Conobbi Fabian Ros (Fabiano Rosso) al CEC di Udine, Centro di Espressioni cinematografiche, verso la fine degli anni ‘90. Aveva creato un festival di cinema delle minoranze linguistiche, la Mostre del cine furlan. Mi invitò ad alcune edizioni con i i miei lavori cinematografici ed altre volte come giurato per la sezione sceneggiature. Fabian si rivelò un nazionalista friulano, un militante con le idee chiare, indenne da ogni folclorismo, capace di pensare a un’alleanza tra minoranze e per nulla imbarazzato ad affrontare temi quale l diritto all’autodeterminazione dei popoli. Esperto di cinema, pensava che attraverso la settima arte il mondo delle minoranze linguistiche potesse crescere e migliorare la propria lotta, le rivendicazioni, in una visione internazionalista. Nel frattempo Fabian Ros aveva fondato, nell’ambito delle pubblicazioni del CEC, la rivista in friulano Segnâi di lûs. Un periodico ben fatto, elegante, con ottima impaginazione, bellissimi articoli, reportages e fotografie, a cui ebbi modo di partecipare con articoli e interviste.
Ciò tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni del 2000.
Dopodiché, i contatti si allentarono. Raggiunta (credo) l’età della pensione, Fabian scomparve dal mio orizzonte. Da poco ci è tornato: complice l’amico Giorgio Placereani, critico cinematografico e collaboratore del CEC.
È stato Giorgio a darmi notizie, soprattutto a passarmi l’indirizzo email di Fabian. Ho scoperto così che la sua militanza non è mai venuta meno. Anzi, in un certo senso si è rafforzata. Rinvigorita.
Fabian infatti è autore di tre libri saggio, Indipendence (399 pag.), La ideologie evoluzioniste (121 pag.), La invenzion dal stât (150 pag.), scritti in friulano dalla prima all’ultima pagina, e badate bene, senza traduzione italiana a fronte o in qualsivoglia altra maniera. Il che è una prova di volontà, di fiducia nella propria lingua, e per estensione nelle lingue minorizzate, per cui una lingua è tale se è capace di esprimere ogni concetto, ogni cosa, per citare il nostro Joan Bodon. Quindi, non solo prosa, non solo poesia, etnologia ecc.
Fabian mette in atto, concretamente, una prova di forza del friulano, mostra i muscoli e afferma senza tentennamenti che “in friulano si può dire, si può scrivere”. In friulano egli conduce il lettore attraverso una raffinata analisi politica delle società contemporanee, le ideologie e i movimenti che hanno segnato il Novecento, le contraddizioni nella lotta per l’autodeterminazione dei popoli (nazioni) sottomessi, colonizzati. Un’analisi che si spinge (finalmente) verso nuove proposte e a concepire il fallimento e la fine dei cosiddetti stati nazionali che non possono più essere un obiettivo delle minoranze linguistiche senza stato.
Scrive Fabian (traduco dal friulano) in La invenzion dal stât:
“In questi tempi in cui popoli e nazioni prendono coscienza della loro identità, e mostrano la volontà di prendere in mano il loro destino, appare sempre più chiaramente che a contrastare le nazioni storiche e le identità dei popoli non è solo una politica centralista e antinazionalitaria ma la forma stessa dello Stato. E se da una parte la voglia di autodeterminazione dei popoli viene fuori con una forza sempre più marcata, questa si manifesta spesso in un modo contraddittorio, a volte ambiguo. Infatti, resta in piedi l'interrogativo principe, cioè quello di sapere se per indipendenza dei popoli storici si vuole riproporre il modello istituzionale statalista dove ogni realtà etnica venga inserita in una maniera più coerente e omogenea oppure se occorre una organizzazione alternativa a quella che abbiamo conosciuto fino ad ora, una alternativa al giogo statalista che permetta ai popoli di emanciparsi e si sbocciare completamente. In altre parole si tratta di sapere quali sono gli obiettivi dei movimenti nazionalitari: liberarsi da uno Stato centralizzato per formarne un altro o se, per una vera liberazione, occorra elaborare un altro sistema di convivenza civile”.
Il libro saggio Indepedence, mi ha ricordato per alcuni suggestivi rimandi, La clef di Ben Vautier - atlas collectif ethno-linguistique, contenant analyses, cartes, textes théoriques et propositions pour régler les conflits ethniques dans le monde. Un saggio che, al di là delle intenzioni e dei narcisismi del curatore, perdonabili a un artista, analizza, a partire dalle lingue, i popoli del mondo secondo i principi di François Fontan. L’indice di Indipendence mostra come Fabian Ros abbia saputo spaziare fra i popoli dei vari continenti, dando conto delle loro lotte, delle ideologie, delle affermazioni e dei fallimenti, ma qui mi limito a proporre ai lettori di Nòvas l’introduzione (sempre tradotta dal friulano):
“La questione del diritto dei popoli all’autodeterminazione viene qui affrontata partendo da tre fattori determinanti: quello economico, quello statuale e quello internazionale. Sul piano economico si tratta di superare il preconcetto primario secondo cui ogni discorso critico e interpretativo (e quindi propositivo) che tocca l’economia deve essere affrontato all’interno di un impianto precostituito, di una cornice ineluttabile, di una struttura mentale che vede il sistema esistente come organismo naturale, tenuto insieme da leggi naturali, dove quindi ogni analisi critica può essere fatta solo all’interno di quel paradigma. Allo stesso modo in cui un ingegnere o un architetto può sì ideare e progettare ponti o palazzi in forma, struttura o materiale del tutto originali, ma non può però prescindere dalle leggi della fisica, della geologia e della natura in generale.
Questa assimilazione delle scienze umane con quelle naturali porta ad una visione del mondo in cui l'economia è calcolata scienza e messa al posto di comando. In cui, inoltre, il termine “economico” deve essere sempre coniugato con “mercato” in un incontro che dovrebbe corrispondere alle leggi della natura. Un sistema descritto come inevitabile e come l’unico possibile. Il pensiero dominante, analizza la vicenda storica dell'uomo secondo questo modello spacciato per “scientifico” e al quale ogni comunità (civile e politica) deve adeguarsi.
Prima di tutto si tratta di mettere in discussione questo teorema, altrimenti ogni ulteriore passo risulterebbe un fallimento. Si deve quindi sostenere che tale adeguatezza è discutibile sul piano metodologico e falsa sul piano storico. Se si vuole affrontare la questione dei cambiamenti politici, bisogna prima cambiare quel paradigma perché all’interno di quel paradigma qualsiasi mutamento si rivelerebbe illusorio.
Se è vero che Marx definisce l'economia di mercato come una delle forme possibili dell'economia, egli tuttavia calcola l'economia come elemento strutturale della società ma non calcola il peso (come Weber o Polanyi) dei dati culturali.
La struttura della nostra società si fonda su due pilastri: il primo è rappresentato dall’economicismo figliastro della filosofia materialista, da un materialismo che calcola la comunità umana come un aggregato di individui il cui impiego è produrre per nutrirsi e sopravvivere (l'uomo sarebbe solo ciò che mangia) e lo fanno sotto la spinta di quello che oggi chiamiamo “mercato”.
In quest’ottica, l’organizzazione di una società deve portare in primo piano la questione produttiva, che in un contesto capitalista si traduce nell’ossessione produttivistica.
Il secondo aspetto è rappresentato dallo statalismo.
Questo secondo pilastro calcola l’istituzione dello Stato come telaio insuperato e insuperabile della vita civile.
È a partire da queste basi che si sviluppa il discorso politico dominante ed è a partire da lì che bisogna attingere per contestualizzare il discorso identitario.
Il discorso e la battaglia per l’identità e l’indipendenza dei popoli dovranno essere inscenati e sviluppati in opposizione all’ideologia statalista ed economicista, dove lo Stato e il terreno ideologico in cui si innesta tendono ad escludere ogni rivendicazione e ogni battaglia di natura identitaria e nazionalitaria calcolata un pericolo per il sistema dominante nel suo complesso.
Il terzo pilastro: quello etnico.
Quando si parla della questione etnica questa viene spesso travisata e reinterpretata o in senso “etnografico” (inserita nel campo della ricerca antropologica) o in senso contrario al suo significato primario, cioè interpretata in forma “identitaria”, con una colorazione ideologica suprematista o con intenti di chiusura ed esclusione. In realtà, lo Stato e l’ideologia suprematista sono sempre stati la tomba dei popoli “storici”, cioè la tomba delle realtà etniche, della loro cultura, lingua e identità. Il coerente appello alla difesa e all’autodeterminazione dei popoli mette in discussione l’esistenza dello Stato, e la contestazione dell’esistenza dello Stato è coerente e realizzabile solo nella misura in cui mette in discussione non solo il sistema economico dominante, ma l’ideologia materialista che ne rappresenta il fondamento.
Ancora di più. Non esistono, salvo casi del tutto eccezionali e incidentali, stati etnici. Lo Stato è uno strumento il cui scopo è assumere non la rappresentanza e la rappresentazione di un popolo storico, ma il dominio territoriale e centralizzato in funzione e per la difesa di un sistema produttivo e dei suoi proprietari e rappresentanti. Il “popolo” entro il quale è costretto, non è altro che un miscuglio di popoli uno diverso dall’altro, inquadrati nelle sembianze e dietro la maschera di un "popolo" artificiale, artefatto, inventato per fare da carne da cannone, massa di consumatori e forza lavoro del sistema produttivo. Di questi popoli, una minoranza ha conservato la coscienza identitaria, altri, quelli che sventolano due bandiere, solo parzialmente, altri ancora per nulla.
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La realtà di oggi ci sta mostrando che altre forme sono possibili perché questo sistema non è assoluto, naturale e inalienabile ma è il risultato di una scelta arbitraria che, una volta accettata socialmente, appare naturale.
L’alternativa può essere solo quella di un processo che mostri e dimostri con atti e fatti un altro mondo possibile, fatti e atti che possono essere espressi solo da un’autorialità in grado di proporre valori che trascendono il dato economicista.
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Per ottenere questo è necessario ribaltare la scala delle priorità che pone l’economia in alto, la politica in basso e infine il sapere. Una società così strutturata vede tutte le scelte come asservite agli interessi economici e quindi, in effetti, la produzione di conoscenza deve essere isolata in un contesto di tensione materialista poiché la subordinazione all’economia richiede una conoscenza funzionale alla materialità. Una conoscenza subordinata all'economia si occuperà dell'interpretazione del mondo materiale e del suo sfruttamento in modo diretto o indiretto, perché è da quel mondo che l'economia trae il suo profitto. E dal momento che è il mondo economico che si trova nella parte più alta del sistema di potere, è il mondo economico che finanzia e dà direttive alle istituzioni scientifiche, interpretative e formative. Conoscere sarà conoscere solo tutto ciò che è materiale.
Per un cambiamento radicale della società occorre quindi, innanzitutto, liberare la conoscenza dalla schiavitù del materialismo e di un'ideologia che limita e condiziona in tutti i sensi la realizzazione dell'uomo e della comunità in cui vive e che lo identifica.
L’opera di Fabian Ros purtroppo non conosce una diffusione adeguata (quella che a mio avviso meriterebbe); i tre libri sono stati stampati ed editi in proprio dall’autore e conoscono tutti i limiti di diffusione su cui evito di dilungarmi. Sono tuttavia importanti, e in un certo senso rivoluzionari, sia per le tesi che propongono, sia perché pongono l’accento sulla necessità di elaborare un pensiero politico originale in quanto minoranze consapevoli, e per essere interamente scritti in una lingua minorizzata, il che non è affatto usuale nel nostro mondo di popoli sottomessi che per comodità, facilità, scarso impegno e scarsa volontà di mettersi in gioco preferiscono (come faccio io stesso) scrivere nelle lingue dominanti. Con ciò accelerando la fine delle nostre lingue. La loro scomparsa.
(n.d.r: i libri di Fabian Ros sono consultabili presso la Biblioteca di Espaci Occitan – Dronero)
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