INTERVISTA A LILIANA BERTOLO BONIFACE
a cura di Flavio Giacchero
Flavio Giacchero • Come nasce il tuo rapporto con
il francoprovenzale?
Liliana Bertolo Boniface • Il mio è sempre stato un rapporto di amore. È la lingua dei miei affetti, dei miei ricordi, dei miei sogni, dei miei sentimenti, del mio vivere quotidiano. È la lingua della terra che amo, dei panorami, delle montagne che sono il mio orizzonte da sempre. È la lingua delle tradizioni, ma anche della modernità. È la lingua che più mi rappresenta. Il patois è mamma, papà, nonni, figli. È famiglia, casa e paese.
FG • Quanto è lingua di minoranza in Valle d’Aosta?
LBB • Il francoprovenzale in Valle d’Aosta ha subito, negli anni, un sensibile calo di locutori che però non saprei quantificare in termini statistici. La situazione è alquanto variegata se rapportata alla geografia della Regione: più vivace e presente nelle vallate laterali e nelle comunità meno interessate dal flusso turistico, essa è invece molto più debole laddove questi fattori sono più evidenti. Queste mie considerazioni non sono supportate da elementi scientifici che altri saprebbero ben evidenziare. Esse sono unicamente frutto di un’esperienza diretta maturata nelle scuole, soprattutto in quelle dell’infanzia: su centinaia e centinaia di bimbi che ho incontrato, una stretta minoranza parla il patois o lo sa riconoscere (è la lingua che parlano i miei nonni…), la maggioranza scopre il patois durante le attività che si propongono in classe.
Il francoprovenzale non è contemplato nello Statuto Regionale e resta comunque lingua minoritaria come lo è pure la lingua francese, statutariamente riconosciuta, insegnata, ma surclassata dall’italiano che resta lingua predominante dei mass media e del parlare quotidiano della stragrande maggioranza.
FG • Qual è il tuo metodo didattico e come ti poni in relazione alle varianti del francoprovenzale? Esiste una normalizzazione e, in caso affermativo, come è stata accolta dai parlanti nativi?
LBB • Il metodo d’insegnamento del francoprovenzale viene costruito all’interno del lavoro di gruppo e coinvolge tutti gli animatori che hanno in carico l’attività da svolgere nelle classi. Esistono in Valle due tipi di percorso: uno legato al Concours Cerlogne, giunto quest’anno alla 58° edizione (si tratta di una manifestazione che si propone di coinvolgere le scuole nella ricerca di documenti in patois appartenenti alla tradizione orale, su temi della civiltà alpestre e di produrre degli elaborati); l’altro, ma è una storia più recente, va sotto il nome di Le Francoprovençal à l’école.
Prevedono entrambi lo stesso numero di interventi (otto ore per classe). Ogni animatore propone le attività nella sua variante di patois, confrontandosi con la variante locale tramite l’insegnante di classe, qualora sia patoisant del luogo o ricorrendo ai collaboratori dello Sportello linguistico.
I supporti didattici sono un racconto creato ad hoc e narrato in otto episodi, nonché canzoni composte sul tema, giochi di movimento e giochi linguistici adattati all’età degli allievi.
Dal 1995 sono stati creati vari corsi per adulti in diversi comuni della Regione e i docenti in carico a tali corsi praticano, quasi sempre, una variante vicina a quella del luogo che li ospita.
Non esiste in Valle d’Aosta una normalizzazione delle parlate francoprovenzali. Ciò, a mio avviso, pur creando nell’insegnamento alcune difficoltà facilmente superabili, va a salvaguardia di quell’enorme e preziosa ricchezza che le varianti locali esprimono.
FG • So che tu e la tua famiglia avete molti rapporti con la vicina Savoia: in quale situazione si trova il francoprovenzale d’oltralpe?
LBB • Sia in Savoia che nel Vallese il francoprovenzale è sostenuto da molte iniziative che vanno dal teatro, ai corsi per adulti e per bambini, alle trasmissioni televisive o radiofoniche, ai gruppi folkloristici e corali, ma fatte salve alcune eccezioni (vedi il caso di Evolène, in Svizzera), il patois non è lingua di comunicazione quotidiana.
Anche in questo caso, le mie affermazioni sono unicamente supportate dalla mia esperienza personale e potrebbero essere smentite da ricerche scientifiche e statistiche che non conosco. Resta il fatto che, con i nostri amici d’oltralpe, comunichiamo regolarmente in francese.
FG • Cosa ti ha portato all’intensa attività di insegnante di francoprovenzale?
LBB • Credo la ragione sia già insita nel rapporto d’amore con la mia lingua, e i miei luoghi, di cui ho detto poc’anzi. La mia scelta di essere insegnante di patois non poteva che essere conseguente. Aggiungo che insegnare la mia lingua mi ha permesso di stupirmi a ogni passo, conoscendola meglio e nel profondo, per apprezzarne vieppiù la storia, la versatilità, la complessità e la ricchezza.
FG • In Valle d’Aosta è comune l’uso del termine patois. In che rapporto si pone con la definizione ufficiale di francoprovenzale? Non rimane forse la percezione dell’origine discriminatoria di tale termine?
LBB • Dire “patois” non è mai stato e non è tuttora percepito come discriminatorio. Discriminati sono stati, in passato, i locutori, soprattutto nell’ambito scolastico. Parlare patois voleva dire, secondo il pensiero comune, partire svantaggiati, penalizzati nell’apprendimento dell’italiano. Gli effetti di questo retaggio hanno faticato a smorzarsi col passare del tempo sovrapponendosi ad altre insensibilità, prodotte anche dal non riconoscimento ufficiale del patois e da una conseguente sua dignità minore. Tra quanti oggi parlano la nostra lingua regionale, il termine “francoprovenzale” è, per una larga maggioranza, una parola estranea, per addetti ai lavori.
FG • Adesso qualche domanda più personale. Come nascono la tua passione per il canto e l’idea e lo stimolo di formare un gruppo musicale?
LBB • Come raccontare una passione?
Cantare ha fatto parte della mia vita sin dall’infanzia o, almeno, il sentir cantare, soprattutto mio padre con i suoi amici nelle serate in casa, nelle feste, nelle scampagnate. Ogni occasione era buona per una canzone. Un repertorio che ricordo allegro, gioioso e coinvolgente tanto da indurre l’intera compagnia a partecipare.
Poi gli anni dello studio, del collegio, dell’essere in qualche modo rinchiusi e lontani dal mondo. Non si cantava più. Non quel repertorio. Più in là negli anni, ho cantato di nuovo, quasi sul serio, in una corale che Sandro, mio marito, dirigeva. Le-z-Amaveullèn si chiamava il coro. Nato all’interno del Centre Culturel negli anni Settanta, aggregava molti giovani del paese ed era parte integrante di quel grande movimento di coscienze che furono appunto i Centre Culturel all’epoca.
Da lì, le cose andarono molto di fretta. Agli inizi degli anni Ottanta nasce il gruppo Trouveur Valdotèn. Canto le canzoni di Magui Bétemps, quelle di Gianmarco Bordet, i testi di alcuni cantautori francesi. Poi... la svolta. Perché di svolta si tratta.
I Trouveur incontrano la musica di tradizione ed è un amore a prima vista, un amore di quelli che lasciano il segno e che durano. Un amore che si è nutrito della memoria di tanti che ci hanno voluto lasciare testimonianza: Nonna Maria, mamma Ninetta, Louise Millet, Germain Borney, Venance Glarey, Tine Guichardaz, Thérèse Chenal. Quando canto le loro canzoni sento la loro voce e rivivo quegli incontri, l’inquietudine di fronte al mio microfono indiscreto durante le interviste, lo stupore per il mio interesse così insolito ai loro occhi. Poi i primi concerti, la risposta del pubblico che si ritrova in ciò che proponiamo e che sente come suo; poi il repertorio, l’incontro con altri gruppi di altre regioni, il confronto con altre esperienze. Poi... i figli. Due. Due figli che ci seguono con convinzione e passione. Cantare quando loro mi accompagnano con i loro strumenti mi dà un’emozione ogni volta rinnovata. Poi un incontro. Il più significativo per me. Era il 1995. Conosco Evelyne Girardon, insegnante e interprete di canto tradizionale in quel di Lione.
Non so cosa di me l’abbia particolarmente colpita. Certamente non la tecnica e l’impostazione. Forse la naturalezza e quella voce incolta che, come poi mi disse, andava cercando. Mi propone di far parte di un suo progetto: un trio con lei e Sandra Kerr, una cantante folk inglese, di Newcastle. Nasce Voice Union. Una proposta originale di canti tradizionali in più lingue, tra cui il francoprovenzale, che si concretizza nel 1997 e mi porta a cantare nei Folkclub di varie contrade inglesi, sul palco del “Barbican” di Londra ed a registrare un CD con un produttore britannico. Dal 1997 in poi, Evelyne mi ha offerto altre meravigliose occasioni: nove voci di donne hanno viaggiato a lungo in Francia in alcuni importanti teatri: Tulle, Rouen, Parigi, Valence, l’Opéra di Lione, Vienne.... Va da sé che io debba molto di quel che ora sono ad Evelyne Girardon. Il prendere coscienza delle proprie capacità, il saperle misurare e gestire al meglio non ha tolto molto alla mia naturalezza. Diciamo che ora è una naturalezza più consapevole.
FG • In genere la musica tradizionale alpina, per lo meno in un contesto pubblico, vede una certa predominanza maschile. Come hai trovato il tuo spazio? Hai mai avuto difficoltà o provato disagio in quanto donna?
LBB • No, nessun disagio, né alcuna difficoltà di sorta. Il vivere l’esperienza musicale in un contesto familiare, gli incontri e gli scambi con altri gruppi e le amicizie importanti e arricchenti che ne sono scaturite mi fanno sentire privilegiata.
FG • I Trouveur Valdotèn sono un gruppo familiare con un’intensa attività concertistica: una formazione di successo che ha ricevuto importanti riconoscimenti di pubblico e di critica. Puoi dirci brevemente di questa esperienza e il fatto che siete una famiglia?
LBB • Raccontare in poche parole un percorso lungo quarant’anni non è cosa semplice. Il gruppo è composto da mio marito Sandro, dai nostri figli Rémy e Vincent e dalla sottoscritta. Diversi fattori hanno contribuito alla riduzione dell’organico dagli esordi all’attuale quartetto. Essi si possono motivare in un’unica spiegazione, che è soprattutto legata all’interesse per un percorso condiviso, alla semplicità della gestione, anche di quella burocratica, e alle scelte di abbandonare il dilettantismo (termine che non va certo letto in modo negativo) per fare della nostra passione una vera professione.
FG • Come ti poni nel lavoro didattico e musicale in relazione alla tradizione e innovazione?
LBB • Coniugare tradizione e innovazione è la carta vincente. Non facciamo attività museali e di mera conservazione o rievocazione del passato. Conoscere il passato è essenziale per sapere chi siamo, per vivere il presente e progettare il futuro e l’impegno di molti giovani che operano in ambito didattico è vitale, come lo è per la musica.
FG • Cosa pensi del futuro del francoprovenzale?
LBB • Cerco di pensare in positivo, per lo meno per la mia Regione. La curiosità culturale che questa lingua suscita - la tocchiamo con mano soprattutto nei corsi per adulti, fa ben sperare; così pure l’interesse che la pubblica amministrazione coltiva supportando finanziariamente gran parte delle iniziative per la salvaguardia e la promozione della nostra lingua regionale. L’auspicio è che le famiglie prendano coscienza di quanto sia importante parlare patois ai loro figli sin da subito. Parlare patois accanto all’italiano, al francese e ad altre lingue presenti in questa società multietnica, potrebbe far crescere una generazione bilingue o plurilingue, aperta a nuove conoscenze e accogliente.
PROPOSTA DI LETTURA
TESTO FRANCOPROVENZALE
A la retsertse di non perdù
(librement tiré d’un conte traditionnel)
Eun cou, tan de ten fé, can tcheu vo vo sayoù panco nèisù, a la plase de seutta balla batisse que l’è la voutra écoulla, •’ayè dza an mèizón, an grousa mèizón.
E, deun seutta grousa mèizón, itaon tan de mèinoù avouì le leur mamme, le leur pappa, le leur padàn é le leur madàn.
E, deun seutta grousa mèizón, avouì le mèinoù, le mamme, le pappa é le padàn é madàn, itaon euncó de vatse, eungn ano, eun tseun ros é an tsatta de tri coleur.
Eun bo dzor, deun lo beui, la tsatta de tri coleur, l’a fé de tsateun.
Lo pi petchoù di tsateun, si avouì lo pèi gri, l’ie tchica stchapeun é la signa mamma lèi dijè todilón:
- Prentevarda! Va po tro llouèn de mèizón!
Mi llu, lo petchoù tsat gri stchapeun, l’acoutae po.
E, eun deleun mateun, can lo solèi l’ie panco bièn secondù dérì le bèque, lo petchoù tsat gri stchapeun l’è chortù de mèizón a catsón, l’et alló deun la cor, l’a gambó lo ru, l’a courzù deun lo pro é l’et arrevó canque a eun croué bouque bo i caro, dézò le grouse plante.
E vouélà: eun cattro é cattro ouet l’ie belle perdù.
Aprì an pouza, vionda dé sé, vionda dé lé, vionda lo su é vionda lo bo, lo petchoù tsat gri stchapeun l’at aù fan é s’è beuttó a pleyé.
An crouéa bitchetta totta peluya, avouì le bouigno lon é preun, l’è viìn protso de llu: l’ie lo lapeun di bouigno preun.
Lo lapeun di bouigno preun l’a deu i petchoù tsat gri stchapeun:
- Qui t’i? Perqué te pleuye?
Lo petchoù tsat gri stchapeun l’a repondù :
- Pleuyo perqué si to solet, dze si po qui si é n’i tan fan!
Lo lapeun di bouigno preun l’at avétchà amoddo lo petchoù tsat gri stchapeun é l’a deu-lei:
- Euncó té t’a la peleussa: t’i cheur eun lapeun. Veun tchi mé, te baillo pequé. Euntre no lapeun fo beun s’édjé !
Lo lapeun di bouigno preun l’a preui pe la piotta lo petchoù tsat gri stchapeun é l’a pourtó-lo i seun mitcho.
Pappa lapeun di bouigno preun l’a bailla-lèi eun plat plen de dzenta salada verda é fritse.
Lo petchoù tsat gri stchapeun l’at avétchà la salada é l’a torna pleyà.
- Perqué te pleuye ? – l’a demandó-lei pappa lapeun di bouigno preun.
- Pleuyo perqué dze si po qui si é n’i fan! La salada l’a po gneun gout é mé la lamo po! Lamo fran po la salada!
Pappa lapeun di bouigno preun l’at avétcha-lo amoddo dèisèn l’a deut:
- L’è po que de cou t’i bon de greumpeillé su le plante ?
- Su le plante lo si po, mi si bon de greumpeillé su le caèye é su le ridó !
- Adón, té t’i an verdzasse – l’a repondu-lèi pappa lapeun di bouigno preun.
Pappa lapeun di bouigno preun l’a preui pe la piotta lo petchoù tsat gri stchapeun é l’a pourtó-lo canque i grou tsatagnì, dèisèn l’a crià pappa verdzasse de la londze cua.
- Vouélà, y et an verdzasse que s’è perdua. Pou-teu la sogné ?
- Majinna – l’a repondu pappa verdzasse de la londze cua – euntre no verdzasse fo beun s’édjé !
Pappa verdzasse de la londze cua l’a preui lo petchoù tsat gri stchapeun pe la piotta é l’at édja-lo a greumpeillé canque a se mitcho, i sondzón di tsatagnì, dèisèn l’a bailla-lèi an balla pougnà de gnoué é de-z-olagne.
Mi lo petchoù tsat gri stchapeun l’a torna pleyà.
- Perqué te pleuye? – l’a demandó-lei pappa verdzasse de la londze cua.
- Pleuyo perqué dze si po qui si é pi n’i euncó fan! Le gnoué é le-z-olagne son tro due, me fan mou i di.
Pappa verdzasse de la londze cua l’at avétcha-lo amoddo é l’a demandó:
- Te lamerie magara pequé catche croué rat?
- Mé lamo le rat de bague matte ! – l’a repondù lo petchoù tsat gri stchapeun.
- Te le lame perqué t’i eungn érissón – l’a deu pappa verdzasse de la londze cua.
Pappa verdzasse de la londze cua l’a preui pe la piotta lo petchoù tsat gri stchapeun é l’a pourtó-lo canque dézò eun bouèissón ieui itae an fameuille de érissón é l’a crià pappa érissón di grou pansón :
- Vouélà, y et eungn érissón que s’è perdù. Pou-teu lo sogné ?
- Majinna – l’a repondù pappa érissón di grou pansón – euntre no érissón fo beun s’édjé !
Le-z-érissón l’an fé eun caro i petchoù tsat gri stchapeun é l’an bailla-lèi pequé de croué rat.
La queunta fita ! Lo petchoù tsat gri stchapeun si cou l’ayè lo ventro plen.
- Ara no fo allé dremì – l’a deu pappa érissón di grou pansón – itèn maque protso, eun contre l’atro, pai n’en pi tsât!
E lo petchoù tsat gri stchapeun l’a torna pleyà.
- Perqué te pleuye ? – l’a demandó-lei pappa érissón di grou pansón.
- Pleuyo perqué me poueundéde ! Me fiéde de mou !
- Adón, té t’i po eungn érissón – l’a deu pappa érissón di grou pansón – mi qui i-teu don ?
Fran eun si momàn, foua de la borna de la fameuille érissón, eun sen mian-é. L’ie mamma tsatta que demandae :
- L’è po que de coù, mocheu érissón di grou pansón, v’èi vu eun petchoù tsat gri stchapeun ?
- Si sé, mamma, si sé ! – l’a crià lo petchoù tsat gri stchapeun.
La mamma tsatta l’a beun tchica rognà lo petchoù tsat gri stchapeun, dèisèn son tornó lest i mitcho, deun la grousa mèizón ieui lo attégnae an grousa écouila plén-a de bon lasì tido.
Ara lo petchoù tsat gri stchapeun pou dremì tranquillo…
Conte écrit pour des animations
dans les écoles enfantines de la Région Vallée d’Aoste
TESTO ITALIANO
Alla ricerca dell’identità perduta
(liberamente tratto da un racconto tradizionale)
Una volta, tanto tempo fa, quando voi non eravate ancora nati, al posto di questa imponente costruzione che è la vostra scuola, c’era già una casa, una grande casa.
E, in questa grande casa, abitavano tanti bambini con le loro mamme, i loro papà, i loro nonni e le loro nonne.
E, in questa grande casa, con i bambini, le mamme, i papà e i nonni e le nonne, abitavano pure delle mucche, un asino, un cane fulvo e una gatta di tre colori.
Un bel giorno, nella stalla, la gatta di tre colori, fece dei gattini.
Il più piccino dei gattini, quello con il pelo grigio, era un po’ birichino e la sua mamma gli diceva sempre:
- Fai attenzione! Non allontanarti troppo da casa!
Ma lui, il Gattino grigio birichino, non l’ascoltava.
E, un lunedì mattina, quando il sole non era ancora del tutto spuntato dietro le vette, il Gattino grigio birichino uscì di casa di nascosto, andò nel cortile, attraversò il ruscello, camminò nel prato e arrivò fino al boschetto giù in fondo, sotto i grandi alberi.
Ecco: in quattro e quattrotto si perse.
Dopo un momento, gira di qua, gira di là, gira in su e gira in giù, il Gattino grigio birichino ebbe fame e si mise a piangere.
Un animaletto tutto peloso, con le orecchie lunghe e sottili, gli venne vicino: era il Coniglio dalle orecchie sottili.
Il Coniglio dalle orecchie sottili disse al gattino grigio birichino:
- Chi sei? Perché piangi?
Il Gattino grigio birichino rispose:
- Piango perché sono solo, non so chi sono e ho tanta fame!
Il Coniglio dalle orecchie sottili guardò attentamente il Gattino grigio birichino e gli disse:
- Anche tu hai la pelliccia: sei sicuramente un coniglio: vieni a casa mia, ti darò da mangiare. Tra conigli ci dobbiamo pur aiutare!
Il Coniglio dalle orecchie sottili prese per la zampa il Gattino grigio birichino e lo portò a casa sua.
Papà coniglio dalle orecchie sottili gli diede un piatto colmo di insalata verde e fresca.
Il Gattino grigio birichino guardò l’insalata e si mise nuovamente a piangere.
- Perché piangi? - gli chiese Papà coniglio dalle orecchie sottili.
- Piango perché non so chi sono e ho fame! L’insalata non ha nessun sapore e a me non piace! Non mi piace per niente l’insalata!
Papà coniglio dalle orecchie sottili lo guardò attentamente, quindi disse:
- Non è che per caso tu sei capace di arrampicare sugli alberi?
- Sugli alberi non lo so, ma sono capace di arrampicare sulle sedie e sulle tende!
- Allora tu sei uno scoiattolo - gli rispose Papà coniglio dalle orecchie sottili.
Papà coniglio dalle orecchie sottili prese per la zampa il Gattino grigio birichino e lo accompagnò vicino al vecchio castagno, quindi chiamò Papà scoiattolo dalla lunga coda.
- Ecco, c’è uno scoiattolo che si è perso. Puoi prendertene cura?
- Figurati - rispose Papà scoiattolo dalla lunga coda - tra scoiattoli ci dobbiamo pur aiutare!
Papà scoiattolo dalla lunga coda prese il Gattino grigio birichino per la zampa e lo aiutò ad arrampicarsi fino alla sua casa, in cima al castagno, poi gli diede una bella manciata di noci e di nocciole.
Ma il Gattino grigio birichino pianse nuovamente.
- Perché piangi? - gli chiese Papà scoiattolo dalla lunga coda.
- Piango perché non so chi sono e poi ho pure fame! Le noci e le nocciole sono troppo dure, mi fanno male ai denti!
Papà scoiattolo dalla lunga coda lo guardò attentamente e gli chiese:
- Ti piacerebbero forse alcuni topini?
- Io vado matto per i topini! - rispose il Gattino grigio birichino.
- Ti piacciono perché sei un riccio - disse Papà scoiattolo dalla lunga coda.
Papà scoiattolo dalla lunga coda prese per la zampa il Gattino grigio birichino e lo accompagnò fin sotto un cespuglio dove abitava una famiglia di ricci e chiamò Papà riccio dalla grossa pancia.
- Ecco, c’è un riccio che si è perso. Puoi prendertene cura?
- Figurati - gli rispose Papà riccio dalla grossa pancia - tra ricci ci dobbiamo pur aiutare!
I ricci fecero posto al Gattino grigio birichino e gli diedero da mangiare un topino.
Che festa! Adesso il Gattino grigio birichino aveva la pancia piena.
- Ora dobbiamo andare a dormire - disse Papà riccio dalla grossa pancia - stiamo vicini vicini, uno accanto all’altro, così ci scaldiamo di più!
E il Gattino grigio birichino pianse nuovamente.
- Perché piangi? - gli chiese Papà riccio dalla grossa pancia.
- Piango perché mi pungete! Mi fate male!
- Allora tu non sei un riccio - disse Papà riccio dalla grossa pancia - ma chi sei?
Proprio in quell’istante, fuori dalla tana della famiglia dei ricci, si sentì miagolare. Era mamma gatta che chiedeva:
- Non è che per caso lei, signor riccio dalla pancia grossa, ha visto un Gattino grigio birichino?
- Son qui, mamma, sono qui! - gridò il Gattino grigio birichino.
Mamma gatta sgridò un pochino il Gattino grigio birichino, poi tornarono veloci a casa, nella grande casa dove lo aspettava una scodella piena di buon latte tiepido.
Finalmente il Gattino grigio birichino dormì tranquillamente…
Racconto scritto per le animazioni
presso le scuole dell’infanzia della Valle D’Aosta
TESTO FRANCOPROVENZALE
Fita a Djeu
Liliana Bertolo
Lo flo dousivvo di fleur de savis
Le petchoù joué pés di fleur di rat
Tcheu dret a avétché querieui lo siel
Deun le blantse-z-achette de madàn
Atò lo bèrio de djouiye i mentèn
Le braché de botón d’or luizèn
Que no allaon couillé djeusto lé damón
Le margueritte di pro dedeun le sezeleun
A biclléyé euntremì le rodzo pavout
É le fleur de sen Djouàn couilléye
Lo lon di lemeun-ó di tsan
Le fleur di jiragnón djeusto bièn épandiye
Deun le toule reillente a coutì d’eungn atouéo
Micllon leur coleur avouì le penchie
Le queurtù bièn sognà atò le priye di dzonflèye
Pi euitre le bosquet di sabó de la Vierje
A l’entor, le roujì dza bramente saccagnà
L’an eumplisù tcheu le tsavèn, le petchoù é le pi grou
De totta salla rentse de mèinoù
Qu’épatton su la rotta eun tapis tot a rése
Rouze blantse, rodze, dzane, roze cllée é pi fonchéye
Queutton lo bon flo can la prosechón l’è paséye.
Tiré de “Patois à petits pas”
Méthode pour l’enseignement du francoprovençal
Région Autonome Vallée d’Aoste -
Assessorat de l’Éducation et de la Culture
Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique
TESTO ITALIANO
Corpus Domini
Liliana Bertolo
L’odore dolciastro dei fiori di sambuco
I piccoli occhi azzurri dei nontiscordardime
Tutti ritti a guardare curiosi il cielo
Nei bianchi piatti della nonna
Con il ciottolo di fiume nel mezzo
I fasci di ranuncoli lucenti
Che andavamo a cogliere appena lassù in alto
Le margherite dei prati dentro i secchi
A occhieggiare tra i rossi papaveri
E i fiordalisi raccolti
Lungo il limitare dei campi
I fiori di geranio appena schiusi
Nelle scatole di latta arrugginite vicino a un oratorio
Mescolano i loro colori con le viole del pensiero
Gli orti ben curati con le aiuole di garofani
Più in là i mazzi di aconito
Intorno, i rosai già abbondantemente scossi
Hanno riempito tutti i cesti, i piccoli e i grandi
Di tutta quella fila di bambini
Che stendono sulla strada un tappeto tutto a pezze
Rose bianche, rosse, gialle, rosa chiaro o più scuro
Lasciano il profumo quando la processione è passata.
TESTO FRANCOPROVENZALE
Lo pan
Liliana Bertolo
L’ayàn vagnà lo blo deun lo grou tsan de la toula di caro.
Téra bon-a, téra garva.
Dézò la nèi d’eungn ivir escrimmo
S’aprestaon le-z-épie a se tsardjé de gran.
Fodré preui tchertché de mizandiye!
Pén-a que arbèye, molèyan leur fèiseuille
Perqué a mîre, eun per de dzor, sarèn coudzuye.
Se conton po le dzovalle melatéye
A la grandze i sondzón di veladzo.
De sé tchica, la mezeucca di catrèn l’è pi lo seul tapadzo.
Di grou van sopató monte la poussa i nou.
Pion-e lo trebeillet que fé viondé la moula:
É atò eun saque de faèina l’an payà la meleun-iye.
Tsaque fameuille, de pi lo ten, l’a dza eumpondù lo fornazeun.
Le moublo son-tì prest?
Rablo, patoille é pale son lé, contre lo meur.
La queunta fornéze pe déchoué lo for!
Lo fouà pette, borbotte, s’aréte, reprèn.
Monton le-z-épeluye pe lo tsafieui que teure.
Mondjeu que blè de tsât a bréyé deun la mît…
Deussù la tabla londze, le fenne a patolé
Pouzon deussù lo lan le pan pe eunforné.
Dèi adón eun pou sentì, ià pe le tsarriye,
Si bon flo di pan couet que s’épatte deun l’er,
Que bèise canque i fon é soladze lo queur.
Ara l’è lé que sètse perqué vegnèye deur,
Sopendù i pailler deussù le ratélì.
Attèn d’itre moillà pe lo veun, pe lo lasì.
Pe no l’è an galepiye. Eun cou l’ie bièn de pi.
Sensa tro de bride, l’a gavó la fan i dzi.
Tiré de “Patois à petits pas”
Méthode pour l’enseignement du francoprovençal
Région Autonome Vallée d’Aoste -
Assessorat de l’Éducation et de la Culture
Bureau Régional pour l’Ethnologie et la Linguistique
TESTO ITALIANO
Il pane
Liliana Bertolo
Avevano seminato il grano nel grande campo dell’appezzamento in fondo
Terra buona, terra soffice.
Sotto la neve di un inverno durissimo
Si preparavano le spighe a caricarsi di grano.
Bisognerà pure cercare delle mietitrici!
Non appena albeggia, affilino le loro falci
Perché a mietere, per un paio di giorni, saranno obbligate.
Non si contano i covoni trasportati
Nel pagliaio in cima al villaggio.
Tra poco, la musica dei battitori sarà il solo rumore.
Dal grosso vaglio scosso sale la polvere al naso.
Cigola il meccanismo che fa girare la macina:
E con un sacco di farina hanno pagato la mugnaia.
Ogni famiglia, da tempo, ha già prenotato il fornaio.
Gli attrezzi sono pronti?
Raschietto, scopa di stracci e pale sono lì, contro il muro.
Che fornace per scaldare il forno!
Il fuoco crepita, borbotta, si ferma, riprende.
Salgono le scintille nel camino che tira.
Mamma mia che sudata a mescolare nella madia…
Sopra il tavolo lungo, le donne a impastare
Posano sull’asse i pani da infornare.
Da quel momento si può sentire lungo le strade del villaggio
Quel profumo di pane cotto che si espande nell’aria,
Che scende fino in fondo e scalda il cuore.
Adesso è lì che secca perché diventi duro
Sospeso nel fienile sopra le rastrelliere.
Aspetta di essere inzuppato nel vino, nel latte.
Per noi è una golosità. Una volta era molto di più.
Senza troppo clamore, ha tolto la fame alla gente.
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