Occitania, Montagna e Politica sono al centro di tre interviste a Fredo Valla (della Chambra d’Oc) su “Paesaggi & Sconfini”, mensile curatissimo della Val Susa, “l’Eco del Chisone – mensile” e “Bollettino del CAI UGET di Torino”. La prima a firma Giorgio Cattaneo; la seconda di Daria Capitani, la terza a cura di Fabio Di Gioia. Interviste condotte con sapienza e scrittura curata: due aspetti non così consueti su temi che molti giornalisti affrontano col dilettantismo (o la sufficienza) che ben conosciamo. Qualche estratto per i lettori di Nòvas, con l’avvertimento che i due mensili apparsi in settembre sono tuttora in edicola.
In “Paesaggi & Sconfini”, Valla ricorda François Fontan e il film “E i a lo solelh” che, in cordata con Diego Anghilante, gli fu dedicato nel 1999. «Occitania non è soltanto un’espressione geografica. Ha in se qualcosa di sacro. In “E i a lo solelh”, una sequenza mostra le immagini di un funerale fuori dal comune, sotto la neve della val Varaita: una bara portata a spalle, avvolta nella bandiera di Tolosa, con la croce gialla in campo rosso. L’uomo nel feretro è François Fontan, il teorico dell’etnismo. La sua tesi: ogni popolo ha diritto alla sua nazione, statualmente riconosciuta. L’Occitania? Un’entità nazionale vera e propria, anche se negata dalla geopolitica europea. Una realtà estesa dal Piemonte all’Atlantico, dalle Alpi ai Pirenei, dal Massiccio Centrale al Mediterraneo. Una lingua, una cultura: un’anima collettiva. Quando arrivò nelle nostre valli, François Fontan ci aprì gli occhi: grazie a lui capimmo quale tesoro fosse nascosto nelle nostre radici. Fu allora che rinacque, nelle nostre vallate, lo spirito della cultura occitana. Fontan era un dissidente, pronto a pagare il conto per intero: la giustizia transalpina l’aveva sbattuto in galera per aver parteggiato per la lotta dell’Algeria contro il colonialismo di Parigi».
Con Daria Capitani della rivista mensile L’Eco del Chisone e Fabio Di Gioia del CAI Uget, i temi sono la politica della montagna, i nuovi insediamenti, la vulgata delle Terre alte: «Di solito si racconta la montagna come un ambiente incontaminato sotto tutti gli aspetti, paesaggistico e umano. La realtà non è così. Forse è più utile dire che quell'immaginario non corrisponde alla verità piuttosto che raccontarsi frottole che favoriscono inutili illusioni. Da dove arriva quell'idea di montagna? È la visione che attrae il mondo urbano e lo porta a volte a vivere esperienze velleitarie. C'è chi pensa di venire in montagna e trovare armonia e bellezza. Magari le trova, ma insieme trova anche la fatica. Io ho avuto dei figli e so che non è facile, pur essendo questa una Valle tutto sommato breve, in mezz'ora d'auto siamo a Saluzzo. E poi c’è l’altro aspetto: la socialità. Quando un paese è ridotto ai minimi termini, cosa fanno i ragazzi? Nonostante tutto, non sono pessimista: a Ostana la popolazione è cresciuta grazie agli apporti di famiglie giunte da fuori, non originarie del paese, che hanno avuto il coraggio di fare una scelta. Peccato per la lingua, che pare non interessare i nuovi venuti. Penso che si debba essere consapevoli delle cose per cercare di cambiarle».
Con Fabio Di Gioia, Fredo Valla sottolinea la necessità di sgombrare il campo da un possibile equivoco: «Io non vorrei la montagna solo ripopolata, ma la vorrei con un’identità. Ci sarebbe un discorso gigantesco da fare sul rapporto tra abitanti delle valli e lingue autoctone. Fino alla fine del secolo scorso il discorso identitario era imprescindibile dal discorso linguistico, oggi sono pochi gli adolescenti che parlano queste lingue. Guai, però, a voler cristallizzare identità e radici. Il movimento escursionistico ed alpinistico ha colpevolmente contribuito al congelamento del concetto di tradizione attraverso un malinteso desiderio di esotismo. Per certi versi l’attuale frequentazione della montagna ha portato in quota le storture del modello economicista imperante ovunque che, se già in pianura fa danno, in montagna fa sfracelli. L’infrastrutturazione dei luoghi deve voler dire servizi essenziali in montagna, non facilitazioni per la fruizione di rapina dell’ambiente montano. Alimentata da una narrazione spettacolare che purtroppo va per la maggiore, esiste un’aspettativa nei confronti della montagna che è in sé sufficiente ad arrecarle danno: la mistica delle patate, del burro, del formaggio e della polenta è nociva quasi quanto le frane. Inoltre chi sale in montagna dovrebbe essere sapere che non sta arrivando in un deserto: è ora di smetterla di fare i maestrini che “salgono dalla pianura a portare la civiltà”. In questo i sodalizi possono avere un ruolo: il CAI, ad esempio, dovrebbe condurre per mano i propri soci a una conoscenza approfondita della montagna, dei suoi problemi e delle sue opportunità. La montagna non è solo il sentiero, il rifugio, la cima, l’escursione. Si parla spesso di escursionismo ed alpinismo, non di cultura ed economia di montagna. Si dovrebbe educare il fruitore (ma più in generale il cittadino) ad un rapporto diverso con questo mondo, attraverso la conoscenza, il rapporto, l’ascolto, il rispetto (magari anche trascorrendo un po’di tempo in più rispetto a quello dedicato alla pur legittima escursione o ascensione). Se tu porti le persone a riflettere che la montagna è un organismo vivente perché è nata, si è evoluta, decade e scomparirà, allora spalanchi loro una visione che trascende i cliché e li porta ad interrogarsi sul perché una roccia sia diversa dall’altra, o perché in un determinato luogo ci sia una certa vegetazione e non un’altra, perché un luogo è stato scelto come insediamento e altri luoghi no. Tutto questo aggiunge profondità all’esperienza e, probabilmente, ci insegna ad aver maggior cura di questo corpo vivente, con tutto ciò che di buono può derivarne».
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