“Il Piave mormorava calmo e placido al passaggio dei primi fanti il 24 maggio…” così recita la canzone che celebra il 24 del 1915, data dell’entrata in guerra dell'Italia contro l'Impero Austroungarico. Cominciò allora, per gli italiani, la Prima Guerra Mondiale. Trento, Trieste, l'Istria erano terre italiane ancora in mano allo Straniero e andavano liberate.
Quest’anno sono 109 anni da quel giorno. Per noi occitani delle Valli fu la guero dal quienze e le lapidi nei paesi ricordano i morti “dell’inutile massacro” com’ebbe a dire il Pontefice del tempo. A mezzo secolo dall’unità d’Italia, nelle classi contadine chiamate al fronte, il “sentimento patriottico italiano” non aveva ancora fatto breccia. Il popolo basso, in parte analfabeta, non comprendeva le ragioni di chi lo mandava a morire. Un soldato su quattordici - dei 4.199.542 mobilitati nei quattro anni di guerra - subì un processo penale. Uno su ventiquattro fu processato come disertore. Le pene all’ergastolo furono oltre quindicimila e poco più di quattromila le condanne a morte, di cui 750 eseguite, 2967 in contumacia. Circa trecento furono i fucilati senza processo e centinaia i soldati abbattuti durante gli assalti “per codardia in presenza del nemico” dai carabinieri o dai loro stessi ufficiali.
Scrisse il capo supremo generale Luigi Cadorna ai tribunali militari che dovevano giudicare i colpevoli di rivolta in faccia al nemico: “… ricordo che non vi è altro mezzo idoneo a reprimere il reato collettivo che quello dell’immediata fucilazione dei maggiori responsabili e allorché l’accertamento personale dei responsabili non è possibile rimane il dovere e il diritto dei comandanti di estrarre a sorte tra gli indiziati alcuni militari e di punirli con la morte…” (telegramma del 1° novembre 1916)
In nessun altro dei paesi in conflitto, la giustizia di guerra raggiunse i nostri livelli di repressione. In Francia, nonostante la maggior durata del conflitto, cominciato nel ’14, e il maggior numero di uomini mobilitati, le condanne a morte eseguite furono circa 600. In Gran Bretagna, con un esercito di 9 milioni di uomini, furono 346. Un centinaio quelle dell’esercito tedesco.
Rivolte collettive, scioperi militari, si manifestarono fin dal primo inverno di guerra nel ’15, ad Aosta, Sacile (Pn), Oulx, con il rifiuto dei soldati di partire per il fronte.
La disobbedienza più diffusa e il più assillante motivo di preoccupazione per le autorità militari, fu la diserzione, che aumentò costantemente: da 10.272 nel primo anno di guerra si passò alle 27.817 condanne per diserzione nel secondo, alle 55.034 nel terzo.
Spesso i disertori erano protetti dalle popolazioni delle campagne, che segnalavano i movimenti dei carabinieri. Contadini che proteggevano altri contadini e davano loro rifugio. Nel settembre 1917 a Stienta presso Rovigo 150 donne e 50 uomini (secondo il resoconto della polizia) si opposero all’arresto di due disertori, aggredendo due carabinieri e gettandoli nel canale Bentivoglio, dove uno dei due annegò.
Un libretto di memorie di Giuseppe Bianco, di Martiniana in valle Po (a cura di Amalia Bianco - ed. Gribaudo 1999), racconta di tal Vincenti Spirito (Prit), disertore, una sorta di primula rossa: “Noi tutti sapevamo che lui era un disertore e che i Carabinieri lo ricercavano, ma era talmente atletico, svelto e furbo che non erano mai riusciti a beccarlo… Lui correva veloce, i Carabinieri correvano dietro di lui e dietro ancora correvamo tutti noi bambini e grandi per vedere come sarebbero andate le cose. Lui, dopo aver attraversato i prati attraversava la via che divide dalle vigne e poi giù fra i filari verso il Po”.
Le amministrazioni locali ufficialmente bollavano i disertori con note di biasimo. Così accadde a Saluzzo: al Capitano comandante della 22° compagnia del 2° Reggimento Alpini Battaglione Saluzzo, che il 3 giugno 1916 aveva comunicato, affinché “la sua onta sia conosciuta”, la diserzione di tal Bigo Carlo, classe 1893, “che allontanavasi dal reparto mentre questi era chiamato a compiere alte e sublimi gesta”, il Sindaco rispondeva che il suindicato soldato” è bensì nato a Saluzzo nel 1892, però da genitori provenienti entrambi da altri comuni. … lo stesso ha poi abbandonato in giovanissima età la propria famiglia per emigrare nell’America meridionale, dove vi trascorse tutta l’adolescenza e parte della gioventù … così che i suoi occasionali vincoli colla Città di Saluzzo hanno potuto rallentarsi notevolmente, al punto di essere qui quasi sconosciuto”. In chiusura il Sindaco non mancava di ricordare che “il caso isolato non può intaccare … né rendere meno fulgida la gloria che circonda il buon nome dei Saluzzesi autentici”, in particolare i 35 concittadini “che hanno eroicamente già lasciato testé la vita sui campo dell’onore” - (documento pubblicato dal prof. Mario Bruno in un fascicolo destinato agli studenti della scuola media di Sanfront).
Al principio del 1917, fatti di eccezionale gravità si verificano in tutti gli eserciti combattenti: il popolo delle trincee diede segni di stanchezza e d‘insofferenza. Interi reparti si rifiutarono di tornare in linea. Pronunciamenti, rivolte, atti d’insubordinazione collettiva divennero frequenti in Francia, così come in Germania, in Austria, in Russia e naturalmente in Italia.
Per la Francia il ’17 fu "l'année de l'angoisse", con 10 dipartimenti nelle mani della Germania. I disertori ammontarono a 25.579 (15.600 nel 1916). A maggio, in 51 delle 112 divisioni si verificarono casi di disordini e insubordinazione. A fine maggio, i soldati del 5° e del 129° reggimento della 5° divisione di fanteria rifiutano di tornare in linea. Il 6 giugno fu la volta del 274° reggimento. I soldati gridavano; "A bas la guerre" e "Assassin! Buveur de sang!". Il numero degli ammutinati fu calcolato in 30-40.000. Il generale Pétain invitò il presidente della Repubblica a non esercitare il suo diritto di grazia: "qu'une première impression de terreur est indispensable".
In Italia, il rifiuto di avanzare o tornare nelle prime linee, di mettersi in marcia o salire sulle tradotte, le imprecazioni contro la guerra, i gesti di avvicinamento al nemico e, tra gli ufficiali, il rifiuto di eseguire azioni destinate al fallimento esponendo i loro reparti a perdite eccessive, divennero via via più frequenti. La vita in trincea aveva logorato i soldati, così come la consapevolezza crescente dell’inutilità dei sacrifici, le promesse di turni di riposo non mantenute, le licenze negate, la disciplina durissima, l’arroganza dei giovani ufficiali verso i semplici fanti richiamati e in età già matura. Fin dall’inizio, lo Stato Maggiore aveva indicato i criteri delle fucilazioni, che dovevano avere carattere di “salutare” esemplarità. I plotoni d’esecuzione erano composti da militari appartenenti allo stesso reparto dei condannati, e alle esecuzioni dovevano assistere i commilitoni.
Caporetto fu la disfatta: la più grave nella storia italiana tanto che ancora oggi Caporetto è sinonimo di sconfitta disastrosa.
Cominciò il 24 ottobre 1917, alle due dopo mezzanotte, sul fronte dell’Isonzo. Le artiglierie austro-germaniche iniziarono a battere le posizioni italiane alternando gas a granate convenzionali. Le truppe non ressero e si sbandarono, fino al Tagliamento, poi fino al Piave. Fu la “rivolta dei santi maledetti”: così scrisse Curzio Malaparte nel suo celebre “Viva Caporetto!” del 1921, violento atto di accusa all’intera guerra italiana, interpretata come violenza dei pochi che l’avevano voluta sui molti, di cui i fanti contadini erano i rappresentanti più emblematici.
La ritirata avvenne in una situazione caotica.
“Quando i galeotti delle trincee, i fanti scabbiosi e pidocchiosi che non volevano più farsi ammazzare per gli altri, quando gli scioperanti coperti di fango e di cenci, più volte feriti, eroici quasi sempre e quasi mai decorati, giungevano nei paesi delle retrovie, pochi giorni prima pieni di stivali lucidi, di gonnelle e di “armiamoci e partite”, trovavano le strade deserte, le case vuote, i comandi abbandonati. Tutti erano fuggiti a precipizio, senza nemmeno pensare a resistere, a prendere le armi, dopo aver scagliato anatemi contro i “traditori della patria” che non volevano più farsi ammazzare per loro” (Malaparte op. cit).
Fra gli alti ufficiali fu una corsa a scrollarsi di dosso la responsabilità della catastrofe, a mantenere intatti il prestigio e l'onorabilità. La colpa fu data al disfattismo, ai socialisti, al Papa, ai fanti senza fucile che non volevano più combattere.
Una tragedia nella tragedia furono i profughi civili. Oltre un milione di persone delle provincie di Udine, Treviso, Belluno, Venezia e Vicenza abbandonarono le loro case riversandosi nelle strade che conducevano alla pianura padana.
Andrea Graziani, noto come “il generale delle fucilazioni”, venne nominato Ispettore Generale del Movimento Sgombero delle truppe in ritirata tra il Piave e il Brenta. Suo il compito di riorganizzare gli sbandati, che esercitò ordinando in soli 15 giorni 57 fucilazioni sommarie. Il 3 novembre a Noventa Padovana il plotone d’esecuzione fu per l’artigliere Alessandro Ruffini di Castelfidardo, reo di averlo guardato con atteggiamento di sfida e di avere il sigaro in bocca: “Il generale lo redarguisce e riscaldandosi inveisce e lo bastona. Il soldato non si muove. Molte donne e parecchi borghesi sono presenti. Un borghese interviene e osserva al generale che quello non è il modo di trattare i nostri soldati. Il generale infuriato, risponde: “Dei soldati io faccio quello che mi pace” e per provarlo fa buttare contro un muricciolo il Ruffini e lo fa fucilare immediatamente tra le urla delle povere donne inorridite” (L’Avanti, giornale del P.S.I. – 28 luglio 1919).
Trascorsi sette giorni, Graziani fece fucilare altri 18 soldati e 3 civili a San Pelagio di Treviso; a cui il 13 e il 16 novembre a Padova, si aggiunsero altri 32 militari e 3 borghesi.
Di altri disobbedienti potrei raccontare: dei fucilati della Brigata Catanzaro a Santa Maria della Longa nel basso Friuli; dei fanti della Brigata Ravenna; dei Lupi di Toscana che alle Fonti del Timavo si rifiutarono di compiere un’azione suicida comandata dal vate Gabriele D’Annunzio; degli alpini del battaglione Monte Arvenis giustiziati a Cercivento per avere suggerito al loro comandante (un napoletano incompetente) una via sicura per la conquista di un monte che loro conoscevano bene per essere nati fra quelle montagne. Alla fine della guero dal quienze ci fu il silenzio, quello interessato dei comandi ma anche quello dei reduci. L’Italia vittoriosa non avrebbe compreso.
Nel 2015, il governo italiano ha perso un’occasione storica come invece avevano già fatto nel 2008 la Francia e poco dopo la Gran Bretagna, quella di riabilitare la memoria dei suoi "disobbedienti". Una legge presentata in Parlamento si arenò fra distinguo e governi dimissionari. Ora è troppo tardi?
Per saperne di più: www.fredovalla.it in filmografia/regia
NON NE PARLIAMO DI QUESTA GUERRA
Film concerto su disertori, ammutinati, rivolte, fucilazioni sommarie nella Grande Guerra
di Fredo Valla (Italia, 2017)
prod.: Nefertiti Film con Istituto Luce
durata: 66’ - 2017
commenta