presepe): bell’esempio di sincretismo e tolleranza che, visti i tempi, non è mai troppa. Sui giornali si è parlato diffusamente di Macra, il piccolo comune della valle da cui proviene l’abete. Valeva forse la pena ricordare, vista la sacralità della ricorrenza, che Macra è il nome italiano, mentre il nome autentico, quello occitano, è L’Armo, o L’Arma, che vuol dire “anima”, nome che, vista l’occasione, avrebbe richiamato quella dimensione spirituale e intima, che il Natale di Babbo Natale, purtroppo, non ci regala così spesso. Ma questi sono i danni della toponomastica, che reinventa i nomi dei luoghi, quando non li traduce stravolgendoli. Qualche esempio: una borgata della val Chisone, Ser-vielh (trad. Serre Vecchio, per distinguerla da una borgata Serre di più recente insediamento), che in italiano è diventata Borgata Cervelli. La stessa val Maira per alcuni decenni fu “Valle Macra”. Maira (in occitano significa “magra”) dovette apparire poco elegante. Per non parlare di una montagna, sempre nelle Valli Occitane. Qui il topografo chiese al contadino locale: “Come si chiama quella montagna?”. “Sabou ren (trad.: non so) rispose il montanaro nel suo occitano, e la montagna sulle carte fu il Monte Saburen. Altri toponimi inventati di sana pianta ad uso turistico fortunatamente si stanno perdendo: come Valle Smeraldina (per la Valle Varaita), o Val Verde (per la Valle Grana). Possono apparire dettagli? Forse anche attraverso questi dettagli la montagna può riacquistare l’orgoglio della propria identità e della propria storia.
(“La Stampa”, 11-12-2023)
P.S.: L’intervento su La Stampa Cn dell’11 dicembre, poi ripreso su Fb, ha suscitato altre testimonianze sui “pasticci topografici”.
Il professore Tullio Telmon, dialettologo dell’Università di Torino, segnala che gli ineffabili toponomasti hanno italianizzato in Cervelli, una frazione di Coazze, nella francoprovenzale Val Sangone.
Enrico Crespo delle Frere (Paesana, valle Po) cita Ruà d'Amoun (trad.: Borgata di lassù, Borgata Soprana) nella toponomastica diventata Borgata Mattone dal piemontese moun, il mattone edilizio. Sempre a Paesana un cartello di nuova stampa indica la località L’adrit (trad.: versante a solatio) come ''La drit''.
Giorgio Burzio di Castellar in val Bronda scrive: “fra i danni provocati da topografi militari vorrei ricordare Soleglio Bue in valle Maira e in Valle Stura la Borgata Adrecchio, traduzione maldestra di Adrech (solatio).
Andrea Celauro della valle Stura segnala che una storia simile a quella del Saburen, l’ha sentita per il nome di un jaç. La stessa storia pare sia capitata a Vinadio al monte Nebius: i militari chiesero a un locale come si chiamasse tale montagna e lui rispose "ilai ent'es que i à les nebious?" (trad.: là dove gravano le nebbie?) e da lì fu il Nebius. Per i locali invece si chiama Li Founzet.
Di mio aggiungo a questa serie che si annuncia molto ampia, il Vallone degli Alberghi di Palanfrè in val Vermenagna. Alberghi da arberc (ossia meira, baita, malga, casa dell’alpeggio), arberc come si dice a Blins, val Varaita, e forse in altre valli. Ma arberc e alberghi perlomeno hanno (suppongo) la stessa radice. Benché un Vallone degli Alberghi in una valle turistica come la Vermenagna faccia immaginare decine e decine di hotel.
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