Nòvas d'Occitània    Nòvas d'Occitània 2024

invia mail   print document in pdf format Rss channel

Nòvas n.247 Desembre 2024

Il Dono di Natale - Oc

Lo don de Deneal

di Grazia Deledda, traduzione e audio-lettura in occitano a cura di Peyre Anghilante e Caterina Ramonda

Il Dono di Natale - Oc
italiano

Il Dono di Natale

I cinque fratelli Lobina, tutti pastori, tornavano dai loro ovili, per passare la notte di Natale in famiglia. Era una festa eccezionale, per loro, quell’anno, perché si fidanzava la loro unica sorella, con un giovane molto ricco.

Come si usa dunque in Sardegna, il fidanzato doveva mandare un regalo alla sua promessa sposa, e poi andare anche lui a passare la festa con la famiglia di lei. E i cinque fratelli volevano far corona alla sorella, anche per dimostrare al futuro cognato che se non erano ricchi come lui, in cambio erano forti, sani, uniti fra di loro come un gruppo di guerrieri.

Avevano mandato avanti il fratello più piccolo, Felle, un bel ragazzo di undici anni, dai grandi occhi dolci, vestito di pelli lanose come un piccolo San Giovanni Battista; portava sulle spalle una bisaccia, e dentro la bisaccia un maialetto appena ucciso che doveva servire per la cena.

Il piccolo paese era coperto di neve; le casette nere, addossate al monte, parevano disegnate su di un cartone bianco, e la chiesa, sopra un terrapieno sostenuto da macigni, circondata d’alberi carichi di neve e di ghiacciuoli, appariva come uno di quegli edifizi fantastici che disegnano le nuvole.

Tutto era silenzio: gli abitanti sembravano sepolti sotto la neve.

Nella strada che conduceva a casa sua, Felle trovò solo, sulla neve, le impronte di un piede di donna, e si divertì a camminarci sopra. Le impronte cessavano appunto davanti al rozzo cancello di legno del cortile che la sua famiglia possedeva in comune con un’altra famiglia pure di pastori ancora più poveri di loro.

Le due casupole, una per parte del cortile, si rassomigliavano come due sorelle; dai comignoli usciva il fumo, dalle porticine trasparivano fili di luce.

Felle fischiò, per annunziare il suo arrivo: e subito, alla porta del vicino si affacciò una ragazzina col viso rosso dal freddo e gli occhi scintillanti di gioia.

– Ben tornato, Felle.

– Oh, Lia! – egli gridò per ricambiarle il saluto, e si avvicinò alla porticina dalla quale, adesso, con la luce usciva anche il fumo di un grande fuoco acceso nel focolare in mezzo alla cucina.

Intorno al focolare stavano sedute le sorelline di Lia, per tenerle buone la maggiore di esse, cioè quella che veniva dopo l’amica di Felle, distribuiva loro qualche chicco di uva passa e cantava una canzoncina d’occasione, cioè una ninnananna per Gesù Bambino.

– Che ci hai, qui? – domandò Lia, toccando la bisaccia di Felle. – Ah, il porchetto. Anche la serva del fidanzato di tua sorella ha già portato il regalo. Farete grande festa voi, – aggiunse con una certa invidia; ma poi si riprese e annunziò con gioia maliziosa: – e anche noi!

Invano Felle le domandò che festa era: Lia gli chiuse la porta in faccia, ed egli attraversò il cortile per entrare in casa sua.

In casa sua si sentiva davvero odore di festa: odore di torta di miele cotta al forno, e di dolci confezionati con buccie di arance e mandorle tostate. Tanto che Felle cominciò a digrignare i denti, sembrandogli di sgretolare già tutte quelle cose buone ma ancora nascoste.

La sorella, alta e sottile, era già vestita a festa; col corsetto di broccato verde e la gonna nera e rossa: intorno al viso pallido aveva un fazzoletto di seta a fiori; ed anche le sue scarpette erano ricamate e col fiocco: pareva insomma una giovane fata, mentre la mamma, tutta vestita di nero per la sua recente vedovanza, pallida anche lei ma scura in viso e con un’aria di superbia, avrebbe potuto ricordare la figura di una strega, senza la grande dolcezza degli occhi che rassomigliavano a quelli di Felle.

Egli intanto traeva dalla bisaccia il porchetto, tutto rosso perché gli avevano tinto la cotenna col suo stesso sangue: e dopo averlo consegnato alla madre volle vedere quello mandato in dono dal fidanzato.

Sì, era più grosso quello del fidanzato: quasi un maiale; ma questo portato da lui, più tenero e senza grasso, doveva essere più saporito.

– Ma che festa possono fare i nostri vicini, se essi non hanno che un po’ di uva passa, mentre noi abbiamo questi due animaloni in casa? E la torta, e i dolci? – pensò Felle con disprezzo, ancora indispettito perché Lia, dopo averlo quasi chiamato, gli aveva chiuso la porta in faccia.

Poi arrivarono gli altri fratelli, portando nella cucina, prima tutta in ordine e pulita, le impronte dei loro scarponi pieni di neve, e il loro odore di selvatico.

Erano tutti forti, belli, con gli occhi neri, la barba nera, il corpetto stretto come una corazza e, sopra, la mastrucca (una sopraveste di pelle d’agnello, nera, con la lana, che tiene molto caldo).

Quando entrò il fidanzato si alzarono tutti in piedi, accanto alla sorella, come per far davvero una specie di corpo di guardia intorno all’esile e delicata figura di lei; e non tanto per riguardo al giovine, che era quasi ancora un ragazzo, buono e timido, quanto per l’uomo che lo accompagnava.

Quest’uomo era il nonno del fidanzato. Vecchio di oltre ottanta anni, ma ancora dritto e robusto, vestito di panno e di velluto come un gentiluomo medioevale, con le uose di lana sulle gambe forti, questo nonno, che in gioventù aveva combattuto per l’indipendenza d’Italia, fece ai cinque fratelli il saluto militare e parve poi passarli in rivista. E rimasero tutti scambievolmente contenti.

Al vecchio fu assegnato il posto migliore, accanto al fuoco; e allora sul suo petto, fra i bottoni scintillanti del suo giubbone, si vide anche risplendere come un piccolo astro la sua antica medaglia al valore militare.

La fidanzata gli versò da bere, poi versò da bere al fidanzato e questi, nel prendere il bicchiere, le mise in mano, di nascosto, una moneta d’oro.

Ella lo ringraziò con gli occhi, poi, di nascosto pure lei, andò a far vedere la moneta alla madre ed a tutti i fratelli, in ordine di età, mentre portava loro il bicchiere colmo.

L’ultimo fu Felle: e Felle tentò di prenderle la moneta, per scherzo e curiosità, s’intende: ma ella chiuse il pugno minacciosa: avrebbe meglio ceduto un occhio.
Il vecchio sollevò il bicchiere, augurando salute e gioia a tutti; e tutti risposero in coro.

Poi si misero a discutere in un modo originale: vale a dire cantando. Il vecchio era un bravo poeta estemporaneo, improvvisava cioè canzoni; ed anche il fratello maggiore della fidanzata sapeva fare altrettanto.

Fra loro due quindi intonarono una gara di ottave, su allegri argomenti d’occasione; e gli altri ascoltavano, facevano coro e applaudivano.

Fuori le campane suonarono, annunziando la messa.
Era tempo di cominciare a preparare la cena. La madre, aiutata da Felle, staccò le cosce ai due porchetti e le infilò in tre lunghi spiedi dei quali teneva il manico fermo a terra.

– La quarta la porterai in regalo ai nostri vicini – disse a Felle: – anch’essi hanno diritto di godersi la festa.

Tutto contento, Felle prese per la zampa la coscia bella e grassa e uscì nel cortile. La notte era gelida ma calma, e d’un tratto pareva che il paese tutto si fosse destato, in quel chiarore fantastico di neve, perché, oltre al suono delle campane, si sentivano canti e grida.

Nella casetta del vicino, invece, adesso, tutti tacevano: anche le bambine ancora accovacciate intorno al focolare pareva si fossero addormentate aspettando però ancora, in sogno, un dono meraviglioso.

All’entrata di Felle si scossero, guardarono la coscia del porchetto che egli scuoteva di qua e di là come un incensiere, ma non parlarono: no, non era quello il regalo che aspettavano.

Intanto Lia era scesa di corsa dalla cameretta di sopra: prese senza fare complimenti il dono, e alle domande di Felle rispose con impazienza:

– La mamma si sente male: ed il babbo è andato a comprare una bella cosa. Vattene.

Egli rientrò pensieroso a casa sua. Là non c’erano misteri né dolori: tutto era vita, movimento e gioia. Mai un Natale era stato così bello, neppure quando viveva ancora il padre: Felle però si sentiva in fondo un po’ triste, pensando alla festa strana della casa dei vicini.

Al terzo tocco della messa, il nonno del fidanzato batté il suo bastone sulla pietra del focolare.

– Oh, ragazzi, su, in fila.

E tutti si alzarono per andare alla messa. In casa rimase solo la madre, per badare agli spiedi che girava lentamente accanto al fuoco per far bene arrostire la carne del porchetto.

I figli, dunque, i fidanzati e il nonno, che pareva guidasse la compagnia, andavano in chiesa. La neve attutiva i loro passi: figure imbacuccate sbucavano da tutte le parti, con lanterne in mano, destando intorno ombre e chiarori fantastici. Si scambiavano saluti, si batteva alle porte chiuse, per chiamare tutti alla messa.

Felle camminava come in sogno; e non aveva freddo; anzi gli alberi bianchi, intorno alla chiesa, gli sembravano mandorli fioriti. Si sentiva insomma, sotto le sue vesti lanose, caldo e felice come un agnellino al sole di maggio: i suoi capelli, freschi di quell’aria di neve, gli sembravano fatti di erba.

Pensava alle cose buone che avrebbe mangiato al ritorno dalla messa, nella sua casa riscaldata, e ricordando che Gesù invece doveva nascere in una fredda stalla, nudo e digiuno, gli veniva voglia di piangere, di coprirlo con le sue vesti, di portarselo a casa sua.

Dentro la chiesa continuava l’illusione della primavera: l’altare era tutto adorno di rami di corbezzolo coi frutti rossi, di mirto e di alloro: i ceri brillavano tra le fronde e l’ombra di queste si disegnavano sulle pareti come sui muri di un giardino. In una cappella sorgeva il presepio, con una montagna fatta di sughero e rivestita di musco: i Re Magi scendevano cauti da un sentiero erto, e una cometa d’oro illuminava loro la via.

Tutto era bello, tutto era luce e gioia. I Re potenti scendevano dai loro troni per portare in dono il loro amore e le loro ricchezze al figlio dei poveri, a Gesù nato in una stalla; gli astri li guidavano; il sangue di Cristo, morto poi per la felicità degli uomini, pioveva sui cespugli e faceva sbocciare le rose; pioveva sugli alberi per far maturare i frutti.

Così la madre aveva insegnato a Felle e così era.

– Gloria, gloria – cantavano i preti sull’altare: e il popolo rispondeva:

– Gloria a Dio nel più alto dei cieli.

E pace in terra agli uomini di buona volontà. Felle cantava anche lui, e sentiva che questa gioia che gli riempiva il cuore era il più bel dono che Gesù gli mandava.
All’uscita di chiesa sentì un po’ freddo, perché era stato sempre inginocchiato sul pavimento nudo: ma la sua gioia non diminuiva; anzi aumentava.

Nel sentire l’odore d’arrosto che usciva dalle case, apriva le narici come un cagnolino affamato; e si mise a correre per arrivare in tempo per aiutare la mamma ad apparecchiare per la cena.

Ma già tutto era pronto. La madre aveva steso una tovaglia di lino, per terra, su una stuoia di giunco, e altre stuoie attorno. E, secondo l’uso antico, aveva messo fuori, sotto la tettoia del cortile, un piatto di carne e un vaso di vino cotto dove galleggiavano fette di buccia d’arancio, perché l’anima del marito, se mai tornava in questo mondo, avesse da sfamarsi.

Felle andò a vedere: collocò il piatto ed il vaso più in alto, sopra un’asse della tettoia, perché i cani randagi non li toccassero; poi guardò ancora verso la casa dei vicini. Si vedeva sempre luce alla finestra, ma tutto era silenzio; il padre non doveva essere ancora tornato col suo regalo misterioso.

Felle rientrò in casa, e prese parte attiva alla cena. In mezzo alla mensa sorgeva una piccola torre di focacce tonde e lucide che parevano d’avorio: ciascuno dei commensali ogni tanto si sporgeva in avanti e ne tirava una a sé: anche l’arrosto, tagliato a grosse fette, stava in certi larghi vassoi di legno e di creta: e ognuno si serviva da sé, a sua volontà.

Felle, seduto accanto alla madre, aveva tirato davanti a sé tutto un vassoio per conto suo, e mangiava senza badare più a nulla: attraverso lo scricchiolìo della cotenna abbrustolita del porchetto, i discorsi dei grandi gli parevano lontani, e non lo interessavano più.

Quando poi venne in tavola la torta gialla e calda come il sole, e intorno apparvero i dolci in forma di cuori, di uccelli, di frutta e di fiori, egli si sentì svenire: chiuse gli occhi e si piegò sulla spalla della madre. Ella credette che egli piangesse: invece rideva per il piacere.

Ma quando fu sazio e sentì bisogno di muoversi, ripensò ai suoi vicini di casa: che mai accadeva da loro? E il padre era tornato col dono?

Una curiosità invincibile lo spinse ad uscire ancora nel cortile, ad avvicinarsi e spiare. Del resto la porticina era socchiusa: dentro la cucina le bambine stavano ancora intorno al focolare ed il padre, arrivato tardi ma sempre in tempo, arrostiva allo spiedo la coscia del porchetto donato dai vicini di casa.

Ma il regalo comprato da lui, dal padre, dov’era?

– Vieni avanti, e va su a vedere – gli disse l’uomo, indovinando il pensiero di lui.

Felle entrò, salì la scaletta di legno, e nella cameretta su, vide la madre di Lia assopita nel letto di legno, e Lia inginocchiata davanti ad un canestro.

E dentro il canestro, fra pannolini caldi, stava un bambino appena nato, un bel bambino rosso, con due riccioli sulle tempie e gli occhi già aperti.

– È il nostro primo fratellino – mormorò Lia. – Mio padre l’ha comprato a mezzanotte precisa, mentre le campane suonavano il “Gloria”. Le sue ossa, quindi, non si disgiungeranno mai, ed egli le ritroverà intatte, il giorno del Giudizio Universale. Ecco il dono che Gesù ci ha fatto questa notte.

Con questo racconto di speranza e serenità di un’autrice così rilevante, “Chambra d’Óc” e “Tsambra Fracoprovensal” ci tengono ad augurare a tutti un Natale di pace e di tranquillità.

Buon Natale a tutti.

occitan

Lo don de Deneal

Lhi cinc fraires Lobina, tuchi pastres, tornavon da lors ovils, per passar la nuech de Deneal en familha.

Era na fèsta excepcionala, per lor, aquel an, perqué se fiançava lor soleta sòrre, abo un jove pro ric.

Coma la se costuma en Sardenha, donca, lo fiançat devia mandar un regal a sa promessa esposa, e après anar decò nele a passar la fèsta abo la familha de nilhi. E lhi cinc fraires volion far corona a la sòrre, decò per demostrar al futur conhat que se eron ren rics coma nele, en chambi eron fòrts, sans, units entre lor coma un grop de guerriers.

Avion mandat anant lo fraire pus pichòt, Felle, un bèl filh de onze ans, abo d’uelhs grands e dòuç, vestit de pèls lanosas coma un pichòt Sant Joan Batista; portava sus las espalas na bisaça, e ent la bisaça un crinet just maçat que devia servir per la cina.

Lo pichòt país era coatat de neu; las casetas nieras, adossaas a la montanha, semelhavon dessenhaas sus un carton blanc, e la gleisa, dessobre un terraplen resut da de rochàs, environaa d’arbols charjats de neu e de glaçons, apareissia coma un d’aquilhi edificis fantàstics que dessenhon las núvolas.

Tot era silenci: lhi abitants semelhavon enterrats dessot la neu.

Dins la via que menava a sa casa, Felle trobet masque, dessot la neu, las emprontas d’un pè de frema, e se demoret a chaminar-lhi sus. Las peaas quitavon justament derant al grossier canchèl de bòsc de la cort que sa familha possedia en comun abo n’autra familha decò de pastres encà pus paures de lor. Las doas chabòtas, una per part de la cort, se semelhavon coma doas sòrres; da las chemineias salhia la tuba, da las portetas transpareission de fils de lutz.

Felle sublet, per anonciar son arrubaa: e sal colp, da l’uis dal vesin s’esguinchet na mendia abo lo morre ros dal freid e lhi uelhs lusents de jai.

«Ben tornat, Felle».

«Òh, Lia!» criet nele per rechambiar lo salut, e s’avesinet a la porteta d’ente, aüra, abo la lutz salhia decò la tuba d’un grand fuec avisc ental foier al metz de la cusina.

A l’entorn dal foier eron setaas las sorretas de Lia, per tenir-las bònas la majora d’elas, o ben aquela que venia après l’amisa de Felle, lor distribuïa quarque grana d’ua passa e chantava na chançoneta d’ocasion, na nina-nana per l’Enfant Jesú.

«Çò que as aquí?» demandet Lia, en truchant la bisaça de Felle. «Ah, lo crinet. Decò la serventa dal fiançat de ta sòrre a já portat lo regal. Fasarètz granda fèsta vosautri», jontet abo na cèrta envídia; mas après se repilhet e anonciet abo jai maliciosa: «e decò nosautri!».

En van Felle lhi demandet que fèsta era: Lia lhi sarret la pòrta en facha, e nele atraverset la cort per intrar en cò siu.

En cò siu se sentia da bòn odor de fèsta: odor de torta de mèl cuecha al forn, e de dòuç confeccionats abo de pelalhas d’iranges e d’amèlas tostaas. Tant que Felle encomencet a crúisser las dents, en lhi semelhant já d’esbrisar totas aquelas causas bònas mas encara estremaas.

La sòrre, auta e prima, era já vestia da fèsta; lo corset de brocat vèrd e la còta niera e rossa: a l’entorn dal morre palli avia un mochet de sea a flors; e decò si chaucierets eron tuchi brodats e abo lo flòc: en soma, semelhava na jove faia, mentre la maire, tota vestia de nier per sa recenta vedovança, pàllia decò nilhi mas escura en morre e abo n’aire de supèrbia, auria porgut navisar la figura de na mascha, sensa la granda doçor di uelhs que semelhavon a aquilhi de Felle.

Nele entrementier tirava fòra da la bisaça lo crinet, tot ros perqué lhi avion tench la coena abo son sang: e après aver-lo consenhat a la maire volet veire aquel mandat en don dal fiançat. Bò, era pus gròs aquel dal fiançat: esquasi un puerc, mas aquel portat da nele, pus tenre e sensa graissa, devia èsser pus saborós.

Mas que fèsta pòlon far nòstri vesins, se an masque un pauc d’ua passa, mentre nosautri avem aquestas doas gròssas bèstias en casa? E la torta, e lhi dòuç?” penset Felle abo mesprèsi, encà fachat perqué Lia, après aver-lo esquasi sonat, lhi avia sarrat la pòrta sal morre.

Après arruberon lhi autri fraires, en portant dins la cusina, derant tota en òrdre e polita, las peaas di lors escarpons plens de neu, e lor flaira de sarvatge. Eron tuchi fòrts, bèls, abo d’uelhs niers, la barba niera, lo corpet estrech coma na coraça e, dessús, la mastruca.

Quora intret lo fiançat s’auceron tuchi en pè, da cant a la sòrre, coma per far da bòn na sòrta de còrp de gàrdia a l’entorn de sa figura fina e delicaa; e ren tant per regard vèrs lo jove, que era encà esquasi un garçon, bòn e tímid, mas per l’òme que l’acompanhava. Aqueste òme era lo peté dal fiançat. Vielh de mai de otant’ans, mas encà drech e robust, vestit de drap e de velut coma un gentilòme medieval, abo las guetas de lana sus las chambas fòrtas, aqueste peté, que da jove avia combatut per l’indipendença d’Itàlia, faset un salut militar a lhi cinc fraires e semelhet puei passar-lhi en revista.

E resteron tuchi contents.

Al vielh foguet assenhat lo pòst melhor, arramba al fuec; e alora sus son pitre, entre lhi botons lusents de son corpet, se veiet decò brilhar coma un pichòt astre sa vielha medalha al valor militar. La fiançaa lhi verset da beure, après verset da beure al fiançat e aqueste, en prenent lo bichèr, lhi butet en man, d’estremat, na monea d’òr.

Nilhi lo remerciet abo lhi uelhs, puei, decò nilhi d’estremat, anet a far veire la monea a la maire e a tuchi lhi fraires, en òrdre d’etat, mentre lor portava lo bichèr plen.

Lo darrier foguet Felle: e Felle temptet de pilhar-lhi la monea, per esquèrs e curiositat, s’entend: mas nilhi sarret lo punh menaçanta: pustòst lhi auria donat un det.

Lo vielh aucet lo bichèr, en augurant salute e jai a tuchi; e tuchi responderon en còr.

Puei se buteron a devisar dins na maniera originala: en chantant. Lo vielh era un brave poèta extemporàneu, o ben emprovisava de chançons; e decò lo fraire major de la fiançaa saubia far autant.

Entre lor dui donca entoneron na gara d’octavas, sus d’alègres argoments d’ocasion; e lhi autri escotavon, fasion còr e picavon las mans.

Defòra las clòcas soneron, en anonciant la messa.

Era lo temp de començar a preparar la cina.

La maire, ajuaa da Felle, destachet las cueissas a lhi dui crinets e las enfilet dins tres lònjas bròchas en tenent lo mani fèrm a tèrra.

«La quarta la portarès en regal a nòstri vesins» diset a Felle: «decò lor an lo drech de gòder-se la fèsta».

Tot content, Felle prenet per la piòta la cueissa bèla e grassa e salhet dins la cort.

La nuech era jalaa mas calma, e d’un crep semelhava que tot lo país se foguesse desvelhat, dins aquela claror fantàstica de neu, perqué, en mai dal sòn de las clòcas, se sention de chants e de crits.

Dins la caseta da pè, ensita, aüra, tuchi tasion: decò las mainaas encà acoconaas a l’entorn dal foier semelhava que se foguesson enduermias mas en atendent encara, ent un sumi, lo don meravilhós.

A l’intraa de Felle ressauteron, beiqueron la cueissa dal crinet que nele sopatava d’icí e d’ilai coma un encensier, mas parleron pas: no, era ren aquel lo regal que atendion. Entrementier Lia era calaa de corsa da l’estancieta de dessobre: prenet lo don sensa far de compliments, e a las demandas de Felle respondet abo impaciença:

«Mama se sent mal: e mon paire es anat a chatar na bèla causa. Vai-te ne’n». Nele rintret a casa pensierotge. Ilai lhi avia pas de mistèris ni de dolors: tot era vita, moviment e jai. Jamai un Deneal era istat parelh bèl, nimanc quora vivia encà lo paire: mas Felle en fons se sentia un pauc trist, en pensant a l’estrana fèsta de la casa di vesins.

Al tèrç colp de la messa, lo peté dal fiançat piquet son baston sus la peira dal foier.

«Ditz, filhs, alè, tuchi en fila».

E tuchi s’auceron per anar a la messa. En casa restet masque la maire, per, beicar las bròchas que virava lentament da cant al fuec per far ben rostir la charn dal crinet. Donca lhi filhs, lhi fiançats e lo peté, que semelhava guidar la companhia, anavon a la gleisa. La neu amortia lors pas: de figuras embacucaas esponchavon da tuchi lhi cants, abo de lantèrnas en man, en auçant a l’entorn d’ombras e de lusors fantàsticas. S’eschambiavon de saluts, se picava a lhi uis serrats, per sonar tuchi a la messa.

Felle chaminava coma ent un sumi; e avia pas freid; ansi lhi àrbols blancs, a l’entorn de la gleisa, lhi semelhavon d’ameliers florits. En soma, dessot si vestits lanós, se sentia chaud e urós coma n’anhelet al solelh de mai: si pels, frescs d’aquel aire de neu, lhi semelhavon fachs d’èrba. Pensava a las causas bònas que auria minjat al retorn da la messa, dins sa casa chauda, e en recordant que Jesú al contrari devia nàisser dins un freid estable, nu e dejun, lhi venia vuelha de plorar, de coatar-lo abo si vestits, de portar-se lo en cò siu.

Dins la gleisa continuava l’illusion de la prima, l’altar era tot ornat de ramas d’arboç abo lhi fruchs ros, de nèrta e de laurier: lhi ciris lusion al metz de las brondas e l’ombra d’aquestas se dessenhava sus las parets coma sus lhi murs d’un jardin.

Dins na chapèla lhi avia lo presèpi, abo na montanha facha de nata e revestia de musc: lhi Reis Mages calavon prudents da un viòl resut, e na cometa d’òr lor esclarzia la via.

Tot era bèl, tot era lutz e jai. Lhi Reis potents calavon da lors trònes per portar en don lor amor e lors richessas al filh di paures, a Jesú naissut dins n’estable; lhi astres lhi guidavon; lo sang de Crist, mòrt per la felicitat de lhi òmes, plovia sus lhi boissons e fasia descoconar las ròsas; plovia sus lhi àrbols per far maürar lhi fruchs.

Parelh la maire avia mostrat a Felle e parelh era.

«Glòria, glòria» chantavon lhi preires sus l’altar, e lo pòple respondia:

«Glòria a Diu ental pus aut di cèls. E patz en tèrra a lhi òmes de bòna volontat».

Decò Felle chantava, e sentia que aquela jai que lhi remplia lo còr era lo pus bèl don que Jesú lhi mandava.

A la sortia de la glesia sentet un pauc freid, perqué era sempre istat enjanolhat sal paviment: mas sa jai diminuïa pas; ansi, creissia. En sentent l’odor d’arròst que salhia da las casas, duerbia las nàrrias coma un chanet afamat; e se butet a córrer per arrubar en temp per ajuar la maire a preparar la taula per la cina. Mas era já tot prè st. La maire avia estendut na tovalha de lin, per tèrra, sus un palhet de gora, e d’autri palhets a l’entorn. E, second l’antica usança, avia butat defòra, dessot la teulaa de la cort, un tondin de charn e un vas de vin cuech ente flotavon de leschas de pelalha d’irange, per que l’ànima de l’òme, se jamai tornava ent aqueste mond, auguesse da esfamar-se. Felle anet a veire: placet lo tondin e lo vas pus en aut, dessobre na pòst de la teulaa, per que lhi chans raments lhi truchesson pas; après beiquet encara vèrs la casa di vesins. Se veïa sempre la lutz a la fenèstra, mas tot era silenci; lo paire devia pas encà èsser tornat abo son regal misteriós.

Felle rintret dins casa, e partecipet ben a la cina.

Al metz de la mensa lhi avia la pichòta tor de fogassas reondas e lúcidas que semelhavon d’avòri: chascun di commensals mincatant s’esporzia en anant e ne’n tirava una vèrs nele: decò l’arròst, talhat a gròssas tranchas, era dins de largs platèls de bòsc e de creta: e chascun se servia da solet, a sa volontat.

Felle, setat arramba a la maire, s’era tirat derant tot un platèl per nele, e minjava sensa pus far cas a ren: a travèrs l’escruis de la coena brusateaa dal crinet, lhi descors di grands lhi semelhavon luenhs, e l’interessavon pus.

Quora puei arrubet sus la taula la torta jauna e chauda coma lo solelh, e a l’entorn apareisseron lhi dòuç sot forma de còrs, d’aucèls, de frucha e de flors, se sentet mancar: sarret lhi uelhs e se pleguet sus l’espala de sa maire. Nilhi creiet que ploresse: enveche riïa per lo plaser.

Mas quora foguet saule e sentet da manca de bojar-se, penset mai a si vesins: çò que se passava en cò lor? E lo paire era tornat abo lo don?

Na curiositat invincibla lo posset a salhir encà dins la cort, a avesinar-se per espiar. D’autre cant la porteta era embalhaa: dins la cusina las mainaas eron encà a l’entorn dal foier e lo paire, arrubat tard mas sempre en temp, rostia sus la bròcha la cueissa dal crinet semost da lhi vesins de casa.

Mas lo regal chatat da nele, dal paire, ente era?

«Ven anant, e vai veire amont» lhi diset l’òme, en envinant son pensier.

Felle intret, montet l’eschaleta de bòsc, e dins l’estancieta, amont veiet la maire de Lia apenolia ental liech de bòsc, e Lia enjanolhaa derant a na cista.

E dins la cista, al metz de patas chaudas, lhi avia un filhet just naissut, un bèl filhet ros, abo dui riçolins sus las templas e lhi uelhs já dubèrts.

«Es nòstre premier frairet» besodeet Lia. «Mon paire l’a chatat a mesanuech, mentre las clòcas sonavon lo “Glòria”. Si òs, pr’aquò, se desjonharèn jamai, e nele lhi trobarè intacts, lo jorn dal Judici Universal. Vaicí lo don que Jesú nos a fach aquesta nuech.»


Condividi