Da quando abbiamo dato il via al “Premio Ostana 2020 – Scritture in lingua madre” (un’edizione speciale che per ovvie ragioni si è tenuta online) una parola mi ha rimbalzato in testa di continuo, come una biglia in un flipper: “invisibile”.
Non è un caso, e vado un po’ indietro negli anni. “Invisibili e indesiderabili” erano i rifugiati protagonisti della mia ricerca antropologica a Torino. Una coppia di aggettivi che compariva orgogliosa sul titolo della ricerca, a consigliarla era Roberto Beneduce, e c’era lo zampino della letteratura di Michel Agier. “Invisibile” era quindi una parola ben leggibile, qualcosa di ben visibile. Ma indicava e indica qualcosa che non si può vedere, e che spesso non si vuole vedere. In quel caso era una parola perfetta per i rifugiati che avevano occupato l’ex-clinica San Paolo di Torino. Centinaia di persone messe ai margini che si sono date da fare per essere viste, con grandi insuccessi e qualche soddisfazione.
A volte un aggettivo può diventare sostantivo, e così tutti coloro che sono “invisibili” possono diventare “gli invisibili”. Lo sa Aboubakar Soumahoro, che ha usato “gli invisibili” per dare voce a tutti i braccianti impegnati nelle campagne italiane e per descrivere la “sostanza” di cui sono fatti di fronte alle nostre amate istituzioni democratiche e repubblicane: una materia invisibile, che non si vuole vedere.
Da noi si conosce qualcosa solo quando la si vede. Vedere è conoscere. La vista rimane il senso a cui la nostra materia cerebrale dedica la maggior parte di sé. Non si apprende finché non si vede. San Tommaso docet. Soumahoro ha iniziato con i suoi video in diretta sui social networks dalle campagne del sud. I video si sono fatti sempre più frequenti. Alle sue spalle i braccianti. La sua lotta sociale e sindacale ha iniziato a interessare alcuni quotidiani, alcuni programmi televisivi, che in genere condividevano le sue prospettive politiche. Nel tempo il suo impegno si è allargato arrivando ai canali televisivi pubblici, e le persone alle sue spalle hanno iniziato ad essere un poco più visibili, fino allo “sciopero degli invisibili” del 21 maggio, quando i braccianti hanno incrociato le loro braccia “per chiedere diritti e dignità”. Alcuni di loro hanno avuto qualche diritto in più. Non è sufficiente, ma è qualcosa, qualcosa di ben visibile. Non sarà stato solo lo smartphone di Soumahoro ad aver fatto la differenza, ma di certo ha avuto un ruolo importante in quei territori che raramente vengono visitati da operatori televisivi, per ragioni di sicurezza personale oltre che per ragioni politiche.
Secondo il poeta newyorchese Bob Holman, Premio Ostana 2018 per la promozione della diversità linguistica, stiamo vivendo in uno “slittamento di coscienza” tra il testo e il digitale: è la seconda volta che l’umanità vive un cambiamento di questa portata, quindi dobbiamo essere attenti, rimanere vigili. In molte parti del mondo si è passati (semplifichiamo) da una cultura orale ad una cultura scritta. Ora si sta passando da una cultura scritta ad una digitale. Grazie al digitale, e in particolare al video digitale, sempre più si sta r-innovando la nostra comunicazione, come abbiamo potuto toccare tutti con mano in questi tempi pandemici. Bob Holman ha a cuore la poesia e le lingue che si trovano in difficoltà, lingue madri la cui scomparsa coincide con la scomparsa di una visione del mondo. È convinto che la video-poesia in lingua madre sia una nuova forma di poesia, capace di arrivare a più persone e di rimanere nel tempo. Al Premio Ostana 2020 è comparso nella video-chat di zoom con una mascherina su cui sopra era scritto “George Floyd”. Esprimeva così la sua solidarietà verso le manifestazioni che sono seguite all’omicidio del quarantaseienne afroamericano. Un omicidio ben visibile, grazie allo smartphone di una ragazza che ha deciso di riprendere i poliziotti durante il crimine, trasformando (è proprio il caso di dirlo) uno degli ennesimi episodi invisibili di violenza brutale nei confronti degli afroamericani in qualcosa di ben visibile, qualcosa di conoscibile in tutto il suo orrore. Milioni di persone sono scese in piazza in tutto il mondo. Sono cadute statue simboli di un potere e di una storia razzista che non possiamo più guardare con gli stessi occhi di quando sono state erette. Possiamo contestualizzarle in un determinato periodo sociale, fare una storia delle idee, diventare apologeti del relativismo storico, comprenderle: ma rimane il fatto che le statue vengono erette in spazi pubblici per omaggiare chi rappresentano, per marcare un segno nel tempo, per fare tesoro di una determinata memoria. Oggi vogliamo costruire nuovi spazi pubblici (non solo fisici), ma non vogliamo dimenticare il nostro passato, anche quando razzista. Detto questo, alcune statue possono e devono cadere, altre possono essere oggetto di interventi artistici per una loro attualizzazione. Ogni statua ha la sua storia, ma c’è una storia che vale per tutti, e dobbiamo tenerci strette le parole di Walter Benjamin: “la storia è oggetto di una costruzione il cui luogo non è il tempo omogeneo e vuoto, ma quello pieno dell’attualità”.
Il Premio Ostana nella sua edizione online è arrivato a più persone di quelle che ogni anno sono solite radunarsi di fronte al Monviso, in valle Po. Un tamburo digitale sui social networks ha portato un pubblico mondiale a seguire gli incontri dedicati a tutte quelle lingue che per una ragione o per l’altra si ritrovano in uno “stato di minoranza”. Alcuni governi proibiscono l’uso delle lingue ad alcuni cittadini, con buona pace dei trattati e delle convenzioni internazionali intorno ai diritti linguistici. A volte la lingua coincide con una minoranza che aspira ad una maggiore autonomia, e quando accade alla repressione linguistica si accompagna quella politica, in molti casi quella militare. In altri casi le lingue sono tutelate, ma non accedono in pieno ai diritti e a quel che aspirano, e vengono tenute un po’ da parte, ai margini. Lingue madri, lingue minoritarie, lingue indigene, lingue native. Le si può chiamare come le si vuole, ma anche loro sono spesso invisibili. Chi le parla a volte viene rappresentato come un passatista, se non come un vero e proprio conservatore. Qualcuno affezionato ad una lotta ormai persa, a costumi folklorici, ad un mondo che oggi non ha più senso. Li si guarda con un misto di compassione e compatimento, spesso si dà loro le spalle, e li si disprezza. Incredibilmente, questo continuo e sottaciuto svilimento è inversamente proporzionale alla distanza che separa chi esprime il giudizio da chi parla l’ “altra lingua”: in altre parole, tanto più una lingua è vicina tanto più mi sembra che possa essere oggetto di indifferenza se non disdegno. Per concludere e fornire un esempio guardando al territorio che abito da quando sono nato, è decisamente più interessante e stimabile la lingua maori che la lingua occitana. Ma si sa, a volte i vicini sono scomodi e li si conosce fin troppo bene, mentre chi è lontano non solo non è scomodo, ma può anche essere “avvolto” da un profumo esotico (ed estetico) irresistibile. Ricordiamolo: questa prospettiva non va in alcun modo a scalfire l’importanza del rapporto con l’alterità, centrale in ogni società. Si tratta di una miopia, e come tale va trattata.
Dietro ogni lingua c’è un mondo, e sono convinto che questo mondo debba far parte del “nostro mondo contemporaneo”. È una questione di giustizia sociale, da difendere e promuovere. Perché la diversità in sé è un valore, e come tale deve essere trattata, sempre, che si tratti di lingue, di culture, di pelli, di orientamenti sessuali, di religioni. Durante il Premio Ostana è successo un miracolo: per più di 15 ore le lingue erano lì, ben visibili in video sul web, in tutta la loro varietà, nella loro ricchezza espressiva e artistica, capaci di dare voce ad un pensiero originale, spesso lontano anni luce da quello dominante nei media e nelle narrazioni pubbliche in generale. Uno scalino verso la “visibilità”? Vedremo.
Negli stessi giorni del Premio Ostana le piazze si sono riempite in tutto il mondo per chiedere giustizia sociale, gridando “No Justice No Peace”. Non è un caso che si siano riempite in così poco tempo, dobbiamo ricordare ad esempio il movimento “Friday for Futures” a livello globale, e avere ben presente che c’è una nuova generazione che si è rotta del mondo dei propri padri. Non è la prima volta né sarà l’ultima, è la storia a ricordarcelo. Ci sono stati anche scontri violenti, la rabbia non si può sempre tamponare con questo o quel cerotto, e l’ineguaglianza non la si può nascondere sempre sotto il tappeto. L’invisibile vuole e deve essere visibile, per tutti. Nel 2001 a Genova un movimento sociale globale ha ricevuto una bella batosta. Sta a tutti noi continuare a remare per un altro mondo possibile. Ogni minoranza ha diritto ad essere cittadina di ogni paese, di ogni società, e del mondo nella sua interezza. Dobbiamo lavorare per portare alla visibilità quel che è invisibile.
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