Tragùdia e Machbettu di Alessandro Serra
Poter sentire il suono delle lingue minoritarie al di fuori dei loro ristretti confini territoriali d’elezione è piuttosto difficile. Che lo si possa incontrare in tutta Italia, da Bologna a Torino, da Rimini a Sassari, da Cagliari a Genova, Parma, Savona, Roma… o addirittura in Europa è privilegio raro.
Accade con il progetto teatrale di Alessandro Serra che dopo il sardo di Machbettu sposa la lingua grecanica.
Ha appena portanto in scena Tragùdia. Il canto di Edipo, liberamente ispirato all’Edipo re e all’Edipo a Colono di Sofocle.
Per farlo nella maniera più consona alla sua poetica ha deciso di far recitare la sua compagnia in griko. «L’italiano – spiega l’autore, regista e scenografo – sembra abbassare il tragico a un fatto drammatico. Abbiamo perciò scelto il grecanico, lingua che ancora oggi risuona in un angolo remoto di quella che fu la Magna Grecia, una striscia di terra che dal mare si arrampica sull’Aspromonte scrutando all’orizzonte l’Etna».
Per celebrare rito e mito, quale linguaggio più adatto? Quale migliore opportunità se non quella di cercare di riprodurre la dimensione sonora della tragedia utilizzando una lingua minoritaria che ha radici nella Magna Grecia e che quasi per miracolo risorge dal passato per essere, con continuità, riproposta nel presente grazie a una comunità esigua, appassionata e orgogliosa?
La legge nazionale sulle lingue minoritarie (n. 482/1999) ha riconosciuto il griko, che l’Atlante Unesco delle lingue in pericolo pone tra quelle più seriamente minacciate. Questo, ovviamente, per l’esigua quantità dei parlanti, tutti residenti in quella che viene denominata la Calabria grecanica e che comprende i Comuni di Reggio Calabria, Bova, Bova Marina, San Lorenzo, Palizzi, Brancaleone, Roghudi, Bagaladi, Condofuri, Melito di Porto Salvo, Montebello Jonico, Motta San Giovanni, Samo e Staiti.
La professoressa Marianna Katsoyannou, docente di linguistica generale presso la Facoltà di Studi Bizantini e Neogreci dell’Università di Cipro, stabilì nel 2001 che gli ellenofoni calabresi erano meno di 500, quasi per intero distribuiti tra Gallicianò (frazione del comune di Condofuri), Bova e Roghudi.
Con coraggio Alessandro Serra esplora dunque una lingua in disfacimento che, tuttavia, mantiene una potenza comunicativa che sembra generata dalla sua appartenenza all’epoca in cui nasce la tragedia di Sofocle, quel grido che è esortazione a trovare la maniera per elaborare il lutto per la perdita della polis e del sacro. Con il suo messaggio potente che, come il griko, parla ancora a noi che abitiamo la contemporaneità.
«In un’epoca di macerie non c’è altra possibilità che lavorare su ciò che resta, soffiare sulle ceneri per riattivare il fuoco». E subito la nostra mente evoca il forte richiamo a quel «Lo fuec es encà ros dessot la brasa» di Dario Anghilante e Sergio Sodano, prima canzone-simbolo della consapevolezza occitana.
Parlare le lingue, lo diciamo come un mantra ripetuto continuamente, è l’unica maniera per mantenerle vive. Il regista compie dunque un’operazione salvifica, un tentativo disperato di supplicare chi ancora la parla a non lasciarla cadere. E al pubblico fa sapere che nel nostro patrimonio culturale ricco di diversità esistono anche le lingue minoritarie.
Per farlo si è avvalso della traduzione di Salvino Nucera, poeta di Chorio de Roghudi e “custode” del grecanico. Professore e scrittore, ha dato un contributo fondamentale attraverso l’attività accademica e, come autore prolifico, alla tutela e diffusione della storica lingua. Opere poetiche e romanzi in cui si muove alla continua ricerca di parole antiche che covano sotto la cenere e che lui ha chiamato “Loghia Diaforiména”, parole sparpagliate, che è anche titolo di una sua raccolta di poesie.
Per Alessandro Serra, visionario regista, fotografo all’origine e, in continuità, poeta della retina e dell’anima, il ricorso alle lingue minoritarie e la loro riproposizione, non è di oggi.
Risale al suo primo grande successo allorché utilizzò il sardo, sua lingua di origine, per mettere in scena Machbettu (Premio UBU 2017), libera riproposizione del Macbeth shakespeariano, recitata rigorosamente solo da maschi secondo la rigida regola del teatro elisabettiano.
L’idea nacque nel corso di un reportage fotografico tra gli arcaici carnevali della Barbagia animati dai suoni cupi di campanacci e antichi strumenti, pelli di animali, corna, sughero… Manifestazioni di antica tradizione in cui rimbalzano riti dionisiaci che emergono dalle tenebre del passato remoto, animati dalla potenza dei gesti e della voce, accompagnati dalla scansione perfetta dei movimenti delle danze armonicamente sintonici con i canti.
Su tutto il buio dell’inverno, contrappuntato dalle fosche maschere; e poi il sangue, il vino rosso, l’eterno scontro tra le forze della natura e l’ambiziosa presunzione dell’Uomo di dominarle. Una dimensione perfetta in cui collocare il capolavoro shakespeariano e i tipi e le maschere della Sardegna.
Il tocco magico giunge dalla lingua sarda; anche in questo caso l’italiano avrebbe riportato a letteratura quello che per Serra doveva essere canto. Sublimato dall’intervento di Pinuccio Sciola, le cui pietre si fanno arma, nuraghe, ma soprattutto suono: la voce della Sardegna, la sua memoria taciuta per millenni.
A questi suoni si affianca quello della lingua sarda: «È la lingua di mio padre, un suono aspro, asciutto, tagliente. Una lingua cruda eppure incredibilmente musicale. Un suono che ha accompagnato le mie estati dai nonni. Quando nel 2006 andai a Lula e poi a Bitti, Orgosolo, Gavoi, inseguendo i carnevali e i canti a tenore, quel suono che un tempo capivo e che mi faceva paura risuonò in me e mi sembrò perfetto per raccontare quel tragico destino. In Shakespeare c’è la vita, non si può declamare. Le parole devono sgorgare. In italiano le traduzioni, anche le migliori, sono comunque verbose, non c’è vita scenica, non si possono dire, non c’è azione: la voce declama, il corpo tace. Con questo non voglio dire che non si possa recitare in italiano. L’ho fatto e continuerò a farlo, ma ci vuole un lavoro enorme che non possono fare i letterati. Devono farlo gli attori, perché bisogna trasformare le parole scritte in parole parlanti e parlabili».
Auspichiamo che Alessandro Serra, nel suo viaggio di artista esploratore e creativo, possa incontrare altre lingue della nostra ricca penisola per far comprendere a tutti, ma soprattutto agli ultimi, orgogliosi e ostinati parlanti, quanto sia necessario oggi, davanti alla standardizzazione e omologazione culturale consumistica su cui già Pier Paolo Pasolini mise in guardia, che si mantengano isole di diversità che sono prima di tutto linguistiche ma che si accompagnano a una resistenza culturale che indica nuovi possibili modelli di vita e di sviluppo. In alternativa a una contemporaneità che ha eretto a nuovi Dei la competizione, il mercato, il profitto, per perpetuare ingiustizie e diseguaglianze.
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