Nòvas d'Occitània    Nòvas d'Occitània 2023

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Nòvas n.235 Desembre 2023

Miracolo a Olovo

Miracle a Olovo

a cura di Peyre Anghilante

italiano

Tutto ciò che nasceva e viveva nella casa dei Bademlič era gaio, spensierato e sorridente. Solo Kata Bademlič, moglie del più anziano dei fratelli Bademlič, faceva eccezione. Era alta, ossuta, bionda, con occhi blu e uno sguardo freddo e scrutatore. Ventisei anni fa fu condotta nella ricca e grande dimora e da allora era diventata, di anno in anno, sempre più chiusa, sofferente e silenziosa. Non era felice con il marito e non ebbe più fortuna nemmeno con i figli.

Il suo uomo, Petar Bademlič, il fratello più grande della ricca famiglia, si era sposato molto tardi. Si raccontavano molte storie sulla sua gioventù. E anche quando condusse qui Kata, pure invecchiato e ormai appesantito, aveva ancora nelle parole, nei movimenti e soprattutto nel sorriso, qualcosa di violento e di lascivo. Era un sorriso largo, ottuso e sensuale, che sulle facce scure dei Bademlič era come un marchio che non si poteva nascondere. In questo sorriso c’era qualcosa che aveva riempito Kata – che proveniva da una sana e vitale famiglia di Livanj – di paura e di nausea per tutto questi anni, fino a oggi.

Con i figli era ancora peggio. Nei primi dodici anni di matrimonio Kata aveva partorito nove bambini, quasi tutti maschi, ma tutti erano morti appena entrati nell’età più bella. Al decimo parto sopravvisse per un pelo. Da allora smise di partorire. L’ultimo nato era una femmina. Fino a sei anni la bambina crebbe regolarmente; era minuta, ma bionda e così dolce che tutti in chiesa si voltavano a guardarla. Assomigliava in tutto alla madre e alla sua sana famiglia di Livanj. Ma quando compì sei anni cominciò a cambiare e a imbruttire. Si piegò alle ginocchia e si curvò in vita, il volto le si indurì e le palpebre si gonfiarono. Così tutta curva, con le labbra sempre semiaperte, si trascinava da un divano all’altro, e per anni restò nelle ghiacce e buie stanze dei Bademlič come una disgrazia familiare e una punizione divina. Ora aveva sedici anni. Ma si sviluppava poco nel corpo e ancora meno nella testa. Non riusciva né a drizzarsi né a camminare se non era sostenuta da qualcuno. Parlava poco usando solo parole essenziali, ma pronunciate sempre in modo confuso e cupo. La vecchia Bademlič vegliava continuamente sulla ragazza: non permetteva a nessuno della servitù di avvicinarla, l’aiutava negli spostamenti, la nutriva, la lavava e la vestiva.

Aveva fatto tutto il possibile per cercare di guarirla. Dopo aver visitato medici e fattucchiere e aver provato tutte le medicine e tutto ciò che se ne sapeva in giro, dopo aver pagato invano per messe e preghiere, una volta giurò davanti all’altare della Madonna che in occasione dell’Immacolata avrebbe camminato scalza fino a Olovo per portare la figlia malata alla sua fonte presso il monastero.

Come tutti coloro che hanno sofferto molto e hanno visto intorno a sé molte morti, che vivono separati dal mondo e rinchiusi in sé stessi, Kata percepiva di più le forze del mondo invisibile e le sentiva più intime e vicine. Dopo quel voto aveva pregato ancora e a lungo e quando si era alzata aveva ripetuto la sua preghiera e la sua richiesta alla Madonna.

«Io non ce la faccio più. Fai qualcosa, ti prego: o la guarisci, o la prendi con te in paradiso come hai fatto con gli altri nove».

Alcuni giorni dopo questo voto lasciarono la casa dei Bademlič all’alba per andare in pellegrinaggio. La vecchia aveva portato con sé la cognata, una vecchia zitella butterata. Con loro erano partiti anche due servi per portare in braccio la giovane: non era possibile infatti issarla sul cavallo. Presero anche due cavalli in modo da garantirsi il viaggio di ritorno. Albeggiava mentre salivano sulle prime alture sopra Sarajevo. La ragazza, che fino a quel momento si era molto lamentata e aveva pianto, ora riposava tranquilla in un cesto fatto per l’occasione che i due servi portavano su due bastoni infilati ai lati. Stanca e inebriata dalla frescura mattutina ora dormiva, il capo appoggiato sulla spalla destra. Ogni tanto, a qualche fermata un po’ brusca, apriva gli occhi, ma vedendo sopra il suo orizzonte le foglie, il cielo e il rosso dell’aurora, li richiudeva di nuovo credendo di sognare e sorrideva con un sorriso dolce da bambino malato che si sta riprendendo.

A un certo punto la salita diventò meno ripida. Attraversarono i boschi lussureggianti per imboccare una strada più larga e meno in pendenza. Cominciarono a imbattersi in piccoli gruppi di gente dei paesini vicini. C’erano persone molto malate, che, messe come sacchi sui cavalli, gemevano e roteavano gli occhi. C’erano anche dei pazzi e dei violenti che i parenti cercavano di sostenere e tranquillizzare.

La vecchia Bademlič camminava davanti ai suoi, si faceva strada in mezzo alla gente e, senza guardare nessuno, pregava sgranando il rosario. I ragazzi con il loro pesante fardello la seguivano a fatica. Due volte si erano fermati a riposar in un bosco di faggi accanto alla strada. Sostarono poi per mangiare e stesero sull’erba un tappeto scuro facendovi sdraiare l’ammalata. Ella cercava di stirare le gambe addormentate e il corpo rattrappito quanto più poteva. Si spaventò alla vista dei piedi della madre, scalzi, lividi e sanguinanti per la lunga marcia alla quale non si era abituata. Ma la vecchia ritirò subito i piedi nelle dimije e la bambina, allegramente sconcertata dalle cose nuove intorno a sé, se ne dimenticò subito. Tutto era nuovo, diverso e gioioso: l’erba folta e scura, i faggi frondosi con i funghi come scansie sulla crosta argentata, gli uccelli che planavano sulle mangiatoie dei cavalli e l’ampio panorama con il cielo chiaro e le nuvole allungate che passavano lentamente. E quando il cavallo scuoteva la testa e gli uccelli si mettevano a volteggiargli intorno impauriti, la bambina, stanca e assonnata, sorrideva a lungo a fior di labbra. Guardava i ragazzi mangiare lentamente e con impegno e anche in questo trovava qualcosa di allegro e divertente. Lei stessa mangiò con appetito. Si allungava sul suo tappeto quanto più poteva. Scostando l’erba con la mano vide un fiore che qui si chiama «orecchio della vecchia», piccolo e rosso fuoco, come smarrito nella terra nera. Gridò per l’emozione, che per la stanchezza si era addormentata, si svegliò e glielo colse. L’inferma rimase a guardarlo a lungo e a odorarlo tenendolo sul palmo della mano, poi lo avvicinò alla faccia e al suo contatto vellutato e fresco chiuse gli occhi per il piacere.

Al crepuscolo arrivarono a Olovo. Intorno alle rovine del monastero e alla piscina coperta da cui proveniva il mormorio sordo del crepitare dell’acqua calda che sgorgava dalla fonte della Madonna, c’era tanta gente. Erano già stati accesi i fuochi, si cucinava, si arrostiva e si mangiava.

La maggior parte dormiva sullo spiazzo. In capanno di legno c’erano i posti per i più benestanti. Fu lì che si sistemarono i Bademlič. Le due donne si addormentarono subito. La bambina invece passò l’intera notte in dormiveglia, ammirando attraverso la finestra le stelle sopra il bosco scuro, tante quante mai ne aveva viste prima. Ascoltava le voci intorno ai fuochi che non si zittirono per tutta la notte; la risvegliavano di tanto in tanto il nitrire dei cavalli e il fresco della notte. Alla fine si addormentò, ma nel risentire le voci e il brusio, non riusciva a capire se stava sognando o se era ancora desta.

L’indomani mattina andarono presto alla fonte.

Prima bisognava entrale in una stanza bassa e semibuia in cui ci si spogliava. Le assi del pavimento erano bagnate e quasi marce. Addosso ai muri c’erano panche di legno per appoggiare i vestiti. Fatti tre scalini, si scendeva poi in una stanza più grande dove si trovava la piscina. Il tetto era di pietra, voltato, e sulla cima c’erano delle piccole aperture attraverso le quali entrava una strana luce a raggiera. I passi echeggiavano e la volta in pietra faceva aumentare e riecheggiare anche il minimo suono. Lo scroscio dell’acqua rimbalzava dalle pareti e, moltiplicato e ingrossato, riempiva tutto lo spazio. Per farsi sentire si doveva gridare. E anche queste grida si moltiplicavano sotto gli archi. Le esalazioni rendevano più faticoso il respiro. Dal soffitto e dai muri l’acqua scendeva leggera: in fondo si condensava il verde muschio, come nelle grotte.

Da un arco di pietra scendeva l’acqua con un forte scrosciare. Era calda limpida, piena di bollicine d’argento, si spargeva sulla piscina di pietra e dalla pietra grigia assumeva un colore verdastro.

Donne e uomini si bagnavano, susseguendosi. Quando arrivò il turno delle donne si sentirono grida, calca, risse e schiamazzi. Alcune erano vestite, si erano tolte solo le scarpe e stavano immerse così nell’acqua che arrivava loro sopra le ginocchia, altre si erano spogliate o restavano solo in camicia. Quelle che non riuscivano ad avere figli erano immerse nell’acqua fino al collo e pregavano in silenzio, gli occhi socchiusi. Alcune raccoglievano l’acqua dalla fonte con i palmi delle mani, e si sciacquavano poi la gola, le orecchie e il naso. Erano tutte talmente prese dalla preghiera e dal loro pensiero di guarigione che non si vergognavano, quasi non si accorgevano della presenza altrui. Un po’ si spingevano o battibeccavano per il posto, ma subito dopo quelle piccole liti si spegnevano rapidamente e venivano accantonate. La vecchia Bademlič e la cognata cercavano di far entrare la ragazza nell’acqua. Anche se tutti erano presi e occupati da loro stessi, si scostavano e facevano loro posto, poiché la gente ricca e nobile non perde mai e in nessun luogo il diritto alla priorità.

Tutta contratta, la ragazza tremava e aveva paura dell’acqua e della gente. Ma si rifugiava sempre di più nell’acqua, come per nascondersi. Se non l’avessero sorretta per le spalle, si sarebbe lasciata scivolare sul fondo. Anche così tuttavia l’acqua le arrivava fino al mento. Mai nella vita aveva visto tanta acqua né sentito tante voci e grida. Solo qualche volta, mentre sognava di essere sana, di camminare e di correre, aveva immaginato di fare il bagno con gli altri bambini così come ora. Sentiva volteggiare sul corpo innumerevoli bollicine, chiare e minuscole. Era in estasi. Socchiudeva gli occhi e inalava velocemente il caldo vapore. Avvertiva le voci delle donne intorno a sé come fossero sempre più lontane. Sentiva qualcosa solleticarle gli occhi. Strinse di più le palpebre ma il solletico non cessò. Alla fine aprì gli occhi a fatica. Attraverso una di quelle piccole fessure sul soffitto un raggio di sole le illuminò il volto. nella luce tremula si innalza il vapore dell’acqua, come un pulviscolo, verde, blu e dorato. L’ammalata lo segue con lo sguardo. Improvvisamente si scuote e inizia faticosamente a uscire fuori dall’acqua. Sorprese, la madre e lazia allentano la stretta e, all’improvviso, la bambina rattrappita e paralizzata si alza come mai aveva fatto prima, lascia andare le mani che la sostengono ai lati e ancora un po’ curva procede avanti incerta, lentamente, come una bambina ai primi passi. Apre le braccia. Sotto la camiciola leggera e bagnata appaiono piccoli seni con le minuscole prominenze scure. Fra le ciglia pesanti le brilla una luce umida. Le labbra piene si allargano in un sorriso sensuale e ottuso. Alza la testa e, guardando in alto, verso quel raggio di luce, grida con voce chiara e forte:

«Eccolo, sta scendendo dalle nuvole! Oh, Gesù, Gesù…!».

Vi è qualcosa di terribile e di solenne nella sua voce. Tutte le donne si inginocchiano. Nessuna ha il coraggio di alzare la testa e di guardare l’ammalata o la sua visione, ma tutte la sentono sopra di loro. Alcune incominciano a pregare ad alta voce, altre sussultano e la loro preghiera diventa quasi un singhiozzo. Si sentono alcune battere le mani sui petti. E tutte queste voci hanno qualcosa di strano e incredibile. Sono lamenti che la gente si lascia sfuggire dal profondo del dolore o della gioia, quando il ritegno e la vergogna vengono dimenticati. L’eco sempre più forte amplia e aumenta queste voci, che si mischiano al rumore dell’acqua che cade dall’alto con grande fragore.

L’unica a non abbassare la testa è la vecchia Bademlič. È salita sul secondo scalino, così da stare in acqua fino alle caviglie, e da lì attentamente e in tensione osserva la figlia e i suoi movimenti come in sogno, e il nuovo sorriso sul suo volto. quindi, spingendo di colpo la cognata da parte, si avvicina alla ragazza, la prende per la vita e, messale l’altra mano sotto le ginocchia, con passi lunghi e rabbiosi, come se nascondesse qualche vergogna, la porta fuori nella stanza dove erano rimasti i loro vestiti.

Qui nella penombra tutto è tranquillo. Accanto a sé ha la bambina. Non c’è nessuno. La piccola trema tutta per il repentino cambiamento e, di nuovo rattrappita, è stesa sulla nuda terra; ma sul volto le è rimasto quel sorriso malsano e lascivo di sensuale beatitudine.

Dalle terme provengono le voci della preghiera e si alzano le grida per il miracolo e la guarigione. La vecchia è immobile, sconfitta, ancora più severa e dura del solito. Perché solo lei ha riconosciuto il sorriso dei Bademlič, e solo lei sa che non c’è stata nessuna guarigione, sa che tutto è stato inutile. E come se non vedesse l’ora di fuggire dalla folla e rimanere sola con la Madonna, con la quale ha in comune il voto non esaudito, si gira verso un angolo buio ed emette un grido sommesso e acuto:

«Prenditela! Prenditela con te!».

Continua a ripetere queste parole senza curarsi nemmeno della bambina, che trema accanto ai suoi piedi.

occitan

Tot çò que naissia e vivia dins la casa di Bademlič era jaiós, insociant e sorient. Masque Kata Bademlič, la frema dal pus vielhs di fraires Bademlič, fasia excepcion. Era auta, ossua, blonda abo d’uelhs blòi e n’esgard freid e escrutator. Vint-e-sies ans fa foguet menaa dins la richa e granda demora e da alora era devengua, d’an en an, sempre pus serraa, sufrenta e silenciosa. Era pas urosa abo l’òme e avia pas agut pus fortuna nianca abo lhi filhs.

Son òme, Petar Bademlič, lo fraire pus grand de la richa familha, s’era mariat pro tard. Se contiavon ben d’estòrias sus sa joventut. E decò quora avia menat aquí Kata, bèla se envielhit e d’aüra enlai apensantit, avia encà dins las paraulas, lhi moviments e sobretot lo sorís, qualquaren de violent e de lasciu. Era un sorís larg, dubèrt e sensual, que sus las charas escuras di Bademlič era coma na marca que un polia pas estremar. Ent aquel sorís lhi avia qualquaren que avia emplit Kata – que venia da na sana e vitala familha de Livanj – de paor e de nàusea per tuchi aquilhi ans, fins a encuei.

Abo lhi filhs era encà pejo, Enti premiers dotze ans de mariatge Kata avia acojat nòu mainats, esquasi tuchi mascles, mas tuchi eron mòrts a pena intrats dins la flor de l’atge. Al desen acojament era sobreviscua per un pel. Da alora avia quitat d’acojar. Lo darrier naissut era na femèla. Fins a sies ans la mainaa creisset regularament; era menua, mas blonda e tan dòuça que tuchi en gleisa se viravon a beicar-la. Semelhava en tot a la maire e a sa familha de Livanj. Mas quora complet sies ans comencet a chambiar e a embrutir. Se pleguet ai janolhs e se corbet a la talha, son morre s’enduriet e las parpelhas s’enfleron. Parelh tota corbaa, abo las labras sempre entredubèrtas, se rabelava da un divan a l’autre, e per d’ans restet dins las estàncias escuras e glaçaas di Bademlič coma na desgràcia familiara e na punicion divina. Aüra avia setze ans. Mas se desvolopava gaire ental còrp e encara menc dins la tèsta. Arribava pas ni a dreiçar-se ni a chaminar se era pas resua da qualqu’un. Parlava gaire en adobrant masque de paraulas essencialas, mas prononciaa totdia en maniera sorda e confusa. La maire era la soleta que polesse capir-la. La vielha Bademlič velhava d’un contun sus la filha: permetia pas a degun de la servitut d’avesinar-la, l’ajuava a meirar-se, la norria, la lavava e la vestia.

Avia fach tot lo possible per cerchar de garir-la. Après aver visitat de mètges e de sorcieras e aver provat totas las misinas e tot çò que se ne’n saubia en vir, après aver pagat en van per de messas e de preieras, un bòt juret derant a l’altar de la Madòna que en ocasion de l’Immaculaa auria chaminat deschauça fins a Olovo per portar la filha malata a sa fònt arrent al monastier.

Coma tuchi aquilhi que an sufèrt un baron e an vist a lor entorn un baron de mòrts, que vivon separats dal mond e embarrats dins lor, Kata percebia de mai las fòrças dal mond invisible e las sentia pus íntimas e pus pròchas. Après aquel vot avia pregat encà a lòng e quora s’era levaa avia repetut sa preiera e sa demanda a la Madòna.

«Mi lhi la fau pus. Fai qualquaren, te prego: o la garisses, o la pilhes abo tu en paradís coma as fach abo lhi autri nòu».

Qualqui jorns après aquel vot laisseron la casa di Bademlič a l’alba per anar en pelegrinatge. La vielha avia menat après la conhaa, n’anciana vielha filha abo lo morre picoteat. Abo elas eron decò partits dui servents per portar en braç la jove: de fach era pas possible montar-la sal caval. Pilheron decò dui cavals en maniera da garantir-se lo viatge de retorn. Fasia jorn dal temp que montavon sus las premieras autors dessobre Sarajevo. La filha, que fins an aquel moment s’era ben lamentaa e avia plorat, aüra repausava tranquilla dins na banasta facha per l’ocasion que lhi dui servents portavon sus dui bastons enfilats da lhi dui cants. Guichia e enebriaa da la frescura dal matin aüra durmia, abo la tèsta apojaa sus l’espàtla drecha. Mincatant, a qualque fermada un pauc brusca, durbia lhi uelhs, mas en veient dessobre son orizont las fuelhas, lo cèl e lo ros de l’auròra, lhi serrava mai en creient de sumiar e soriïa abo un sorís dòuç da mainaa malata que s’ista repilhant.

A na mira la montaa devenet menc drecha. Atraverseron lhi bòscs luxuriants per pilhar un chamin pus larg e menc en pendença. Comenceron a rescontrar de pichòts grops de gent di vilatges da pè. lhi avia de personas ben malatas, que, butaas coma de sacs sus lhi cavals, gemion e rotlavon lhi uelhs. Lhi avia decò de fòls e de violents quel lhi parents cerchavon de sosténer e d’apasiar.

La vielha Bademlič chaminava derant a lhi siei, se durbia lo chamin al metz de la gent e, sensa beicar degun, pregava en desgrunant lo rosari. Lhi filhs abo lor pesant fardèl la seguion a fatiga. Dui bòts s’eron fermats a repausar dins un bòsc de fauls arramba a la via. S’arresteron puei per minjar e estenderon sus l’erba un tapís escur en lhi fasent cojar la malata. Nilhi cerchava d’estirar las chambas endurmias e lo còrp agropit mai que polia. S’esbuïet a la vista di pè de la maire, deschauç, lívids e sanhants per la lònja marcha a la quala eron pas abituats. Mas la vielha retiret súbit lhi pè dins las dimije e la mainaa, alegrament estonaa da las causas nòvas a son entorn, se ne’n desmentiet súbit. Tot era nòu, divertent e jaiós: l’èrba espessa e escura, lhi fauls ramuts abo lhi bolets coma d’estatgieras sus la crosta argentaa, lhi aucèls que planavon sus las grépias di cavals e l’ampla vista abo lo cèl clar e las núvolas eslonjaas que passavon lentament. E quora lo caval sopatava la tèsta e lhi aucèls se butavon a volatear-lhi a l’entorn espaventats, la mainaa, guichia e durmilhosa, soriïa a lòng a flor de labras. Beicava lhi filhs minjar plan e empenhats e bèla dins aquò trobava qualquaren de alègre e divertent. Decò nilhi minget abo apetit, s’eslonjava sus son tapís mai que polia. En desrambant l’èrba abo la man veiet na flor que aicí se sòna “aurelha de la vielha”, pichòta e ros fuec, coma perdua dins la tèrra niera. Criet per l’emocion. La vielha, que per la fatiga s’era endurmia, se desvelhet e lhi lo culhet. L’infèrma restet a beicar-la a lòng e a nuflar-la en la tenent sus la palma de la man, puei l’avesinet al morre e a son contact velutat e fresc serret lhi uelhs per lo plaser.

Al calabrun arriberon a Olovo. A l’entorn de las ruïnas dal monastier e de la piscina cubèrta d’ente provenia lo murmur sord dal crepitar de l’aiga chauda que gesclava da la fònt de la Madòna, lhi avia un baron de gent. Lhi fuecs eron já istats aviscats, se cusineava, se rostia, se minjava.

La major part durmia sus l’airal. Dins na cabana de bòsc lhi avia las plaças per lhi pus benestants. Foguet aquí que placeron lhi Bademlič. Las doas fremas s’endurmeron sal colp. La filheta ensita passet l’entiera nuech en metz sòm, en admirant a travèrs la fenèstras las estèlas dessobre lo bòsc escur, tantas coma n’avia jamai vistas derant. Escotava las vòutz a l’entorn di fuecs que se queseron pas per tota la nuech; la desvelhavon de tant en tant l’endilhar di cavals e lo fresc de la nuech. Sus la fin s’endurmet, mas en auvent mai las vòutz e lo mormoriar, arribava pas a capir se istava sumiant o se era encà desvelhaa.

Lo matin d’après aneron fito a la fònt.

Derant chalia intrar dins n’estància bassa e semiscura ente un se despulhava. Las pòsts dal paviment eron banhaas e esquasi marças. Arrambaas a lhi murs lhi avia de banchas de bòsc per apojar lhi vestits. Fachs tres eschaliers, un calava puei dins n’estància pus granda ente se trobava la piscina. Lo cubèrt era de peira, voutat, e sus la cima lhi avia de pichòtas duberturas a travèrs las qualas intrava n’estrana lutz raionaa. Lhi pas ressonavon e la vòuta de peira fasia aumentar e retunir bèla lo mínim sòn. Lo bruire de l’aiga redondava da las parets e, multiplicat e engrossit, emplenia tot l’espaci. Per far-se sentir un devia criar. E decò aquesti crits se multiplicavon dessot lhi arcs, las exalacions rendion pus fatigós lo respir. Dal plafon e da lhi murs l’aiga calava legiera: al fons se condensava lo musc vèrd, coma dins las balmas.

Da n’arc de peira cheïa l’aiga en bruient. Era chauda, límpida, plena de bolas d’argent, s’espanteava sus la piscina de peira e da la peira grisa prenia un color verdastre.

De fremas e d’òmes se banhavon, en se seguent. Quora arribet lo torn de las fremas se auveron de crits, de fola, de rusas e de tapatge. D’unas eron vestias, s’eron masque gavaas lhi chauciers e restavon plonjaas parelh dins l’aiga que lhi arribava fins dessobre lhi janolhs, d’autras s’eron despulhaas e restavon masque en chamisa. Aquelas que arribavon pas a aver de mainaas eron plonjaas dins l’aiga fins al còl e pregavon en silenci, abo lhi uelhs embalhats. D’unas culhion l’aiga da la fònt abo las palmas de las mans, e se renfreschavon puei la gola, las aurelhas e lo nas. Eron totas talament pilhaas da la preiera e dal pensier de la garison que se vergonhavon pas, coma se s’avisesson pas de la presença de lhi autri. Un pauc s’espintoneavon o ruseavon per lo pòst, mas d’abòrd aquelas pichòtas rusas finion e venion acantonaas.

La vielha Bademlič e la conhaa cerchavon de far intrar la filha dins l’aiga. Bèla se tuchi eron concentrats sus elas e chapats da lors causas, se desrambavon e lhi fasion pòst, daus que la gent richa e nòbla pèrd jamai e en degun luec lo drech a la prioritat.

Tota endurzia, la filha tramolava e avia paor de l’aiga e de la gent. Mas se refugiava sempre de mai dins l’aiga, coma per estremar-se. Se l’auguesson pas resua per las espatlas, se seria laissaa esguilhar sal fons. Bèla parelh, totun, l’aiga lhi arribava fins al menton. Jamai dins la vita avia vist tant d’aiga ni sentut tant de vòutz e de crits. Masque qualque bòt, mentre sumiava d’èsser sana, de chaminar e de córrer, avia imaginat de far lo banh abo las autras mainaas parelh coma aüra. Sentia flotear sal còrp d’innombrablas bolas, claras e minúsculas. Era en èxtasi. Embalhava lhi uelhs e respirava fito la vapor chauda. Avertia las vòutz de las fremas a l’entorn de nilhi coma se foguesson sempre pus luenhas. Sentia qualquaren lhi gatilhar lhi uelhs. Serret de mai las parpelhas, mas lo gatilh quitet pas. Sus la fin durbet lhi uelhs a fatiga. A travèrs una d’aquelas pichòtas fendeas sal plafon un rai de solelh lhi esclarzet lo morre. Dins la lutz tramolanta s’enauça lo vapor de l’aiga, coma una pols, vèrda, blòia e doraa. La malata lo seguís abo l’esgard. Tot d’un crep se sopata e comença fatigosament a salhir fòra de l’aiga. Sorpresas, la maire e la danda relamon la presa e, d’un crep, la mainaa agropia e paralizaa se auça coma jamai avia fach derant, laissa anar las mans que la reson da lhi dui cants e encà un pauc corbaa chaminotea, lentament, coma na mainaa a lhi premiers pas. Duerb lhi braç. Dessot la chamiseta legiera e banhaa apareisson de possetas abo de possets escurs. Dins sas celhas pesantas brilha na lutz uma. Las labras plenas s’eslarjon dins un rire sensual e dubèrt. Auça la tèsta e, en beicant en aut, vèrs aquel rai de lutz, cria abo na vòutz clara e fòrta:

«Lo vaquí, ista calant da las nèblas! Òh Jesú, Jesú…!».

Lhi a qualquaren de terrible e de solemne dins sa vòutz. Totas las fremas s’enjanolhon. Deguna a lo coratge d’auçar la tèsta e de beicar la malata o sa vision, mas totas la senton sobre d’elas. D’unas començon a pregar a auta vòutz, d’autras ressauton e lor preiera deven esquasi un sanglut. Se senton d’unas picar las mans sus lhi pitres. E totas aquestas vòutz an qualquaren d’estrange e d’incredible. Son de planhs que la gent se laissa escapar dal profond dal dolor e de la jai, quora lo retenh e la crenta venon desmentiats. Lo resson sempre pus fòrt dona larg an aquestas vòutz, que se mèsclon al brui de l’aiga que chei da l’aut abo un grand fracàs.

La soleta a ren baissar la tèsta es la vielha Bademlič. Es montaa sal second eschalier, parelh da istar dins l’aiga fins a las chavilhas, e d’aquí tendua e en beicant obsèrva la filha e si moviments coma en sumi, e lo nòu sorís sus son morre. Puei, en possant d’un crep la conhaa d’un cant, s’apròcha a la filha, l’embrinca e, après lhi aver butat l’autra man dessot lhi janolhs, a pas lòngs e rabiós, coma se estremesse qualque vergonha, la mena defòra dins l’estància ente eron restats lors vestits.

Aquí ent la penombra tot es tranquil. Da cant a nilhi a la mainaa. Lhi a pas degun. La pichòta tramòla tota per lo chambiament emprovís e, mai agropia, es cojaa sus la tèrra nua; mas sal morre lhi es restat aquel sorís malsan e lasciu de sensuala beatituda.

Da las tèrmas arribon las vòutz de la preiera e s’auçon lhi crits per lo miracle e la garison. La vielha es immòbila, ganhaa, encà pus sevèra e dura que de costuma. Perqué masque nilhi a reconoissut lo sorís di Bademlič, e masque nilhi sa que lhi a pas agut deguna garison, sa que tot es istat inútil. E coma se veiesse ren l’ora d’escapar da la fola e de restar soleta abo la Madòna, que a pas exaudit son vot, se vira vèrs un canton escur e emet un crit somés e agut:

«Pilhe-te la! Pilhe-te la abo tu!».

Contínua a repéter aquestas paraulas sensa sagrinar-se nianca de la filheta, que tramòla arramba a si pè.


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