Ricetta consigliata:
Uovo in crosta con fonduta al Tartufo nero della Valle Grana
La sera prima mettere in un contenitore del formaggio, ad esempio nostrale fontinato, in ammollo con panna e tartufo nero finemente sminuzzato. In questo modo il formaggio si ammorbidisce e il tartufo inizia trasmettere il suo aroma alla fonduta.
Portare ad ebollizione una casseruola di acqua e immergere per sei minuti circa l'uovo in acqua bollente. Dopodiché scolarlo e lasciare freddare in acqua fredda. L'uovo deve rimanere con il rosso ancora liquido. Sbucciare con cura le uova e impanare in farina, uovo sbattuto e pan grattato.
Preparare a parte degli spinaci e farli saltare in padella con una noce di burro.
Preparare la fonduta facendo sciogliere il formaggio a bagno maria fino ad ottenere la consistenza desiderata.
Cuocere l'uovo in olio. La cottura ottimale rende la panatura croccante lasciando il rosso ancora liquido.
Impiattare su piatto fondo o tipo ciotola disponendo prima gli spinaci, poi la fonduta al tartufo nero e infine l'uovo fritto.
Spolverare l'uovo con il tartufo nero grattugiato.
Buon appetito!
Ricetta proposta da "Trattoria del Castello" di Montemale.
I raccoglitori e i coltivatori del Tartufo nero della Valle Grana si sono oramai abituati alla reazione di sorpresa da parte di chi viene a conoscere la loro realtà sociale e agricola. “Davvero ci sono i tartufi in Valle Grana?”, “Veramente si possono coltivare?”: sono queste le domande a cui devono rispondere di volta in volta. Chi le fa solitamente non ha molta esperienza né con il tartufo in generale, né con quello nero in particolare.
Le prime testimonianze della presenza del tartufo nero in Valle Grana risalgono al 1963, quando Pasquale Borsotto lo trova per caso, zappando in una vigna nei pressi di Montemale. Non sa cos’è, gli tira dei calci e lo schiaccia. La stessa cosa si dice facessero altri contadini intorno agli anni 30’, quando zappavano in mezzo alle vigne o erano intenti nella semina dell’orzo e del frumento sui terrazzamenti esposti a sud. Non riconoscendo i tartufi, li consideravano delle “patate nere” e sentendo l’odore così forte, così intenso, temevano fossero dei tuberi velenosi ed evitavano che i loro cani finissero per mangiarli.
Solo intorno alla meta degli anni ‘70 la presenza dei tartufi non è solo testimoniata, ma riconosciuta e valorizzata. A farlo è G. L. che, emigrato in Francia, ritorna a Monterosso Grana per la pensione. L. andando a caccia scopre che nelle sue terre d’origine esisteva il tartufo nero, un prodotto molto apprezzato in Provenza, dove aveva lavorato quando era giovane. Grazie ad un cane addestrato inizia a raccogliere tartufi. Prova a venderli in zona, in Valle Grana, ma senza successo. Così si reca in Francia e nelle Langhe, dove i tartufi sono conosciuti e apprezzati.
“È l’attacco alla diligenza”, sostiene Franco Viano, presidente dell’Associazione Tartuficoltori Valle Grana “in Valle Grana in quegli anni si ha una vera e propria invasione di raccoglitori di tartufi provenienti da Alba, Asti, Mondovì, Ceva… e poi anche da più lontano. Uno è arrivato addirittura da Siena”. G. L. inconsapevolmente aveva attratto i suoi stessi clienti verso la sua valle, e la “cerca” (così si chiama la raccolta del tartufo) era stata così diffusa e capillare da portare rapidamente alla sostanziale estinzione del tartufo nero in natura. “Qualcosa c’è ancora”, sostiene Franco Viano, “ma in quantità così ridotte da non avere più alcun senso commerciale”.
La svolta arriva nel 2002, e il protagonista è proprio Franco Viano. Ex-cacciatore, Viano aveva iniziato ad andare per tartufi con Diego Giordano, la cui passione era nata anni prima, poco dopo l’arrivo di G. L. Quando l’invasione di tartufai divenne insostenibile, Giordano mise al corrente Viano della possibilità di coltivare il tartufo nero, una pratica molto diffusa nell’Italia centrale, in Francia e in Spagna. Viano approfondì le tecniche possibili e si mise in viaggio per apprendere i saperi alla base della coltivazione, nonostante la diffidenza di Giordano. Iniziò i primi esperimenti di coltivazione, e la diffidenza di Giordano verso i risultati delle piantagioni di piante micorizzate venne condivisa da altri tartufai e dalla popolazione locale. Viano non demorse e dopo circa cinque-sette anni iniziò a raccogliere i tartufi sotto le piante a due passi da casa. Alla diffidenza subentrò quindi la sorpresa, e alla sorpresa l’entusiasmo. Oltre a Giordano furono in tanti a ricredersi e a seguire le sue tracce, compresi alcuni giovani, come Fabrizio Ellena, che alla tartuficoltura a Montemale dedicò la sua tesi di laurea, e Gabriele Ellena (fratello di Fabrizio), che inizierà ad usare il tartufo nero in cucina, con un occhio attento alle sue proprietà organolettiche.
Anche a Montemale e dintorni il mondo del tartufo corre parallelo a quello della caccia. Spesso, come Viano, i tartufai sono cacciatori o ex-cacciatori. In comune c’è la presenza del cane, ma non solo, c’è una passione che talvolta sconfina nell’ossessione, la caccia e la raccolta del tartufo in natura diventano quasi “atti predatori inevitabili”, i regolamenti non sempre vengono rispettati, e la pressoché estinzione del tartufo in natura in valle Grana ne è una prova. Realizzare tartufaie coltivate diventa così un modo per ristabilire un ecosistema, un equilibrio, e alimentare la propria passione: “per avere il tartufo bisogna creare un habitat e quindi un sistema”, spiega Franco Viano, “la pianta deve essere predisposta, micorizzata, ma anche il terreno deve essere predisposto. Poi bisogna avere mille accortezze, perché la pianta si bagna, si pota, si cura, va aiutata… e un conto è se ne hai dieci, un conto se ne hai 400. Bisogna sperimentare, non basta copiare dai metodi spagnoli o francesi, si prende il meglio di qua e di là e si fa la quadra. Piantare tartufi non è una cosa scontata, facile. A volte ti trovi a confrontarti nei convegni, allora c’è lo scambio di idee, e capisci che nessuno ha trovato la quadra al 100%”.
Se è vero che il tartufo nero rispetto al bianco può essere coltivato, è altrettanto vero che il prodotto mantiene un certo alone di mistero, una sorta di enigmaticità da svelare di volta in volta. Può sembrare un prodotto la cui diffusione è completamente indipendente dalla presenza umana, ma in realtà la situazione è più complessa, e sfumata. Secondo Fabrizio Ellena “per molti anni si è pensato al tartufo come qualcosa di naturale, di spontaneo, che nascesse, crescesse e maturasse senza che l’uomo in qualche modo intervenisse per aiutare o ridurre il suo sviluppo. Questo vale per il tartufo bianco, forse più che per il tartufo nero. In realtà, quando la montagna e la Langa erano coltivate in un certo modo, i contadini di allora, senza saperlo, inconsapevolmente, creavano delle condizioni idonee allo sviluppo di questi funghi. Infatti ce n’erano, in quantità rilevanti, anche in valle Grana. Quei muretti a secco, quei pianori di muretti a secco che oramai sono invasi dall’incolto erano zappati, c’era chi metteva la segale, chi metteva le patate, veniva portato letame e quindi la fertilità del suolo aumentava. Facevano delle azioni che inconsapevolmente favorivano la produzione di questi funghi. Anche se in valle Grana nessuno li raccoglieva, li trovava, e li cucinava. Questo si è andato un po’ a perdersi con lo spopolamento delle montagne, è mancato il presidio del territorio dell’uomo in natura, nella parte agricola. I boschi si sono chiusi e quindi la produzione è andata molto a calare”.
A Montemale si è costituito un piccolo gruppo di amici che sostiene e promuove il tartufo nero. “Per riuscire ad avere risultati migliori bisogna mettersi insieme, la campagna contro i mulini a vento da solo è improponibile. Devi avere il burocrate che legifera, quello che zappa, quello più sul commerciale. Noi abbiamo avuto la fortuna di esserci trovati in un bel gruppo, che si allarga a tutti i soci dell’associazione”.
Il tartufo nero di Montemale ogni anno viene proposto e promosso con alcune cene dove il menù è interamente a base di tartufo, con prezzi convenzionati. Gabriele Ellena, cuoco della Trattoria del Castello, racconta che “all’inizio, i primi tempi, c’è stata un po’ di paura, perché nessuno l’aveva mai cucinato… non sapevamo bene come fare e su quali piatti adattarlo, poi studiando e facendo un po’ di ricerche abbiamo capito che il tartufo nero ha una versatilità enorme rispetto al bianco, che forse è più legato alla gestualità ed alcuni piatti. Il tartufo nero adesso lo abbiniamo dagli antipasti fino al dolce. Bisogna cercare di utilizzarlo caldo e con piatti che abbiano una base grassa nobile, tipo l’olio extravergine, la panna, il burro… cercare un piatto che riesca con il grasso ad imprigionare il gusto per poi rilasciarlo in fase di cattura”.
La valorizzazione del prodotto arriva quindi fino in cucina, e sembra in continua crescita, pur con i tempi e ritmi dati dal ciclo biologico del tartufo e dalla sua sostanziale imprevedibilità, essendo soggetto alle condizioni climatiche come tutti i prodotti della terra.
“Mi sono accorto che quando andavo in giro a parlare di tartufo la gente ti ascoltava”, ricorda Franco Viano, “Il tartufo è un prodotto da traino. Adesso, sul nostro territorio il tartufo è presente, sviluppato e in coltivazione, la macchina è pronta, sali sopra, la metti in moto e vai. Il tartufo, legato ad altri prodotti, legato ad un turismo, legato all’ambiente… può essere una cosa importante, che si può sviluppare molto, perché è capace di dare lavoro e sviluppo ad una vallata: il tartufo ha queste potenzialità qua”.
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