…la disparition de ma mère – durant la terrible peste, aux dimensions moyenâgeuses, qui, en 1918, fit autant de victimes que la guerre elle-même, à l’instant de s’achever. De cette épreuve je sortis désemparé. Absent, très absent. Et compensant le désastre par un abandon total à l’imaginaire.1
«Aquela set, aquela passion de cercar»
Max Rouquette (1908-2005) – è cosa nota-- è considerato tra i più grandi autori occitani del Novecento2.
L’opera da noi presa in esame in occasione di questa nuova epidemia che ci coinvolge tutti è La Cèrca de Pendariès3 (La Quête de Pendariès)4, un romanzo che s’ immagina scritto in forma di diario da Pendariès, medico nella Montpellier del XVI secolo5. E non sarà un caso che anche Rouquette fosse medico, formatosi in questa città6, proprio come il suo personaggio letterario. La morte della madre di Rouquette, a causa della Spagnola, aggiunge un motivo struggente in più da proiettare su quest’opera che sembra a tutta prima un compassato liber rationum della tradizione domestica7 («Libre d’oras, èra per lo vièlh mètge qu’una mena de memòria personala. Quicòm coma un libre de comptes», p. 12).
Ambientata in un lasso di tempo che corre grosso modo tra il il 1546 e il 1564 (data esplicitata dal cap. 39 al 72; comunque entro il 1566, anno della morte di Rondelet), durante il quale scoppiano varie epidemie di peste8, la vicenda è incentrata sulle meditazioni di questo uomo di scienza, continuamente diviso tra le sue aspirazioni alla ricerca e i vincoli posti dalla morale religiosa9.
Al netto delle ricostruzioni d’ambiente del romanzo e delle peripezie personali del protagonista, di questo personaggio resta impresso il rigore morale e la profondità filosofica che, se dobbiamo immaginare appannaggio degli umanisti del XVI secolo, sarebbero auspicabili negli intellettuali di ogni epoca.
Abbiamo scelto questo excerptum del romanzo, dunque, per lo spirito inesausto di sapere e di ricerca, come ci dice—e da par suo-- lo stesso Rouquette nell’epilogo del libro, che eterna il valore dell’esperienza di questo scienziato, che così si conclude:
E, oltre a ciò che lo fa appartenere al suo tempo, questa sete, questa passione per indagare, per conoscere, per spingere lo sguardo dell’uomo al di là dei segreti proibiti, qualsiasi cosa possa accadere. Che lo fa del suo tempo, ma ancora, e senza meno, del nostro.
E dobbiamo essergli grati per averci consegnato con tutto l’ardore che lo divorava, questo gusto del raccoglimento su ogni immagine che un uomo raduna nello specchio del proprio spirito. E che è il cammino più sicuro della delizia d’essere uomo, o semplicemente d’essere, qualunque sia il male di vivere, la follia del mondo, e l’eterna piaga che ognuno, come il vecchio Giobbe10, si trascina senza sosta nella propria carne e che come lui si accanisce11 ogni giorno a tener viva con un coccio (cap. 88). 12
La scuola medica di Montpellier
Come abbiamo detto, il romanzo è ambientato a Montpellier, verso la metà del XVI secolo, dove Pendariès, studioso di anatomia dell’illustre scuola medica13, si trova immerso nelle sue riflessioni e nelle sue ricerche clandestine, che affida appunto ad una sorta di journal de raison14.
Au fons dau temps. Lo vese. Quatre sègles e mai i an nevat de sa nèbla lenta. E pasmens lo vese. Coma s’èra aquí.Viu e sens movement. Au fons de l’androna escura ont doas candelas i fasián lum. Clinat sus la forma espandida, blancassa, espotida sus la taula, d’un còrs, d’un cadavre.
Ecco in apertura del romanzo l’immagine di Pendariès, intento alla dissezione di un cadavere al lume di candela, nel gabinetto segreto15 dove scrive nottetempo i risultati scientifici, occultando poi il registro16 entro una pietra smossa del focolare. Il luogo fisico dove egli consegna alla pergamena i suoi segreti professionali, d’altronde, è anch’esso carico di storia della medicina. Infatti, la tenuta in cui abita era appartenuta al celebre medico Arnau de Vilanova. Tra i medici Rouquette, Pendariès e Arnau de Vilanova si viene quindi ad allacciare una sorta di dinastia elettiva17.
Inizialmente, il lettore ha a che fare con un relato posato, un diario di piccoli eventi quotidiani quali ad esempio la decisione di adottare un cane randagio trovato lungo la strada (cap. 4). Sarà la prefigurazione di San Rocco, santo originario della città e invocato per guarire dalla peste, e del suo animale fedele, spesso ritratto nell’atto di leccagli le piaghe (si veda qui, il cap. 53)?
Seguono la descrizione di luoghi e personaggi della cerchia medico-universitaria di Pendariès. Il romanzo è dunque l’occasione per evocare lo scenario della Montpellier del tempo, celebrando in particolare gli illustri professori della sua antica scuola medica18. Tra le conoscenze di Pendariès si annoverano infatti alcuni nomi noti e storici come il medico Guillaume de Rondelet19 o Michel de Nostredame, ovvero Nostradamus.20 Ma il più omaggiato è lo scrittore e umanista francese François Rabelais, che studiò a Montpellier e si laureò in medicina proprio in questa facoltà, dove in seguito conseguì anche il dottorato21. In onore suo, Rouquette estrapola e reinventa vivacemente il personaggio di Gargamella22, facendone una pantagruelica maîtresse della città23.
La Notomia
Li èra venguda la ràbia dau conóisser […] lo còrs de l’òme. Tresaur desconegut entre que marins e capitanis d’Espanha anavan en quista de las terrae incognitae que fasián encara suls portulans tant d’espandis blancs […] Fins a una ordonança que fasiá obligacion a la justicia de bailar un penjat l’an a l’Universitat. Fasiá pas gaire (pp. 10-11)
All’epoca delle scoperte geografiche, che schiudono fantastici Eldorado al vecchio mondo, le ristrettezze in cui si muove la ricerca medica --un solo cadavere all’anno destinato allo studio-- accendono ancor più nell’anatomista la foga di scoprire i territori del corpo umano, tesoro sconosciuto. Questo parallelo tra mondo geografico che si va arricchendo di nuova nomenclatura e l’anatomia che esplora sotto l’involucro della pelle venas e tendilhs, nèrvis e vaissèls, muscles e tripas, regioni inesplorate, sarà il paradigma conoscitivo del diario di Pendariès.
È l’anatomia (la Notomia)24 la disciplina che Pendariès professa, ed esercita, o meglio, eserciterebbe d’elezione, se forti limitazioni nella disponibilità dei cadaveri non fossero imposte dalle autorità del tempo alle Università, anche quelle più illustri, proprio per la medicina, come quella di Montpellier25. La segretezza, dunque, concerne i risultati delle sue riflessioni scientifiche, ma anche la vita di sotterfugi che un uomo di scienza doveva affrontare per eludere i divieti religiosi, ovvero per procurarsi cadaveri da dissezionare al fine di studiare il corpo umano, specie nella sua vulnerabilità messa a dura prova dalla peste che infuria26.
E qui la scrittura del diario si rivela catartica per Pendariès, che dovrà misurarsi con la propria morale di uomo timorato di Dio, che confligge con quella dell’uomo di scienza.
Le sue avventure e peripezie iniziano a movimentarsi quando il compagno e maestro, Guillaume de Rondelet, gli chiede di scortare sua nipote, che abita vicino ad Arles, alla città di Montpellier. La peste che là dilaga l’ha resa vedova e sola al mondo. Nel lungo viaggio a cavallo abbiamo così l’opportunità di contemplare, tramite gli occhi del protagonista, il paesaggio incontaminato, puro e suggestivo della Camargue (cap. 41).
Al termine del lungo e pericoloso viaggio di ritorno, la coppia giunge finalmente a destinazione e giorno dopo giorno, pagina dopo pagina, si assiste ai nuovi sentimenti del medico verso la donna di cui si innamora, e che sposa. Ma per poco. La peste, infatti, non perdona e cala la scure sulla vita della donna amata. Quindi, Pendariès, provato da esperienze private più emotive (l’amore) e poi drammatiche (la morte), si cimenta in considerazioni ancora più cocenti, perché gli accadimenti prendono un corso fatale per la sua vita. Benché afflitto dal lutto e dallo sconforto, egli giunge persino a dissezionare il cadavere della moglie -- che pure ha amato appassionatamente, ma che la peste gli ha portato via -- con il suo bambino in grembo.
Il rimorso per questo gesto sprofonderà Pendariès in uno stato depressivo, sinché anche lui si ammalerà di un virus che, alle soglie della morte, non esprime ancora i suoi “segni univoci”(capp. 75 e seguenti). Forse l’uomo soccomberà, ma il medico vorrà affermare sino da ultimo il suo diritto a capire la causa esatta della sua morte imminente (cap. 82).
Ed è la peste, dunque, la vera protagonista del romanzo, in quanto è tra i temi principali dell’opera e torna come una maledizione ineluttabile e frustrante specie per un medico che ambirebbe a comprenderne cause e rimedi. La malaboça27, il “bubbone malefico” è sempre lì, cercato con terrore nell’inguine degli ammalati, tiranno assoluto della paura (capp. 6, 28, 53, 73, 82).
« Jamais, peut-être, comme dans ce livre, les capacités d’envoûtement de la prose de Rouquette n’ont contribué aussi puissamment à nous faire pénétrer dans les zones les plus obscures de l’existence humaine»28.
Oggi come allora?
Gli scenari del flagello della peste, evocati da Rouquette, non possono non portare il pensiero alla situazione attuale: l’epidemia, la paura, lo smarrimento davanti al Male senza volto, la quarantena. Ed esattamente come allora, siamo inermi, sprovvisti di un rimedio, di una cura. Ed esposti alle menzogne e alle false illusioni (capp. 6 e 38).
Credo che anche per questo, sia ancor più opportuno tradurre in italiano e riconoscersi nelle meditazioni di Pendariès sulla morte, sulla società che lo circonda, vista nelle sue storture, nelle sue menzogne colpevoli (i ciarlatani, cap. 38; gli elisir, cap. 46), la strategia della paura (cap. 43), la quarantena e le disinfezioni, cap. 73, nel dolore della perdita dei cari (cap. 53), e, finalmente, nel desiderio segreto che la peste ripulisca il mondo da un’umanità colpevole per ritornare ad uno stato di Natura (il bellissimo cap. 72). Ed infine, la pervicacia dell’uomo di scienza, Pendariès, ormai ammalato di un morbo non ancora definibile, al fine di sapere il perché della sua morte eventuale: «Mas ieu siái mètge. Fai qu’aquela consolacion me la cal: saupre de qué me’n vau» (cap. 82, p. 241)29.
Questo romanzo di Rouquette sta proprio qui a ricordarci che il mondo della pandemia del 2020 non è poi così dissimile da quello visto con gli occhi di un medico vissuto nella Montpellier del XVI secolo ed annotato nel suo “manoscritto ritrovato”:
quella memoria muta in cui si racchiuse la passione e l’avventura umana di un medico d’altri tempi. Fino al giorno in cui dei mezzi meccanici, che non avrebbe mai potuto immaginare, hanno scoperto tutto e hanno portato alla luce del giorno l’opera delle sere e della notte della meditazione lenta e misurata, il miele e il fiele pazientemente maturati da un uomo come tanti (cap. 88) 30.
6 Il Male senza volto, senza sguardo
La Peste… se ne parla dappertutto e sempre. Più o meno. È soprattutto quando regna che il suo nome s’ammutolisce. Come se si temesse nel nominarla. Che venisse a bussare alla porta. Strega dalla maschera nera32. E, sotto, una risata a trentadue denti. Assente, resta una presenza oscura. Come ritrosa. Ma caparbia. Si dice: il male. O il male nero. O il bubbone. O il bozzo maligno. O la grande febbre. O l’epidemia. È piuttosto questo il nome che ricordano. L’epidemia: questa parola si riferisce a così tante malattie che finisce per non significare nulla33. E dunque più dolce a passare. Siccome può riferirsi sia al morbillo34 che alla febbre terzana che alla quartana, la sua sonorità non va obbligatoriamente a richiamare, in fondo all’aria e allo spazio, la sventura addormentata.
E da medico quale sono, come potrei dimenticarlo? Ad ogni febbricitante che visito per la prima volta, il suo pensiero si leva nel mio spirito e sono subito alla ricerca dei segni «equivoci» che tante febbri hanno in comune, e dei segni «univoci» che sono il marchio del Grande Male. Solamente, ho il dovere di non pronunciare mai quelle sillabe. Che, cadute dalle mie labbra, leverebbero il vento sventurato di voci, spesso tanto pericolose quanto il male vero.
Siccome, alla fin fine, non si sa che cos’è, sembra che tutto il suo essere sia passato nelle parole che ne sono il simbolo. Respinta dall’istinto vitale, negata furiosamente, tanto dal malato che dal medico o dai governatori, più ancora dalla famiglia spaventata che si vede già bandita dalla cerchia dove solo i vivi hanno il diritto di restare, la furba si compiace nella delizia di non essere che una parola alata, un po’ d’aria tra la lingua e i denti, una paura sottile che non sa più da quale parte ripararsi. Così fa lei la sua legge. Di mietitrice.
La Peste. C’è ciò che è. E c’è tutto quello che si immagina. Ciò che è le sarebbe sufficiente quando l’epidemia è là, presente dappertutto. Con questa cosa terribile quale è il Male puro. Il Male senza volto, senza sguardo, senza corpo. Non se ne vede che gli esiti: malati già persi nei vaneggiamenti, il delirio, la febbre. Barcollanti negli ultimi istanti prima di accasciarsi. Già privi di ogni idea di resistenza, di ogni speranza di guarigione. E gli odori grevi, spessi, a volte immaginari più che sentiti realmente. E l’aria, accusata ogni volta, così come l’acqua, di trasmettere il Male. E le menzogne dei governatori che non vogliono spaventare la gente, delle famiglie che negano il Male e nascondono i malati. E i cerusici e i chirurghi della Peste, che, più di una volta, senza alcuna conoscenza affermano, in qualunque modo, che non è “Lei” per non essere rinchiusi insieme con loro, finché si smorzi l’epidemia35.
Menzogna e delazione. Vendette per spedire all’ospedale degli appestati il nemico o la donna non consenziente. O il vecchio a carico. O la sposa che infastidisce. O il nonno, quando l’eredità tarda ad arrivare.
Il Male, dico, invisibile ovunque all’erta, nascosto, e che è a capo della città.
La menzogna e la paura. La paura che non risparmia nessuno. Che ti stringe le viscere. Che fa marcire lo spirito, il cuore, l’anima. Che di un valentuomo fa uno straccio. E di un fedele un traditore. L’ oscura paura, perché senza volto, come il Male. Ovunque nascosta con lui. E più ancora dove non c’è. E che fa così male che lo propizia. Massacra36 l’uomo. Annega la sua volontà, la sua forza, il suo coraggio. E lo butta, lo tira, lo getta nell’aria appestata di morte e di febbricitanti sudori 37. E che, peggio ancora, di un volto amico e sano fa uno spauracchio, di una casa accogliente una sorta di tomba oscura dove nessuno osa più posare la mano su una tavola38, un bicchiere, su un pezzo di pane, un asciugamano. Dove il vino nel fiasco diventa veleno, e il pane e il latte. Dove il bacio della madre o della sposa, del bambino o dell’amato è forse quello della morte. Dove vivere è un pericolo mortale in un mondo carico di terribili poteri.
Senza che il medico più sapiente sappia trovare il bandolo della matassa delle cause. Lasciando ai preti la spiegazione di una maledizione venuta dal cielo; e il castigo di tanti e tanti peccati. Come se fosse un peccato vivere. E come se la morte che, in fin dei conti ci attende, non fosse sufficiente a castigare i peccati più orrendi della povera terra dove viviamo.
Ho fatto il conto dei passaggi della peste in questa città. Sono andato a consultare i Thalamus del comune. Sembra impossibile vedere come, così fitti come le onde del mare, hanno finito per togliere alla gente di questo paese il gusto di vivere. Ci sarebbe da fuggire. Per andare dove? Quando da Levante a Ponente, da Nord a Sud nessuna città, mai, ne scampò.
È una vera litania: 1227, 1315, 1348, 1358, 1361, 1374, 1375, 1384, 1391, 1395, 1407, 1481, 1498, 1502, 1506, 1510, 1515, 1522, 1530, 1533-34, 1541-1544.
Al di fuori di un vuoto di settantaquattro anni, dal 1407 al 1481, che mi fa dubitare di attestazioni perdute, si può dire che la Peste non ha mai smesso di girare per la regione. Con un po’ qui un po’ là una fiammata come fanno i fuochi d’estate nelle campagne; sotto le raffiche di vento. A volte fa finta di sonnecchiare. E gli uomini si ringagliardiscono39. Hanno dimenticato in fretta quello che impediva loro di essere felici. E come stupirsene? Noi tutti che non abbiamo che questo in testa. Comunque sia, un po’, un pochino, davvero solo un pochettino di felicità. Io come gli altri. Che ho il mio sole nella vita. E che troppo scottato tengo stretto, come un segreto. O meglio come il forziere dell’avaro. Una disgrazia è così presto arrivata. E tuttavia m’è tanto dolce parlarne. Che ciò che ride al sole è la grazia più alta di Dio.
21 È dal mare che viene il Male
È dal mare che viene il Male. La città ha sempre intrattenuto commerci con i genovesi, i lucchesi, i napoletani, con le genti di Costantinopoli, di Smirne e d’Alessandria, con quelli di Barcellona e di Valencia. E più spesso ancora, di Maiorca. È sempre dai vascelli che viene il Male. Ma nessuno ha ancora visto la sua forma quando passa a terra. Come se fosse un essere invisibile.
Sono andato al porto più di una volta. Anche quando arrivava il Male. Ho visto degli uomini robusti, vigorosi, nel pieno delle loro forze volare per i pontili. Con il loro sacco sulla spalla. Accatastavano, anche, dei mucchi di balle di lana, di pelli, di seta o di broccato. Dei frutti d’Oriente, dall’Italia o dalla Grecia. Delle giare40 di olio o di vino.41 Niente di sospetto in tutto questo. E tuttavia si sa bene come comincia. Come per un fuoco di gariga, si può trovare sempre il luogo preciso da dove si è esteso; il punto42 in cui, all’inizio, brucia il fuoco, ha quasi sempre un lato che tocca il mare.
E se cercate bene troverete che un battello, una o due settimane fa, attraccò nel porto della città. Non più ora. Che l’epidemia è nel paese. E vi imperversa. E che per periodi di cinque, dieci anni, vi dorme. Come per farsi dimenticare. Prima, di nuovo, all’improvviso e per ragioni sconosciute di risvegliarsi e seminare i suoi disastri.
Altra questione che si pone. Ne abbiamo parlato una volta a scuola. Com’è possibile che, passato il periodo della sua grande fiammata, dopo uno, due anni, poco più, il Male cessi, la vampa cada e si spenga. Senza che niente lo possa spiegare. E che resti così per anni, silenzioso, come sparito per sempre. E che poi, ritorni, senza una ragione. Forse, se un giorno potessimo comprendere perché, forse potremmo dominare questo flagello, questa piaga d’Egitto, così ben chiamata. Davanti alla quale siamo così ignoranti come i medici, gli stregoni e i maghi del Faraone, impotenti e persi in una rabbia infantile.
24 «I prigionieri, nelle loro celle, sono risparmiati»
Il Male. Di nuovo il Male. È dappertutto. Rende pesante il suo impero. Che non risparmia nessuno. È ovunque. Nei corpi, spesso, ma sempre negli spiriti. E, qualsiasi cosa avvenga, in qualsiasi modo che gli uomini lo considerino per i turbamenti e le complicazioni43 che genera il suo nome nel pensiero delle persone, è sempre lui che vince.
Ne hanno tutti una paura tremenda. Anche quando non ne parlano, ci pensano. È il loro tormento, il loro primo cruccio, forma iniziale del Male che lo propizia. Che li fa a pezzi e li prepara a riceverne, invisibile, il veleno mortale. Ci pensano senza tregua, sino nel profondo del sonno nei sogni. Ma non lo si vuol confessar. Sono tutti pronti a ignorarlo. Non vogliono vederlo. Lo negano. E anche quando alla fine le prove sono là, come dietro i Tartari, quando passavano al galoppo, il loro cammino poteva facilmente indovinarsi dalla sola scia di cadaveri che era il segno a terra del loro passaggio, o al volo dei corvi che ne era stendardo44 nel cielo. I Tartari, il cui nome è accollato al Male, i Tartari che in principio lo lanciarono, sotto forma di palle, nel campo dei cristiani, con i cadaveri dei loro appestati.
Dico il Male. Del tutto naturalmente. Perché è veramente, tra tanti, il volto più malefico del Male, il Grande Male che segue ostinatamente l’uomo sul suo cammino, come il lupo, che alla fine, lo divorerà. Che non si accontenta di essere una di quelle facce come ce ne sono tante, ma che ne trascina con lei di ogni sorta.
E quando ce l’hanno davvero, la sventura è che non possiamo dir loro la verità. All’infuori di un miracolo in cui sono tutti pronti a sperare, e a bruciare delle leghe di candele per ottenerlo, li vediamo, disgraziati e disperati, aggrapparsi a noi come l’annegato al ramo basso della riva. Non abbiamo il diritto di togliere loro né il coraggio né la speranza, solo questo resta quando il corpo è contaminato45, e lo spirito portato via nella sarabanda del delirio. Dobbiamo fare come se… Siamo quelli che fanno «come se…». Simili a quelli che a teatro recitano Alessandro o Cesare, Piramo o Tisbe. Solo che, loro, ognuno sa che sta fingendo. Mentre noi, poveri noi! E ancora, medici quali siamo, non siamo tutti a saperlo.
E non parlo, tra i tanti volti del Grande Male, del commercio dei rimedi veri o falsi, tutti, bisogna dirlo, senza nessun potere. Ma che luccicano, agli occhi dei malati, come cento soli. Commercio che alletta un nugolo di approfittatori. Gente che, lo sappiamo bene, sarebbe capace di afferrare uno scudo con i denti anche fosse tra i denti della Morte.
Pensiamo spesso, parliamo di più ancora, tra medici, dell’origine e delle vie di espansione del Male.
Ho qualcosa che mi gira e rigira in testa, già da un po’, questa affermazione di Avicenna sulla peste. Dice: «I prigionieri, nelle loro celle, sono risparmiati», questo gli fa pensare che l’aria buona, quella di fuori, è più cattiva di quella di dentro, nonostante chiusa e quindi, alla fine, guasta. Ho visto morire, al quinto giorno, un cappuccino, di quelli che vanno dappertutto, scalzi, nelle case e per le strade. E mi sono intestardito46 di sapere, dall’ortolano di un convento, come erano scorse le epidemie precedenti: «Non ne hanno perso uno solo». E l’ortolano, lui, che alloggia in una parte47 del chiostro non va in città. Gli portano da fuori carne e legumi. E la stessa cosa per un altro monastero di Carmelitani. Ne parlammo tra medici. Mi risero in faccia. «L’epidemia è castigo di Dio: come potrebbe colpire quelli che si sono consacrati a Lui, e che vivono come santi dietro le mura del chiostro?» «Eppure i prigionieri, sono dei malfattori. Fuori dalla legge di Dio. Com’è possibile che anche loro siano risparmiati?» Alzavano le spalle. Uno finì per dire, approvato da tutti: «È perché sono già puniti. La prova è che sono in prigione, Dio non colpisce due volte». Può essere. Ma non impedisce che la sentenza di Avicenna non smetta di frullarmi nella testa. E di fare il suo cammino. Costeggiato di domande.
28 Il nostro mondo medico soffre del male scolastico
So che il nostro sapere è scarso. So che non sappiamo granché. E, niente di niente sulla peste. Sappiamo, sicuramente, riconoscerne i segni, tanto, per fare i saputi, i segni «equivoci» e quelli «univoci». Questi ultimi, i soli che nessun’ altra malattia presenta: “carboni”48, bubboni e pestilenza. Sappiamo che il Male proviene, secondo Ippocrate «da abbondanza straordinaria di piccoli animali, generata dal marciume di pulci49, mosche, rane, rospi, vermi, ratti e altri simili». E dopo, inverni caldi invece che freddi, l’estate fredda al posto di essere calda. Sappiamo che gli astri e le case della vita mostrano agli astrologi i segni della peste che si avvicina.
E poi? A cosa serve tutto questo sapere per dire che è lei. Quando chiunque, dopo averne visto un caso, ne saprà tanto quanto noi. E avrà tanto potere quanto noi per guarirlo. Vale a dire: niente di niente.
È per questo che tanti medici credono di salvarsi dalla loro ignoranza attraverso una miriade di commenti e di ragionamenti che mi fanno pensare alla Scolastica. Quando li vedo argomentare su delle affermazioni di un Galeno, il cui sapere era certo importante mille anni fa, ma che nessuno immagini, non fosse che nel caso dell’Anatomia, di andare a verificarli in concreto50, mi fanno pensare a tanti sermoni intrisi di teologia, di filosofia, di metafisica, su parole che, pur essendo Vangelo, con rispetto parlando, non sono sempre obbligatoriamente, quelle della verità. Chi ci può garantire che ciò che ci dicono nella nostra lingua è l’immagine esatta e senza difetto di quello che dicono nella loro, l’originale?
Allora, saluto queste asserzioni che possono passare per prove. Belle. Ragionamenti senza pecca. Frasi che disegnano armoniosamente le loro curve rotonde e tintinnano d’ eco gradevoli all’orecchio. Ma che sono, troppo spesso, come un tuono scaturito da una botte vuota, e che si vorrebbe far passare per quello di Dio.
Il nostro mondo medico soffre del male scolastico. E il suo discorso è a misura della sua ignoranza. E quando vedo i vestiti di cui si ricoprono per andare maestosamente -- quando non si sono dileguati nella natura -- a visitare e curare i loro malati, con quelle tenute da indovini o da stregoni, con grandi becchi, come quelli degli uccelli del malaugurio51, con i fumi puzzolenti che spandono intorno a loro per cacciare52 il male, il mio avviso è che siamo più dei commedianti che dei medici, e che offriamo ai nostri pazienti una commedia senza ridere e senza onore. Ma a chi dirlo, all’infuori di Rondelet che la pensa come me, ma che brontolerebbe; e di questo povero registro oscuro, la cui pergamena è un buon asino, e che custodisce i miei pensieri così segretamente come se fossero stati chiusi nella mia testa.
38 Menzogna, menzogna, menzogna ovunque
Pèire Petiòt, il capitano di sanità, è venuto ad informarmi che al Consolato della città avrebbero pensato di propormi di diventare chirurgo della Peste. Di quelli che vanno nelle case a verificare la natura e la certezza del Male.
Questo non mi piace. Affatto. Se queste persone potessero aiutare a portare sollievo, per quel poco che può essere, ai malati e agli agonizzanti, lo farei senza esitare. Ma so fin troppo bene che questo non è niente di più se non una pagliacciata vergognosa.
Il solo e unico scopo è quello di far credere nella serietà dei Consoli e nelle capacità dei medici, preoccupati della salvezza della povera gente, e maestri nel sapere e nell’arte del governo. Che, come dicono, hanno previsto tutto. Quando, in realtà, non hanno mai visto arrivare il Male, non più che la carestia o le inondazioni53. Questo potrebbe, senza dubbio, esser loro perdonato, se preparassero, perlomeno, qualcosa per portarvi rimedio.
Buffonate che disonorano tanto quelli che vi si prestano quanto quelli che le ordinano. So cosa ne pensa Rondelet, tra sé e sé. Anche se, tuttavia, non si sente in diritto morale di rifiutare.
Bisogna vederli con questa bardatura, questa maschera spaventosa, questo enorme becco inutilmente crudele, come se volesse spaventare il Male, crudele a volte, e stupido. Questo cappello, questo vestito da professore o vescovo. Che ne fanno strani uccelli venuti, direttamente si direbbe, dalla luna, che infestano54 le vie deserte di una città morta, nel fumo della pestilenza e nell’incubo55 dei corpi senza padrone. Saltimbanchi da farsa, smarriti nel grande mistero della morte56.
Menzogna vivente, vanno con un contegno che, in altri tempi, non avrebbe nemmeno fatto ridere. Menzogna in azione, se lo si può dire di colui che non va che gesticolando, parole al vento variegate di un latino di chiesa, che escono da un gran becco di beccaccia57 gigante la cui madre avrebbe peccato con un corvo.
Menzogna, menzogna, menzogna ovunque. E se anche non fossero pagati dal Governo, quando i loro pazienti si dimenticano presto di farlo, tanto la morte si spazientisce per portarli via58, ciò che può loro servire come scusa, come si può credere che si possa trovare un vero uomo che si presti a una farsa così meschina?
43 L’arma del Male era la paura
[…]
Si parla sempre del Grande Male. La gente finisce col sognarlo. Si dice che la Peste sia a Marsiglia59, a Saint Gilles e anche ad Arles. Non dico nulla. Non ne so molto. Viviamo in un tempo in cui lo spirito è schiacciato. Ci penso. E soprattutto perché il Male è senza corpo e senza volto. Gli antichi avevano il fuoco, l’acqua, la guerra. Terribili. Ma facili da vedere. Siamo arrivati ora al tempo del Male invisibile. Arriva nell’uomo a farci il suo nido per ucciderlo. Ma prima, per spanderci le radici e portarlo dappertutto. Somma grazia, ancora, quando non è nell’amore, nell’amplesso. Sotto la maschera dell’amore, il Male. Quello di Napoli, che si dice piuttosto venuto dalla Spagna e anche dalle Indie Occidentali60. È nel ridere e nel piacere che sazia la sua fame inestinguibile. Si è sparso come una Peste nuova, senza scalzare l’altra. E semina diffidenza e paura tra gli uomini e le donne. Tanto numerosi sono quelli che, dietro un sorriso chiaro, riflesso delle perle dei denti, possono discernere e riconoscere la risata della morte. E si astengono dal piacere, monaci dell’amore. E si negano ogni piacere. L’anno Mille conobbe la sua grande paura. Quelli dopo hanno avuto, e hanno ancora, la Paura nera. E adesso, come se non ce ne fosse già abbastanza, ecco che arriva la Paura bianca.
La paura, tutte le paure. Tutte simili. Precorritrici del Male. I popoli l’hanno mantenuta nel fondo della memoria quest’immagine in cui, nel fondo delle tenebre della notte, la pallida luce della prima alba, staglia sulla cresta della collina l’ombra magra e dritta, ombra unica e sottile della bestia e del cavaliere, la lancia alzata verso il cielo, terribile nell’essere là, pietrificata nella penombra. E grande come la notte.
E la lancia non aveva bisogno di abbassarsi per tendersi verso di loro. L’arma del Male era la paura, divenuta parola, che corre nelle vene e nelle anime. E che le bocche lanciano nell’aria come fosse il principio malvagio di un’epidemia, e la spargono ai vicini. La paura che scortica61 la volontà e che toglie la speranza. E avvantaggia il Male, che poi si espande e galoppa come un incendio d’agosto62.
[…]
46 Gli amici hanno preso il volo
La Peste è il Male totale. Quando si diffonde attraverso qualche terra, ecco che questa diventa il regno della menzogna. Si direbbe che per negarla, no, piuttosto per scordarsela, si siano messi tutti d’accordo, anche se abitualmente si mangiavano il fegato. Una specie di tacita connivenza che li ha invasi tutti. I malati, per non confessare di sapere che sono contagiati. E per respingere tutto quello che ne consegue. Un modo per mantenere vivo il verde ramoscello della speranza al quale si aggrappano con entrambe le mani. Ciechi per volontà. E pronti ad ascoltare come il Vangelo la parola di quello che, per pietà o interesse, li culli nella loro tranquillità. La famiglia per ragioni simili a queste, con, in più, l’oscura fiducia che non dicendo la verità sul malato, resteranno fuori dalla quarantena e da tutto ciò che di terribile ne viene. Se ne vede di quelli che ungono i medici della Peste o gli speziali perché non scrivano il loro nome sul foglio rosso. E, per soprammercato, mi hanno parlato di speziali che facevano ricattare quelli che avevano pagato, con la paura che avevano creduto di schivare, fino a portarli alla rovina.
Per non parlare del grande mercato di medicinali, giulebbi, elisir, e altri unguenti, riservati, i migliori a chi può pagare, gli scarti alla povera gente63. Lo stesso per i profumi che allontanano il Male, si dice, dalle case. Ce ne sono di due sorte: i ricchi per i ricchi, i poveri per i poveri.
Mi hanno detto che per ragioni politiche, soprattutto, i Consoli della città, anche se erano a conoscenza che si osservava, qua o là, all’inizio, qualche caso di peste, ne smentivano l’esistenza, dichiarando che erano solo voci senza alcun fondamento, dicerie di vecchiette, o di medici per le capre. E anche con me, hanno fatto lo stesso. E il malato è morto. E la Peste l’aveva, nella piega tra coscia e pancia. Questo per timore del panico, del fuggi-fuggi fuor di città, dei ladri. E per tante ragioni. Come se si potesse impedire il passaggio dei fiumi…
E la menzogna è dappertutto. Quando parlate a qualcuno, si vede la paura nel suo sguardo. La paura di voi che, forse, gli andate a portare il Male. Anche se parla d’altro. E soprattutto se è d’altro che parla. Vuole sapere. Ma non lo ammetterà. Il suo discorso ha il passo di gambero64. Va al contrario. Nasconde la bocca con le mani. E dice che ha mal di denti.
Il Male, quando dico… Quello che si sa, quello che si vede, quello che ho visto: lo sciacallaggio sui morti ancora caldi. E, di più ancora, quello dei morenti, persi nel loro delirio. E le case, svuotate in un batter d’occhio nel momento in cui non vi è più nessuno in grado di alzare nemmeno un dito per proteggerle.
[…]
Ma nel frattempo il Male marcia, trionfante e distrugge ogni morale. Appena la Peste è spuntata nel corpo di un uomo o di una donna, anche la più adorata e desiderata, non c’è più nessuno. La madre, il padre, lo sposo, la sorella, il fratello. Gli amici hanno preso il volo. E quelli che restano, quando ce n’è, dentro casa, lo guardano di traverso. Prendono il largo. E ogni ragione è buona per uscire fuori. Il Male, per fortuna, è capace, come il diavolo, di pietà. A volte. Quando è sicuro di avere vinto. Li ottenebra e presta loro dei sogni che il povero malato gli corre dietro, dimentico di sé. Mentre marcia verso l’assenza che pacifica65 e tutto inghiotte.
Il Male…
53 È stato quando l’ho portata alle barche
Torna la Peste. Si sente. Senza che niente sia detto. Per timore di essere sentiti dal genio del Male che, sembra, non ami nulla quanto essere chiamato, e fa sempre l’onore di rispondere al comando.
Si avverte dai segni al di fuori di ogni parola. Se il silenzio può vestirsi di qualche colore, è dal suo colore che si lo indovina ammalato. Non è il silenzio franco che conosciamo, quello dell’alba, per esempio, prima del risveglio degli uccelli. Lo si sente, nella città quando si trattengono le parole. Il tintinnio gioioso del chiacchiericcio di strada è stato come limato, smorzato, come quando nevica, e il grido non risuona. Un mondo ovattato, pauroso fino a trattenere il respiro, si direbbe, per paura di sollevare66, dal suolo, qualche vapore malefico. E di risa ce n’è meno, presto interrotte, come se fossero peccati o offese, colpe che meritano la forca. E le genti non si attardano in chiacchiere senza fine, pressati dal volersi rinchiudere in casa, per paura di esporsi troppo a un Male che si nasconde, forse, dietro il sorriso di un’amica.
Una sorta di oscura diffidenza si è creata tra gli abitanti, e soprattutto verso coloro che vengono dalla campagna. Non parlo dello straniero, ancora vestito da viaggio e appena sceso dalla loro mula. Questo non ha bisogno di chiedere informazioni sul cammino da compiere, o sulla casa di un amico.
Quelli che interpella diventano sordi e proseguono dritto come se non lo avessero visto. E, anche tra di loro, si guardano prudentemente prima di rivolgersi la parola, anche se si conoscono da oltre vent’anni. Ogni volta, da lontano, si osservano, mai nessuno ha, come oggi, prestato attenzione al colorito di una guancia, alla freschezza di una bocca, alla vivacità di uno sguardo, alla fermezza di un’andatura.
Quello che cercano, all’inizio, è il riflesso, per quanto tenue, di una febbre, o quel poco di spossatezza che annuncia l’inizio del Grande Male.
E quando, a voce bassa, si parlano, lo fanno cautamente67, divisi tra la voglia matta di sapere, subito, la notizia che temono, e la speranza, attesa, che almeno per un giorno in più, si sentiranno liberi dalla loro paura.
E le cose sono tali che, mi sbaglio forse, ma alla fine una coppia di persone, almeno, mi hanno detto la stessa cosa: il cielo, e il tempo sulla città, hanno dei colori, fuori dall’ordinario. Un’influenza malefica sembra gravare sulla città, e vi sosta per mandare i suoi raggi malefici. Un riflesso maledetto venuto da fuori, o riflesso di un’epidemia che infesta le case, e si diffonde sulle nuvole. Incubo che ci viene dall’immaginazione, il rosso di sera68 o del mattino non è più solo l’indizio della pioggia o del bel tempo. Sono diventati segno del destino, annuncio di disastro, un modo per il cielo di indicare qualche castigo. Che tutta la città chiama. Che raduna e riunisce tutte le forme del peccato, della depravazione69 e del vizio. E il violetto, che cambia in continuazione, che si mescola al rosso dell’alba o del crepuscolo70, pesa come una minaccia senza parole, tanto più eloquente perché è muta. Un rattristarsi continuo che prende colori purulenti71. Ora dorme. Mezzanotte è già passata. Da questa mattina non mi sono ancora fermato. Enòr è ammalata. Appena cenato, ieri sera, è andata a dormire: «Mi sento stanca… ha detto. Ho male ai reni». «Tu ne fai troppe, le ho detto per tranquillizzarla, una buona notte di sonno e domani, sarà tutto finito».
Ho pensato anche che era incinta, e che, spesso, le donne ne risentono sui reni. Mi vidi a cercare ragioni ordinarie e semplici. Per il fatto che nulla sembrava così brutto. Ma il medico guardava con occhio attento. Quella vecchia diffidenza. E ne sono ancora turbato. Di questi tempi, con tante miserie all’orizzonte, tuttavia chiaro, dei giorni… si lamentava della testa, pure. Ma questo lo si nota anche quando si ha imbarazzo di stomaco. A meno che non si mettesse a covare qualche febbre.
L’ho visitata bene. Da capo a piedi. Nessun segno di ascessi in formazione. Nessun gonfio. Forse è troppo presto, vedremo domani. Quando mi sarò calmato. E se, passata la notte, qualcosa si manifesterà. A meno che io non la veda alzarsi prima di me, fresca e viva, come l’altro ieri. Non so se dormirò molto.
Mi sono svegliato all’alba. Non era nemmeno un’ora che dormivo. Le ho toccato il braccio. Bruciava. Era madida di sudore. Quello che mi ha svegliato sono i fremiti che la facevano gemere. E anche il calore nel letto. Gemeva piano. Mi prese il polso: «Non so cos’ho… sto male…».
La preoccupazione maggiore mi assalì. Senza chiamarla col suo nome. Ecco quello che avvenne all’inizio. Mi ci volle un po’ di tempo per ritrovare la calma e ragionare sulle cause. Mentre le mettevo sulla sua fronte delle pezze72 imbevute di acqua fredda. «Riflettiamo» mi dissi, nessuno ancora, in città, negli ultimi due anni è stato contagiato dal Male nero». Da dove potrebbe provenire? pensai. Mentre alla luce di tre candele, cercavo ancora, in ogni punto, sul suo bel corpo, quello che avrebbe potuto rassicurarmi, sentivo il suo respiro veloce, dal ritmo serrato e oppresso.
La coprii nuovamente col lenzuolo. E non so dove trovai il coraggio di un sorriso, per dirle che non aveva nulla. A lei che tante volte mi aveva sentito parlare di tutto quello che col nostro gergo erudito di medici professori chiamiamo segni equivoci e segni inequivoci. I primi, come il malessere, il male ai reni, o alla testa, la febbre e i brividi, tutti osservabili in qualsiasi tipo di malattia con febbre. Gli altri come le punture alle caviglie e i bubboni nelle pieghe inguinali. Ero a pezzi. Lo sono ancora adesso, in questa mezzanotte in cui trovo finalmente un’oretta per riprendere fiato, mentre lei dorme, calma grazie al laudano73 che le ho dato per consentile infine un po’ di riposo.
Ora mi assale un grande pensiero: com’è possibile? Nessuno ha parlato di qualche caso, da ben due anni. Mi dissi, tuttavia, che non si è mai sicuri di niente. Si sa che ognuno tende a coprire il proprio fuoco con la cenere. E che le genti hanno interesse a scongiurare la quarantena e tutte le noie che comporta, il non sapere che ce n’è uno. So bene che le voci non hanno mai smesso di dire… Ma le voci… Sono la coda del serpente. Il veleno è passato mentre la coda agita ancora la sua piccola raganella74. Vagavo, vago ancora, da una verità all’altra. Nessuna è vera. Ho il batticuore.
E poi Enòr non va in città così spesso. L’ultima volta è stato venerdì scorso. Non è passata una settimana. Oggi è mercoledì. È stato quando l’ho portata alle barche, al Pont Juvenal. Scaricavano lana e frutti dall’Oriente. A mente fredda, davanti al foglio del libro, ecco che mi viene un tormento. Non so il perché. O, piuttosto mi rifiuto alla sua idea. Non voglio ammetterlo75. Anche se avrei il dovere di farlo.
Aprire gli occhi. Etener testa ad ogni costo76 a qualsiasi verità, quanto crudele e mortale possa essere. Ascolta, vecchio imbecille, ascolta la morte entrarti nell’animo. Ricordati della voce dei maestri che venti volte te l’hanno ripetuto: è dal mare, sempre, che sembra venire il Male. Ricordati: Marsiglia, la prima a parlarne. E da dove poi si è diffuso a tutta la Provenza, prima di arrivare77 da noi. E Narbona ancora… Perché mi viene in mente la passeggiata al molo delle barche? Maledetto ricordo… che risveglia delle campane di dolore e di disperazione.
E la vedo, seduta ad attendermi su dei sacchi di lana ammucchiati alla rinfusa78 lungo la riva. Mentre provo a parlare con dei marinai, o mentre, con gli occhi rivolti al suolo, cerco erbe straniere i cui i semi provenienti dal di là del mare erano caduti dai fagotti. C’era un bel sole, quel giorno, tutti erano in festa, alla luce, sulle acque e nel mio spirito. Felice, che ero, felice con lei.
Il consulto
Rondelet è venuto l’altro ieri. L’ho visto sulla sua mula nel viale al mattino. Lo avevo fatto avvisare tramite il figlio maggiore dell’ortolano. Gli andai incontro. Preoccupato e anche un po’ rude, come a volte sapeva essere, mi tendeva la mano perché lo aiutassi, corpulento, a scendere. «Come sta?» disse subito. Lesse certamente la risposta sul mio broncio,79 nell’assenza di ogni parola. «Andiamo a vederla». Con grandi falcate mi trascinò nella camera in cui Lianòr dormiva ancora. Ma il suo respiro pesante si sentiva già dalla soglia. Il vecchio scostò il lenzuolo. La guardò lungamente, avvoltolata nella sua camicia madida di sudore. Rimase a guardarla per molto tempo. Tutto svaniva della nostra povera scienza impotente di fronte al Grande Male. Potevo seguire come se lo vedessi il turbinio80 nella sua testa dei segni e la conta dei giorni in cui questi appaiono, si diffondono, e marcano le tappe di un esito mortale o della guarigione. Era certamente sua nipote. Ma lo conoscevo abbastanza bene da sapere che in quel momento, ed era per lui il miglior modo di amarla, non era altro se non un caso come gli altri. E vedevo sul suo volto chino che, dopo un cammino identico al mio, la sua conclusione raggiungeva la stessa mia. Ahimè. Con la sola speranza di una fine tanto felice quanto miracolosa. Non lo disse. Non era necessario. Lo sapeva. Palpò, tranquillamente, senza nulla temere, la piega dell’inguine81. Sentì, sotto la pelle ancora morbida, il nodulo duro che aveva cercato e trovato. E la mia dolce Lianòr sussultò talmente quel punto era diventato doloroso. Il vecchio medico tolse la mano e riabbassò la camicia. Fece un respiro lungo e profondo prima di girarsi. Mi tirò da parte in cucina. E, sottovoce, dolcemente, mi parlò:
- Ne sai tanto quanto me. Sia sul Male sia sui suoi rimedi. O, meglio sull’assenza di un unico e vero rimedio. La speranza che resta è nelle mani della natura. O di Dio, se vuoi. È lo stesso. La mia povera Lianòr è giovane. Forse ha abbastanza forze per dominare il Male e risorgerne. Quanto a te, tu devi resistere, quanto puoi. Curarla come deve essere fatto, anche se ne conosci la vanità. Bisogna anche che tu faccia tutto quello che è prescritto per ripararti dal Male. Se è possibile. Lianòr ha bisogno di te. Anche se devi perderla.
- E il bambino?
- Se è di cinque mesi, come dici tu, nessuna speranza, se la mamma muore. Dovrai avere molto coraggio. So che ne hai. Fai il tuo mestiere. Perditi nella pratica di una sola malata. Che ti è tanto cara. E dimentica, se puoi, tutto il resto. Si bagnò83 le mani con l’aceto. Mi abbracciò. Per la prima volta nella mia vita. Lungamente. E ebbi la misura da questo segnale di quanta poca speranza restava alla mia povera Lianòr. Lo seguii lungo il viale, e lo aiutai a montare sulla sua mula, perché con l’età si era fatto pesante84. Mi disse arrivederci85, e mentre si voltò vidi brillare nei suoi occhi una lacrima86. Seguii a lungo con lo sguardo il passo incerto della mula, sotto il peso del vecchio cavaliere. L’estate risuonava di canti d’uccello e di splendori, e un soffio di felicità agitava dolcemente le foglie dei gelsi. Restai un lungo momento stordito. Come inebetito87 e fuori dal tempo.
Il barbet venne a consolarmi con la sua tenerezza.
Il bubbone
Niente, tuttavia, sembra aver annunciato il passaggio del Male. Non abbiamo riconosciuto quanto descritto da lungo tempo, come le cause terrestri, tali le male acque88, prima di tutto, ovvero la putrefazione dell’acqua delle lagune. Né quella dei morti sul campo di battaglia. Perché, per grazia di Dio non abbiamo avuto battaglie, da un bel po’ di tempo nei nostri paraggi. Né i segni celesti, l’aria che mette gli umori in ebollizione, così come gli spiriti del sangue. Niente. Niente di tutto questo.
E niente neppure da parte degli astri. Ho riletto bene il mio vecchio grimorio. E poi, come ogni buon medico deve essere anche astrologo, ho proceduto con i miei grandi calcoli. E non vi era nulla a darmi una risposta alla lettera del testo che dice: «Ma, per le cause celesti, i medici (se sono bravi astrologi), potranno osservarle, come le eclissi del Sole e della Luna, gli incontri dei pianeti, soprattutto di Marte e di Saturno, o anche, la congiunzione con segni umani quando dominano nelle case della vita, e, tutto questo nelle combinazioni, aspetto e rivoluzione dei mesi e degli anni, perché è da là che vengono degli influssi malefici…».
Nulla. Nulla che rispondesse alla mia sete. Come se questo potesse cambiare qualcosa. E tuttavia il mio spirito inquieto non smette di saltare da ogni parte alla ricerca di qualche risposta.
Così come il il calabrone si stordisce sul vetro chiaro della finestra. Si potrebbe dire che in qualche modo la febbre della malattia mi ha preso sotto un’altra forma, che invece di agitare il corpo mi scombussola l’anima. Per simpatia. Bella parola per dissimulare il vuoto del nostro sapere. Resta la sete. E non trova da nessuna parte la fonte che potrebbe estinguerla89.
Da due giorni non sono sceso. Tra la veglia che faccio vicino a Enòr e la professione che mi allontana da qui, il meno possibile, pazienti da vedere, impegni90 a Scuola, mercato, perché bisogna pur mangiare, non ne avevo né il tempo né la voglia. La scrittura necessita di pace. E di pace non ne ho granché. Né nel corso delle mie giornate e nemmeno nello spirito.
L’angoscia mi prende lo stomaco. Volpe91 accanita. È una maledizione essere un medico quando si tratta di voi o dei vostri cari. Sono felici i ciechi o i sordi che si risparmiano i sudori della paura. Mentre il medico ha sempre sotto la cortina delle palpebre92 scritto come su di una pergamena la lista dei segni, le loro conseguenze, scaglionate per giorni. E sapevo… E sapevo… E attendevo, con la speranza di non vederlo mai: il bubbone. Oh! Non lo rendevo palese, perché la povera Enòr ne aveva sentito parlare. Ma sia la toilette del corpo che il cambiarle la camicia, che si bagnava in fretta, mi erano d’occasione per, con un rapido colpo d’occhio, esaminare la piega dell’inguine. Sapevo bene che entro due giorni, più o meno, sarebbe apparso quello che la gente chiama, nella loro semplicità, il bubbone. O non vederlo. Perché era la speranza feroce, rannicchiata93 nel fondo dell’anima. E che attende, con tutte le sue forze, premendo con tutto il suo peso sul corso del destino, come se potesse deviarlo.
Maledizione! Quello che speravo di non vedere, ho dovuto scorgerlo durante la sua schiusa. E nascosi tra le pieghe del mio vestito le mie mani che si torcevano.
Ora ero sicuro contro tutta la carne del mio corpo e le tempeste del mio spirito: era il Grande Male che me la strappava, che me la rubava. E lo vedevo il Male come persona umana, piegato sulla carne della mia carne, coprendola col suo mantello nero, prima di avvilupparla, e portarla, nelle sue braccia di ferro, nel cuore della sua notte. Mi sentivo farneticare. Mi rifiutavo. Andai a sciacquarmi il viso con dell’acqua fresca. Dovetti fare uno sforzo per riprendermi. Mi appellai ai doveri che avevo verso di lei. E anche agli altri malati della città. Ragionai. Dovevo, al più presto, vedere, il chirurgo della Peste. Mi avrebbe vietato di uscire dalla fattoria. Il capitano di sanità, il commissario anche, mi avrebbero lasciato tutto l’agio di curare la mia amata.
Conobbi uno strano senso di pace. Come se l’angoscia della terribile verità che temevo fosse sparita, ora che la febbricitante attesa non aveva più ragion d’essere. Stanchezza, anche, senza dubbio. Di una tensione che non potevo sopportare all’infinito.
Ero ora arrivato, stranamente, alle calme acque della speranza. Sì, dico bene, della speranza. Flebile, senza dubbio, poiché, se alcuni guariscono, non sono numerosi. Ne ho conosciuti, qui: un cappuccino, senza dubbio per miracolo. Un fornaio che, una volta sicuro del male che aveva, si chiuse94 nel suo forno, sufficientemente raffreddato -- a mala pena poteva resisterci-- e che, più dorato di una pagnotta, ne uscì guarito. Uno, forse, su dieci. Cosa importa!95 Abbastanza per darmi, come una violetta in un campo96 di neve, quel germoglio di vita che è la speranza. Sempre benvenuta, a cui l’uomo si aggrappa, a mani serrate, e che gli dona, contro il Male e la morte, un raggio di luce nel cuore, e lo placa.
San Rocco di Montpellier
E penso, anche, al gran Santo della Città, Sant Ròc97, il grande miracolato. che a forza di curare gli appestati, contrasse il Male e ne guarì. E che non cessa, in saecula saeculorum di rimboccarsi il mantello per mostrare, nella piega dell’inguine, la piaga ancora aperta del suo bubbone. Perché, passato il Male, resta in forma di un ascesso, e per settimane e mesi mai finisce di colare. E forse la lingua del cane-- leccandosi le loro piaghe i cani sanno ben guarirsi -- c’entrò in qualche modo nel suo miracolo.
La malaboça
Il vicino, Genièr, l’ortolano, è andato a chiamare, siccome lo avevo pregato, il capitano di sanità. Lo conosco abbastanza bene da sapere che non è il coraggio ad impedirgli di correre. Dalla parte opposta a ogni forma di pericolo. Ero sicuro che non sarebbe venuto. Non mi sbagliavo. Mi ha mandato il chirurgo della Peste, Guilhèm Petiòt, che conosco da molto tempo. E tutti sanno che, se è chirurgo della Peste, grande onore per i tempi che viviamo, è senza dubbio perché non ha potuto fare di meglio. Oppure non ha voluto lasciare la città, dove, e sono del suo avviso, si vive bene. E duro è morire. Tanto vi è dolce la vita, e belle le giornate.
Non si è affannato98, il chirurgo. C’è mica il fuoco. Il vicino mi ha detto che aveva saputo, tramite degli amici che come lui vendono ortaggi, che la Peste era tornata. Si dice che sono in tre o quattro ad averla. E due ne sono morti. «Sono solo delle voci» ha detto il vicino. «Niente di sicuro». Certo, certo. So quanto contano.
È arrivato lungo il viale di gelsi. Ha fermato la sua mula ad almeno venti passi dalla casa. In controluce, non vedevo il suo viso. Sapevo bene cosa stava per dichiararmi. In quanto medico, poteva rimettersi a me per tutto quello che era previsto dagli ordini del capitano di sanità: quarantena, e tutto quello che ne consegue. «So bene che non ti dirò nulla di nuovo. Ma posso affermare che, nel mio mestiere, così esposto, quello che mi ha salvato fino ad ora è che, ogni mattina, mangio dell’acetosa…»99. Mi salutò con un cenno della mano, girò la sua mula. Se ne andò nello splendore del sole. Aveva fatto, ancora una volta, il suo dovere, tutto il suo dovere. Un’aureola di luce lo circondava.
Addio, Guilhèm Petiòt.
Ora, sono solo. Proprio solo. Per prendermi cura di Alienòr. Lavarla. Stavo per dire nutrirla, anche se il vomito le impedisce di mangiare. Ho provato di tutto: a malapena, prende, di tanto in tanto, una cucchiaiata di minestra all’aglio100.
Faccio, come un automa101, quanto prescritto.
Spando due volte al giorno dell’aceto su una padella bollente. Brucio incensi e dei grani di ginepro. L’ho salassata due volte. Le ho fatto prendere, insieme a dell’acqua, bollita, della teriaca.
Ma ne ha trattenuta? Le ho fatto dei cataplasmi bollenti con la farina di lino, per far maturare il bubbone, ora nero, praticamente, e che sporge e si tende, e crea, attorno a sé, tutta una veste gonfia, rossa, che le fa male al minimo contatto. Sorveglio adesso, di ora in ora, il momento in cui si creperà per spurgare il veleno. La febbre potrebbe scendere e il respiro accelerato placarsi, e tornare il sonno tranquillo, al posto di una sonnolenza agitata dalle allucinazioni102 e dai deliri. Vaneggia103 nel sonno e sono attento a quello che dice come se potessi raccoglierne un minimo senso o una minima ragione. Come se avessi bisogno di qualche cosa per risparmiarmi la sensazione del tempo che scorre e se ne va. Come il sangue della vita.
Nove giorni sono che è iniziato il Male. E, ora, tra due o tre giorni il bubbone, se lo deve fare, e sarebbe una salvezza, dovrebbe creparsi. Ne controllo i segni, d’ora in ora. Senza che nulla possa darmi la minima speranza. Questa protuberanza104 che si erge è più rossa di una ciliegia e risplende, da quanto è tesa, prima di mostrare al centro un punto che diventa sempre più bianco, prima di rompersi, e rilasciare il pus, e insieme il male.
Ho ancora due giorni, forse, e poco di più, da attendere. Mentre la povera giace tra la debolezza e l’agitazione105, in una specie di sonno che somiglia alla morte e le grida che provengono dal delirio, in cui getta via il lenzuolo, si rotola dappertutto, e devo tenerla, tranquillizzarla a parole, quando non è col laudano. E la sete la divora e la disidrata e bisogna farla bere ogni momento.
Dorme, ora, che ha preso il giulebbe che le porta qualche ora di pace. Mi rifugio nel mio rifugio segreto106 dove il libro amico mi aspetta pazientemente e raccoglie alla rinfusa gli episodi della mia miseria. Il gatto, felice, sembra, di ritrovare il suo vecchio amico, ed è venuto ad accovacciarsi sulla tavola, vicino alla pergamena. Attraverso uno spiraglio tra le palpebre semichiuse, segue, col suo occhio solo l’andatura della penna che scricchiola sulla riga, e aspetto il momento, ma non è più un gattino, in cui andrà a stirare le sue zampe setose e a macchiarmi la pagina. Ogni due righe, lo accarezzo107, come gli piace, con un’unghia che dalla fronte gli raggiunge alla spalla, e il suo collo si allunga, e si mette a far le fusa dolcemente dal piacere. Poi, quando mi fermo, rincassa la testa nelle spalle, chiude gli occhi e affonda nel suo dolce russare soddisfatto. Per lui, l’ordine è tornato in casa. Ogni cosa al suo posto. Con un sole che non manca di levarsi, tutte le mattine, da dove soffia il grecale, e di tramontare, la sera, a Ponente. Dove la vita è tranquilla, dove niente disturba il susseguirsi delle ore, e l’arrivo dei pasti. Né le delizie della siesta108. Né le acque del sonno. In cui si raggiungono, finalmente, le tenebre delle nostre notti. Uomini e bestie. Nella nostra notte, la sola, la grande notte. Di ogni oblio.
Il laudano ha fatto meraviglie. Lianòr ha avuto ben tre ore di pace, di sonno, di oblio. Certo, è ancora febbricitante, ma non è più agitata come prima, quando nel vederla, pensavo di diventare pazzo109. Ha aperto gli occhi.
Lo sciame di allucinazioni l’aveva abbandonata, mi ha guardato per un momento, assente, poi un bel sorriso rischiarò il suo viso che avevo appena asciugato, tanto era imperlato di sudore. Le presi la mano. Lei strinse dolcemente la mia. Mi guardò così, per un istante, come faceva prima, seria, e insieme tenera. E poi passò come una nebbia, mentre un brivido la scuoteva. Si lasciò scappare dalle labbra queste parole che mi crocifissero: «Così poco tempo, e già, tocca lasciarsi…».
La mia protesta mi sembrò una presa in giro. E mi feriva, così, il riflesso della menzogna che potevo leggervi, io per primo. Mentre m’inondava110, fino alle lacrime, questa lamentela gravosa e dolorosa che era la parola d’amore più bella che una donna possa dire e che un uomo possa ricevere… Avevo la gola serrata dall’emozione e dalla disperazione. Ad ogni modo, si affermava in me l’idea che Lianòr sapeva. Che aveva compreso, o quantomeno sentito, in modo confuso, attraverso il genio111 della carne, che era arrivata la fine. Così questo miglioramento, questa schiarita, non era altro, come avevo osservato molte volte, che la parte migliore della fine. Un ultimo sguardo permesso al malato per voltarsi sulle luminose pianure della vita, sui raggi dorati di un crepuscolo d’estate, prima di entrare nelle tenebre senza fine. Dolcezza, o tormento, chi può saperlo? Quando lo sentono come una rinascita alla vita.
Non ci mise molto a raggiungere la sua bruma. Come pacificata. L’ho lasciata, appena illuminata, su di un lato, dalla lampada in cui ho messo l’olio per la notte. Il suo respiro affannato si era quasi calmato. L’ho guardata a lungo prima di venire a rinchiudermi qui, come se gli occhi, il silenzio profondo, la candela, il sonno del cane e le fusa leggere del gatto mi creassero un rifugio al riparo dai dolori, dai dispiaceri, e dalle tempeste del mondo. E il libro un mezzo, di nuovo, per riordinare i miei pensieri, e, attraverso il lento corso della penna rallentare il torrente112 folle delle immagini e delle eco di ogni sorta che mi stordiscono lo spirito. È per questo che ritorno. E che mi faccio scrittore. Senza volerlo. Uno scrittore per nessuno. Perché nessuno leggerà mai queste mie farneticazioni. Chi può preoccuparsi della vita di un povero vecchio medico che a lottare contro il Male nero ha perso tutto. Anche la testa, diranno, senza dubbio. Sarebbe meglio scrivere «dirà», anche se se ne trova ancora uno solo, ma, in una casa segnata dalla pestilenza, chi è che oserà venire a frugare, tra la polvere che lascerò ammucchiarsi? Quando la prima cosa che facciamo per proteggerci dal Male è quella di bruciare tutto, mobili e panni, letti e tavoli. Questo, finalmente, nella scrittura, mi assicura una piena libertà.
Sono quattro giorni e quattro notti che non ho potuto lasciarla. La febbre l’ha ripresa e l’agitazione la faceva dimenare da una parte all’altra del letto, così tanto che ho dovuto legarla con delle strisce strappate da vecchie lenzuola. Annegata nel sudore era persa in un turbinio di deliri. Vaneggiava, farneticava, chiamando per nome persone che non ho mai conosciuto e di cui non mi ha mai parlato. Cantava, a volte, non so quale strana cantilena113. Che pena questo declino. Questa uscita da sé per essere un’altra, presa dalla follia114. Così diversa dal suo essere abituale. Pensai a quei posseduti per i quali le persone vanno a chiamare un prete per esorcizzarli. E che più di uno, recalcitrante115 davanti all’acqua benedetta, finisce al rogo. Mia povera Lianòr… che mi passa i suoi incubi spaventosi. Di lei il Male mi aveva rubato anche l’immagine.
Ed eccomi. Solo. Solo nella casa. È quindici giorni che sono così. Anima senza vita, anima perduta, vago per la casa, fantasma senza spirito né ragione. Senza nemmeno il coraggio di tornare a sedermi davanti alla pergamena per scrivervi, come sotto dettatura, quello che ero e che non sono più, il racconto della mia disperazione116. Ci sono appena arrivato. E le parole mi sfuggono, mi scivolano tra le dita, imbrogliano la mia lingua, mi intorpidiscono le dita e rendono incerta il corso della mia penna. Ho dovuto cambiare l’inchiostro nel calamaio. Che dalla polvere dei giorni era divenuto calce.
Solo davanti alla parete nuda che mi separa dal mondo. Qualcosa è andato in frantumi, qualcosa che era di me la parte più bella. La migliore. E dietro vi era, nascosta, questa parete che mi rinchiude. Potrei chiamarla quarantena se fossi abbastanza folle da credere che, passati i quaranta giorni, le cose ritornassero come prima. Che potrei tornare a fiorire, come quei fiori che, la notte, si chiudono su se stessi, e che al mattino, svegli, si aprono come delle mani per raccogliere i doni e le meraviglie del giorno nascente.
Solo e disperato. Spogliato del bene maggiore che mi manteneva, che mi portava. Mi dava fiducia nella vita.
Mi era arrivata da un cammino angelico. Vestita di nero su qualche raggio del cielo. Un mistero le aveva posato il dito sulle labbra. E c’era nel suo silenzio qualcosa di selvaggio come la notte. Dovevo oltrepassarne le porte. Addomesticarla117. Allora si sgelava e quello che era nascosto appariva all’improvviso, mandorlo dalle braccia scure, coperte di neve dalla fioritura, nei primi giorni del nuovo anno. So ora che la sua presenza valeva per me tutto l’oro del mondo. Era il riparo della mia pace. La mia sola pace. La certezza della mia vita. E la sua ragion d’essere, invisibile finché c’era. E che vedo, che sciocco che ero, solo ora che se n’è andata.
Mi resta lo sguardo di un gatto orbo e gli occhi bagnati di tenerezza di un barbet rognoso.
Poco a poco delle immagini, dei sentimenti, dei ricordi mi vennero alla mente. E il primo sguardo su di lei, in Camargue, dove andai a cercarla.
Quello sguardo che m’ha incrociato, si è posato su di me, mi ha separato dal mondo. E che era, sembrava tanto severo, lento, attendo, come venuto da un altro mondo, completamente diverso, nascosto dietro a due occhi che mi consideravano a lungo. E tutto un mondo dietro. Voglio dire un universo grande quanto la notte; e senza limiti, come lei. Con i suoi pianeti, le sue migliaia di soli, la sua luna e le sue stelle. E la vita, là dentro, che conduce il suo gioco infernale, oscuro, tenebroso, la sua farandola con la morte, e il suo fracasso. E mi guardava. E sapeva già, oscuramente, che nessun altro desiderio avrebbe potuto strapparmi da questa luce venuta dall’aldilà della vita. Che mi tocca ancora, attraverso la notte, anche se la sorgente è andata per sempre perduta. Lenta, continua, grave, e piena di così tanti misteri quanto di domande. Sostenuta e come carica di un grido muto.
58 Non conosce le nazioni. Né la pelle
La Peste è presente ovunque a questo mondo. Senza maschera, senza volto, e senza corpo. Ognuno può pensare che nell’istante in cui ci pensa, lei, da lontano, come forse da vicino, ha lo sguardo posato su di lui. E ne sente presto il peso, schiacciante, e ben presto il bruciore. Non conosce le nazioni. Né la pelle. Per lei, la pelle bianca vale tanto quanto la nera o la gialla. E le frontiere118 dei paesi è come se non esistessero. Le oltrepassa come un bambino fa con un ruscello.
La sua forza è quel pensare a le che, da prima, può far nascere nello spirito di ognuno. E, molto tempo prima di averli raggiunti con l’invisibile bacio mortale, gelarli per lo spavento fino al midollo.
Prima, circa due secoli fa, si moriva, tanto e anche più di oggi. E, quando ne parlavano, si dicevano: «Questo è morto». Si diceva anche «I morti». I morti come diversi dai vivi, come corpi gelidi e rigidi, senza respiro, senza calore, né sangue che scorre nelle vene.
Ma non si diceva «LA MORTE». La morte come persona, se non viva, almeno attiva e pericolosa, e terribile. È che, poi, si affermò il Grande Male. Da tanto si è diffusa la grande Paura, che non osiamo pronunciarne il nome. La Peste è così forte che è lei, sola, che ha saputo e potuto dare una specie di vita, una specie di ombra, una maschera e un viso a quello che non era prima altro se non lo stato di un uomo quando ha perso il respiro. Così il Grande Male è ingannevole fin dalle apparenze. Ha cambiato tutto, rivoluzionato tutto, spazzato via tutto quello che era l’ordine abituale del mondo. Ha suscitato e battezzato la Morte, per precederla, nel lungo corteo nero che ha come stendardo gli stormi dei corvi. E, di conseguenza, il silenzio dei cimiteri, siccome non aveva né volto né corpo, il Grande Male si è regalato quelli della morte. Si assicurò così il suo impero. Può andare a spasso dall’altra parte del mondo, e sapere che è presente anche qui, abbastanza da rosicarci dall’interno, a poco a poco, facendo sorgere nella nostra anima la serpe verdastra della paura. E ci prepara così a chinare la testa, e ad aprire le mani quando tornerà per il grande, ma invisibile119 bacio.
72 La Peste potrebbe purgare la terra dall'umanità
Nelle conversazioni, la Peste porta al delirio. Nel pensiero solitario, allo sragionare del delirio. E anche nell'uomo ancora salvo da ogni male si crea una specie di sogno vano che lo porta senza tregua lontano da ogni ragione. Impone una presenza ossessiva120 di maledizione121. E la estende all'universo intero. Mi sono sorpreso nel fondo della notte solitaria in cui, anche se il sonno arrivava a momenti, ad abbandonarmi. Voglio dirlo, qui, per purgarmi lo spirito e il sangue da questo veleno che invade tutto, e che finirà per rodermi le ossa e la carne. Una volta scritto, forse, questo miasma se ne andrà, e di nuovo potrò posare sulla terra le mie suole pesanti da contadino quale sono diventato.
Ciò deve cominciare da un’affermazione semplice e chiara, frutto velenoso di tante preoccupazioni e di paure oscure, covate nel filo delle notti, soprattutto, e dei giorni: la Peste potrebbe purgare la terra dall'umanità. La cosa nella sua pienezza. Nella sua fine. Al vertice del suo assoluto. Nemmeno più un essere della specie maledetta. Un mondo reso a quelle che noi chiamiamo bestie. Tutte. All'improvviso122 libere da questo padrone terribile, più selvaggio delle bestie selvatiche, più feroce di un lupo, più crudele di una pantera, più pericoloso di un serpente. Salve. E che non hanno più nulla da temere se non le altre specie, quelle che non fanno schiavi, e che, se anche sanno uccidere, non lo fanno che per fame. Forse non è il Paradiso terrestre ritrovato. Ma nessuno ci ha mai detto che tutte le bestie, intorno ad Adamo ed Eva, si contentavano di pascere erba. Tanto più che l'erba, caduta, anch’ essa, dalle mani di Dio, doveva avere in sé qualcosa di sacro e non servire solo miseramente da fieno.
Sì, certamente: il Paradiso ritrovato. Ma con una sola differenza. Adamo ed Eva, al di fuori del gioco delle tentazioni, e del sibilo del serpente originale, erano tuttavia là per sorvegliare quello che accadeva attorno a loro e per prenderne coscienza. Anche se questo poteva loro apparire tanto naturale che gli poteva ben sfuggire. Ma, ora, in questo sedicesimo secolo, in questo anno del Signore 1564, chi è che potrebbe accorgersene? Quale cosa, foss’anche un Paradiso, di cui nessuna coscienza umana possa ricordarne o giudicarne l'immagine?
Allora è di un teatro impossibile che devo parlare: questo giorno che ogni mattino stenderà sulla faccia della terra disertata dall'uomo. L'uomo, all'improvviso, in qualche mese, evaporato, sparito, dimenticato. Lasciando come segno del suo passaggio solo le città diventate silenziose, le case come tante vedove, dritte nella loro dignità conservata nel dolore, le loro vie dove solo il vento soffierebbe davanti a sé gli ultimi rifiuti123, e i cani persi, orfani della grande follia in cui così tanto bene avevano saputo trovare posto. Le sue città, flauti giganti per la tramontana124, e i colpi di cembalo delle imposte ormai sgangherate125. I suoi villaggi invasi dalle bestie selvatiche, che, in un primo tempo, avrebbero avuto diffidenza verso questo strano silenzio sceso su un mondo di uomini divenuto più fetido di prima. Perché, se di un uomo mal tenuto, ci piace dire che puzza di selvatico, ci si sbaglierebbe a credere che la selvaggina se ne vergogni. Perché il cattivo odore, ciascuno lo sa, è sempre quello dell'altro. E sono certo che non c'è in qualche foresta o gariga, un odore più spiacevole alla selvaggina di quello dell'uomo. Ma dopo qualche giorno, qualche settimana, ne dovevano convenire: degli uomini non se ne sentiva più nulla, nemmeno controvento, non si vede più nulla, non se ne ode più nulla. Il loro odore, divenuto atroce, era passato a quello della carne putrida. Che, alla fine, è appetitosa per le bocche buone e anche per le specie con il becco, quelle col vestito nero: le cornacchie e i corvi. Che, all'inizio si misero a tavola, ingozzandosi126 con tutta la carne sparsa ovunque. E che li tentava127. Tra tutti, avrebbero presto ripulito ogni cosa, e avrebbero lasciato ai cani randagi e affamati, perseguitati da una fame, che noi diciamo «da lupo», delle ossa spolpate, bianche come il guscio di un uovo.
Si sarebbe potuto dire allora che l'uomo era stato cancellato.
Le bestie selvatiche, quando ebbero finito con quello che restava della tirannia degli uomini, si gettarono su quella parte di regno animale, che per desiderio di avere del cibo assicurato, si era separato dal popolo selvaggio, e per questo non meritava nessuna pietà. Questa fu la grande festa per le galline, per i conigli, quelli che non erano ancora crepati di fame nelle loro gabbie, per le anatre, che, giocando senza sosta nel loro stagno, non si erano accorte di niente. Delle pecore e gli agnelli, se ne incaricarono i lupi. Fu una festa memorabile di cui si parla ancora nel fondo delle foreste.
E poi la pace tornò. Una sorta di equilibrio si distese. Come dopo tutte le rivoluzioni. Le bestie presto dimenticarono l'uomo. Il suo odore, i suoi rumori, la sua vista e il suo incedere. Si sentirono a loro agio.
Si lasciarono guardare, da lontano prima, da vicino poi, i monumenti giganteschi lasciati da questa civiltà sommersa. Le grandi muraglie a poco a poco non ebbero più tetto. L'erba ci crebbe folta. Alberi si levarono nelle stanze, che si radicavano nelle fondamenta. Brughi e rovi ricoprivano i solchi delle ruote128 degli stradelli. La fine del mondo non è che la fine di un mondo.
73 La disinfezione delle case
Corro ovunque. Tanti medici sono partiti, impauriti, e i due o tre che qui restiamo, siamo totalmente sopraffatti. Devo andare ai quattro angoli della città. Questa mattina ho attraversato il Lez su una barca per andare alla chiesa di Pont-Trencat che a ogni epidemia, col fatto che è situata fuori città, diventa il rifugio degli appestati. Lo sguardo di coloro che, per terra, ammassati come sardine, ti mandano, ti spezza il cuore. Quando si sa che vedono ogni giorno sette o otto morti pronti ad essere coperti dalla calce, in un campo vicino, perché il cimitero è pieno... e di là, devo correre all'ospedale del Milanés. E poi, al convento dei Cappuccini, altro ospizio in caso di epidemia, per i miei malati. Al quale è stato dato un soprannome che si dice piano: «La Fattoria dei Bubboni»: gli ascessi129, i bubboni130. Da lì all'ospedale Sant Alaric131. Per non parlare delle case dove mi chiamano. E là, sempre, con questo sentimento di impotenza. E col gioco ridicolo delle apparenze. Finzione di sapere, quando in realtà non sappiamo niente di questo male. Voglio dire delle sue cause. E dunque… Finzione di avere mezzi di lotta contro questo male, d'aiuto alla natura per sopravvivere. Illusioni nella parola, solo questo possiamo fare di buono, che altro non è se non il vento vano della menzogna. Pietosa, certamente, ma cosa importa? Eppure c'è nell'uomo questa volontà di vivere che gli fa chiudere gli occhi davanti all'evidenza, che fa in modo che si attacchi ad ogni ramo che gli si presenta, che si fa cullare dalla dolcezza della speranza, acquavite ingannatrice, ma che dona loro un istante di sole.
E l'acredine di questo sentimento. Tornati fuori, sulle vostre gambe, a respirare l'aria del giorno.
Sono diventato mercante di ricette. Non smetto di segnarne. Valgono soprattutto per disinfettare le case in cui ci sono stati malati o morti132. Facciamo lavare i muri e i mobili con dell'acqua calda, dell'acqua di mare, o dell'acquavite, dell'aceto, dell'acqua di calce- che io sappia. Vi mescoliamo corna di cervo tritate, radici di angelica o di valeriana, bacche d'alloro o di ginepro, dello zolfo. «Fiat omnium pulvis pro sulfitu».
Ce ne sono alcune che mi creano sempre un po' di vergogna, la polvere comune per i poveri: due libbre di bacche di ginepro e una di incenso mescolate; e quelle dei ricchi con della nafta e dell'acqua di rose, dell’aceto rosato, dei chiodi di garofano, dello storace133, del benzoino134, e anche la feccia dell’acqua d’angelo che si può bruciare.
Ci manca un rimedio efficace. Ad oggi, ne abbiamo a bizzeffe135 che non fanno nulla. Tutte le erbe di San Giovanni. Tutto l'arsenale dell'alchimia, l'antimonio, il catrame, il salnitro136, il mercurio, il giaietto137, l’orpimento, l'arsenico. E anche la polvere da cannone da far bruciare nelle case.
Io ingoio tutte le mattine, grossa come una fava, la teriaca138.
Mi hanno insegnato che esistono molte cause che possono giocare nel generare l'epidemia. E che non sono tutte di origine terrestre. Ma che ce ne sono anche in cielo. E molti medici che sono anche buoni astrologi possono verificarlo tanto bene quanto le eclissi di luna e di sole. Penso alla «congiunzione dei Pianeti», soprattutto quella di Marte con Saturno. O ancora, «all'incontro dei segni zodiacali, quando dominano nelle case della vita, in alcune circostanze, come quelle dei mesi e degli anni, perché è da là che vengono le influenze perniciose».
82 «saupre de qué me’n vau»
[…]
Quello che mi disturba lo spirito è l’idea in cui devo convenire che il Male che mi ha preso e che mi trascino139 non assomiglia per niente a uno di quelli che conosco grazie ai libri o che ho potuto osservare.
E soprattutto, in questo frangente in cui viviamo, quello che mi stupisce di più, è di non trovare alcun segno di quelli che i libri affermano come «univoci». Quelli della Peste bubbonica. Che cerco senza sosta dal giorno in cui ho inghiottito una giara d’acqua, quella che usavo per annaffiare i fiori. E che, non un giorno, un’ora, un minuto, e in nessun modo ho potuto distinguere nella più piccola piega del mio corpo: nessun “carbone”140, nessun bozzo. Tutti i segni che restano sono «equivoci», febbre, polso accelerato, vomito, mal di testa, stato ansioso, debolezza, allucinazioni, alito pesante141, porpora142, tutto questo ce l'ho. Ma non mi dice niente di niente. Tanti stati febbrili hanno questi sintomi e nessuno di questi ha a che vedere con la Peste.
E poi cosa importa a colui che si sente morire. Tanto vale Martino come il suo cane143. Peste o no, il morto non ha scelta144. Conoscerne la causa non cambierà il suo destino. Ma io sono medico. Questa consolazione devo averla: sapere di cosa sto morendo.
1 http://www.max-rouquette.org/biographie/chronologie. Quanto all’ultimo saluto del bambino al cadavere della madre: «j’appuyais comme à regret mes lèvres sur son front. Couvert d’une rosée glacée. Mes lèvres connurent cette moiteur froide. Tandis qu’une sorte de refus me tendait contre ce contact si atrocement étranger à elle», https://www.ac-sciences-lettres-montpellier.fr/academie_edition/fichiers_conf/JONQUET-TOULOUSE-2019.pdf (Olivier Jonquet, Max Rouquette, d’Argelliers au monde entier, Académie des Sciences et Lettres de Montpellier, Coll. Acad. Jeux Floraux, Toulouse, 18 mai 2019.
Cet article est le texte de la conférence présentée lors du colloque inter-académique «Les auteurs d’Occitanie en leurs terres», organisé par l'Académie des jeux Floraux, à Toulouse, le 18 mai 2019. Publié avec l'aimable autorisation de l'Académie des Jeux Floraux), pp. 1-9, citato da p. 4. L’elogio rimanda, per questo passo sulla madre defunta di Spagnola, a Ils sont les bergers des étoiles, éditions du Rocher, 2001, p. 28.
Una celebrazione della sua figura di medico si leggeva già in https://www.ac-sciences-lettres-montpellier.fr/academie/membres/biographie/470_Rouquette-Max, O. Jonquet, Eloge du professeur Max Rouquette, «Bulletin mensuel de l'Académie des sciences et lettres de Montpellier», NS. n. 39 (2008), pp. 433-448.
2 Per la sua figura di letterato, basti in questa sede la bella scheda di Fausta Garavini, «Lo sol poder es que de dire». La letteratura occitanica oggi, «Paragone» 117-119 (2015): pp. 15-120, in part. pp. 22-35, da cui possiamo solo estrapolare un estratto (pp. 22-23) : «Max Rouquette (Roqueta in oc), nato ad Argelliers, in Linguadoca, nel 1908, in una famiglia di viticoltori, e deceduto a Montpellier nel 2005, è una delle figure più importanti di fine secolo. Medico di professione, segretario generale e successivamente presidente dell’I.E.O. di cui fu tra i fondatori, direttore della rivista ‘ÒC’ dal 1978 al 1983, è autore di una vasta opera poetica, narrativa e teatrale. […] Evocando lo splendore solare del retroterra di Montpellier, queste prose sono percorse dall’ossessione del tempo che ci separa dal cuore delle cose e della vita. Il compito dello scrittore è dunque una ricerca ontologica: rendere ‘il canto del mondo’, delle creature che hanno accesso all’ ‘essere in sé’ dell’universo, piante, bestie o uomini, i vagabondi, i pastori, i poveri di spirito. Sono così equiparate in dignità tragica le diverse agonie – di una volpe, di un cacciatore, di un cinghiale, di un cane o di una masseria – descritte in queste pagine. La profonda unità della tematica rouquettiana si conferma nel romanzo La cerca de Pendariés (La ricerca di Pendariés, 1996), storia di un medico del Cinquecento che indaga il mistero del corpo umano, mentre in Tota la sabla de la mar (Tutta la sabbia del mare, 1997) – viaggio di una sibilla nell’eternità attraverso metamorfosi successive nei tre regni, animale, vegetale e minerale – è esplorato il mistero del cosmo […].
Impossibile elencare qui la bibliografia di e su Rouquette. Un riferimento costante è quanto promosso dall’associazione Amistats Max Rouquette, che edita i «Cahiers Max Rouquette», arrivati al numero 13 (2019), presieduta da un altro medico-letterato nato a Montpellier, Jean-Frédéric Brun, http://jfbrun.eu/lengadoc/ (su Rouquette: http://jfbrun.eu/lengadoc/maxon.htm; sulla Cèrca : http://jfbrun.eu/lengadoc/pendari.htm).
Ci limiteremo a citare uno studio d’insieme (Max Rouquette et le renouveau de la poésie occitane. La poésie d’oc dans le concert des écritures poétiques européennes (1930-1960, Philippe Gardy e Marie-Jeanne Verny (dir.), Montpellier, PULM, 2009, https://books.openedition.org/pulm/391) e alla traduzione del suo capolavoro, prefato da Roland Pécout: Max Rouquette, Vert paradis, Livres I et II, traduit de l'occitan par Max Rouquette et Alem Surre-Garcia; préface de Roland Pécout; suivi d'un entretien de Max Rouquette avec Henri Giordan, Arles, Actes Sud, 2012. Ci dice Silvia Pallini che ha pronta la traduzione italiana del primo volume di Vert Paradis, in attesa di pubblicazione. Rallegrandoci, auspichiamo traduzioni in italiano della letteratura occitanica, che purtroppo scarseggiano.
3 Per la versione occitana, Max Roqueta, La cèrca de Pendariès, Canet, Trabucaire, 1996. Un ringraziamento sentito va al figlio di Max Rouquette, Jean-Guilhem Rouquette, per i suoi preziosi suggerimenti bibliografici e per il permesso consentito alla pubblicazione dell’opera del padre. In caso di versione italiana integrale, alla Casa Editrice Trabucaire andranno tutti i diritti (Droits réservés@ Editions Trabucaire, 1996.).
Dato che qui ci siamo basati sulla versione occitana, strumento utilissimo è stato per me Le lexique occitan-français de Max Rouquette, par Jean-Guilhem Rouquette, EDITION 2010 (qui citato in sigla LMR), http://www.max-rouquette.org/ressources/lexique-max-rouquette.
Ringrazio Matteo Rivoira che mi ha usato la cortesia di rivedere accuratamente la traduzione.
4 Max Rouquette, La Quête de Pendariès, roman traduit de l'occitan par l'auteur, Canet, Trabucaire, 2000.
5 Geneviève Dumas, Santé et société à Montpellier à la fin du Moyen Âge, Leyde, Brill, 2014. http://histoiremedecine.fr/3.html (Société Montpellierraine d’Histoire de la Médecine). Se ne veda il programma attuale (http://histoiremedecine.fr/)
17 Avril 2020 (3° Vendredi) : Daniel Le Blévec
Raymond Chalmel et son traité sur la peste (XIV° siècle).
9 Octobre 2020 : François Bonnel ; (Bâtiments historiques Theatrum Anatomicum)
L'âge d'or de l'anatomie à Montpellier avec le Professeur Paul Gilis (1857-1929).
6 «Max Rouquette est né à Argelliers, village de l’arrière pays montpelliérain, le 8 décembre 1908. Après une enfance profondément marquée par le contact avec la nature sauvage, immergée dans la langue occitane à l’état natif et le monde des légendes, il poursuit ses études secondaires au Lycée de Montpellier. Ce sont des années d’éblouissement au cours desquelles il découvre la culture classique et le monde de l’écriture. Il étudie la médecine dans l’antique faculté de cette ville, s’impliquant dans la vie étudiante, et notamment dans une association, Le Nouveau Languedoc, dont il contribue à faire un outil ambitieux de diffusion et de valorisation de la culture d’Oc», http://www.max-rouquette.org/biographie.
7 Nicole Lemaître, Les livres de raison en France (fin XIIIe–XIXe siècles), « Bolletino della ricerca sui libri di famiglia», 7 (2006), pp. 1-18. A p. 10 si ha il seguente prospetto delle qualifiche degli autori :
artisans
2
écuyers
4
officiers inférieurs
6
médecins-chirurgiens
6
bourgeois
7
Couples et veuves
9
marchands
13
clergé et enseignement
16
notaires
24
officiers moyens
24
officiers supérieurs
34
8 A ridosso dell’inizio di quel periodo, per esempio, si narra della terribile epidemia di peste scoppiata intorno ad Aix, descritta da Nostradamus, noto e controverso personaggio originario di quell’area, che soggiornò anche Montpellier per la sua formazione (cfr. infra), cfr. Georges Minois, Storia dell'avvenire. Dai profeti alla futurologia, Bari, Edizioni Dedalo, 2007, Il secolo di Nostradamus. p. 282. è interessante segnalare un famoso romanzo storico che si svolge esattamente in questi anni (1566-67), incentrato proprio sulla vita che orbita attorno alla scuola medica di Montpellier, dove il protagonista s’immagina allievo di Rondelet: Robert Merle, En nos vertes années, Paris, Plon, 1979 (Fortune de France, 2), libro tradotto in varie lingue, tra cui l’inglese: City of Wisdom and Blood. Sono intenta proprio a fornirne un parallelo tra questo romanzo storico e il libro di Rouquette.
10 Giobbe, 2, 7 : « Satana si ritirò dalla presenza del SIGNORE e colpì Giobbe di un'ulcera maligna dalla pianta dei piedi alla sommità del capo; Giobbe prese un coccio con cui grattarsi, e si sedette in mezzo alla cenere».
13L’Université de Médecine de Montpellier et son rayonnement (XIIIe-XVe siècles). Actes du colloque international de Montpellier organisé par le Centre historique de recherches et d’études médiévales sur la Méditerranée occidentale (Université Paul Valéry - Montpellier III), 17-19 mai 2001, Daniel le Blévec et Thomas Granier (édd.), Turnhout, Brepols, 2004.
https://www.umontpellier.fr/patrimoine/musees/musee-danatomie (2, rue de l’École de Médecine) ; https://www.umontpellier.fr/articles/musee-danatomie-laventure-interieure.
Caroline Ducourau, « Les restes humains au conservatoire d’anatomie de la faculté de médecine de Montpellier », Technè, 44 | 2016, 22-28 «La faculté de médecine de l’Université de Montpellier abrite une collection anatomique d’importance, présentée dans une galerie majestueuse construite à cet effet à la moitié du xixe siècle. L’origine de cette collection date des dernières années de la Révolution française, qui fut une période de profonde réforme de l’enseignement de la médecine et de la chirurgie, avec la création en 1794 de trois Écoles de Santé en France (Paris, Strasbourg et Montpellier), accompagnées chacune d’un conservatoire comprenant un cabinet d’anatomie destiné à l’enseignement pratique. La collection, qui est constituée quasiment pour une moitié de restes humains relatifs à l’anatomie humaine normale et pathologique, s’enrichit au cours des xixe et xxe siècles par l’activité même de l’École pratique d’anatomie et de chirurgie, et grâce aux nombreux dons de professeurs ou de chirurgiens. Elle est ainsi un témoignage remarquable des méthodes d’enseignement de l’anatomie avant l’avènement moderne de ’’ l’anatomie du vivant’’».
14 Non è moltissima la letteratura critica su questa opera; si veda principalmente Robert Lafont, Pendariès, ou le médecin poète aux abîmes, «Auteurs en scène, 1293-1535», n°1, décembre 1996, p.75-79; Fritz Peter Kirsch, Sur La Cèrca de Pendariès. Notes de lecture, «Les Cahiers Max Rouquette», 11-12 2017-2018, pp. 153-156 e la scheda di Philippe Gardy, http://www.max-rouquette.org/oeuvre/oeuvre-prose/pendaries. (oltre che http://jfbrun.eu/lengadoc/pendari.htm).
17 Sul grande medico catalano del XIII-XIV secolo, formatosi in filosofia a Montpellier, dove si sposa con una nobildonna del posto, http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/arnaud_dv.html.
«L'avi Pendariès viu dins l'ancian ostau d'Arnaud de Vilanòva, ont s'atròban encara los topins d'alquimista dau "mètge solemnial". Mas l'òbra grand de Pendariès aquò's pas de far d'aur. Pendariès, amb la mentalitat d'un alquimista, troceja de rescondon de còsses de defuntats. Sa cèrca secrèta es l'exploracion dau còs. Aquò's l'afar de sa vida: far d'anatomia. Avançar dins la conquista dau saber, cap a de regions ont los òmes encara som pas estats veire. Aquò legit a un prumièr nivèl, i retrobatz de sovenirs d'escolan de medicina a Montpelhièr, lo jove mètge soscant dins aquel grand ostau emplit de sovenirs a sos ancessors embriagats de saber e d'enveja de ne saupre mai. E qu'èran coma los de uòi, sempre a se carpinhar e a se criticar. Max a pas de mau per se representar la medecina a Montpelhièr en 1546: amb un pauc d'imaginacion, per quau trèva longtemps los corredors d'aquela antica facultat, vos i retrobatz. Completatz un pauc vòstra intuicion amb un peçuc de sovenirs dels viatges de Fèlix e Tomàs Platter e dels bèus libres d'istòria que lo doctor Dulieu consacrèt a aquela istòria, e avètz lo decòr plantat. Mas, aitanben, endevinhatz que Max Roqueta a pas vougut imitar Alexandres Dumàs. Emai la tòca siá pas desprovesida d'interés. A un segon gra de lectura, lo libre es tanben una faula. Amb mai d'una clau, de segur. Se pòt cercar emai trobar mai d'una metafòra dins aquela narracion lisa e pasments nivolosa, magnifica e escura. L'idèa d'una construccion en abisme amb miralhs que se respondon ven d'aquel avi de l'avi, Vilanòva qu'es lo rèire de sòmi de Pendariès. Aquel personatge qu'es aquí de lònga en filigran dòna au racònte una prigondor e una espessor mai grandas. Mas me sembla que lo reconoisse, l'anatomista batejant apassionadament de traucs d'òssa. L'anatomista obsedit per sa cèrca que lo mena enluòc: es de la parentèla de l'escrivan occitan», http://jfbrun.eu/lengadoc/pendari.htm.
18« L'origine de la Faculté se confond avec l'essor de la ville commerçante : c'est le "mons pistillarius" ou montagne des épiciers. La position géographique de la ville de Montpellier, au bord du golfe du Lion, lui permet d'être le trait d'union entre la France et les populations riveraines de la Méditerranée […] L'École de médecine jouit d'un grand prestige ayant la réputation d'avoir hérité du savoir des Arabes et des Juifs, elle accueille des étudiants de toute l'Europe […] Le Montpellier du Moyen Age a instruit ou accueilli de nombreux médecins parmi les plus grands. Parfois contrebattue à Paris, son influence heureuse s’est fait sentir sur toute la France et au-delà même de nos frontières.L’Ecole de Montpellier s’honore de compter parmi ses élèves Gabriel et François Miron, médecins de Charles VIII, le fameux Nostradamus (1530), Laurent Joubert (1558) et trois anatomistes réputés : Sylvius (1530), Platter (1555), Bauhin (1580). Plus tard Théophraste Renaudot, Pecquet, Vieussens, Sydenham, Boissier de Sauvages et de nombreux autres : Guillaume Rondelet se lia d'amitié avec François Rabelais qui obtint à Montpellier son titre de docteur en médecine en 1537.http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/Medecins_Montpellier/fac_montpellier.html
19 «Guillaume Rondelet est né à Montpellier le 27 septembre 1507. A 18 ans, il vint à Paris et y passa quatre années. Puis il retourna à Montpellier et y prit le grade de bachelier en médecine. Il retourna ensuite à Paris, puis s'arrêta quelque temps en Auvergne où il exerça la médecine avec succès. Il fut reçu docteur à Montpellier en 1537. Quelque temps après, sur la recommandation du chancelier de la faculté, le cardinal de Tournon le choisit comme médecin et il l'accompagna dans ses voyages, notamment en Italie et aux Pays-Bas. C'est au cours de ces voyages que Rondelet acquit beaucoup de connaissances sur le poisson.
En 1545, il reçoit la chaire de médecine, à la mort de Pierre Laurent à la Faculté de Médecine de Montpellier où il va influencer de très nombreux scientifiques de son époque. Il participe activement à la construction d'un amphithéâtre dans la faculté que fait bâtir Henri II. Cet amphithéâtre permet à Rondelet de faire ses démonstrations par la dissection de nombreux cadavres.
Il organise le premier cours officiel de Botanique en France (1550) et sera le précurseur des herborisations dans les garrigues montpelliéraines, cévenoles et pyrénéennes. Il créa un premier jardin botanique sous la forme d’un Hortulus installé intra-muros dans la cour intérieure de l’antique école de Médecine.
Il devient, en 1556, chancelier de la Faculté après la mort de Jean Schyron.
Il enseigna durant 21 ans et eut une pléiade d’élèves comme :
François Rabelais (1483-1553), Léonard Fuchs (1501-1566), Jacques Dalechamps (1513-1588), Conrad Gesner (1516-1565), Pierre Belon (1517-1560), Charles de L’Eluse (1526-1609), Mathias De Lobel (1538-1616), Léonard Rauwolf (1535-1596), Jean-Antoine Sarrasin, Félix Platter(1536-1614), Jean Bauhin(1541-1612), Gaspard Bauhin(1560-1624).
[…] Contemporain de Rabelais, il est le modèle du personnage du docteur Rondibilis dans le Tiers livre de François Rabelais. Il mourut le 30 juillet 1566.
http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/Medecins_Montpellier/rondelet_guil.htm
20«Michel de Nostredame dit Nostradamus. Michel de Nostre-Dame est né le 21 Décembre 1503 (du calendrier julien), ce qui correspond précisément au 62 ans, 6 mois et 10 jours, que l'on peut lire sur son épitaphe, à Saint-Rémy-de-Provence, vieille citée gallo-romaine. Sa maison natale est visible dans la rue Hoche, ex rue des Barri. […] Il était l'aîné de six enfants. Son père, Jaume {équivalent provençal de Jacques (1470-1536)}, y est titulaire d'une charge de notaire, sa mère est Reynière (ou Renée) de Saint-Rémy. Issu de la tribu juive d’Issakhar, il descendait d’une lignée d’Israélites considérés comme très savants. Ses deux grands-pères avaient vécu à la cour du roi René (1409-1480), duc d'Anjou et comte de Provence. […] Une fois qu'il ait obtenu son titre de Maitre ès arts (un peu le baccalauréat actuel), il s'inscrit à la faculté de médecine de Montpellier en 1521, passe probablement une épreuve de baccalauréat en médecine vers 1524.
Lorsque la peste arriva d'Italie en 1525, les hommes crurent qu’était venu le temps de l’apocalypse. Elle s’étendra rapidement depuis Avignon jusqu'à Narbonne, Toulouse, Carcassonne et Bordeaux. La Faculté suspend ses cours, puis ferme ses portes.
Les jeunes étudiants en médecine se dispersent, tous apprennent à combattre la terrible épidémie, contre laquelle seul le courage des médecins, quelques mesures d'hygiène, et surtout la ferveur des prières pouvaient lutter. Michel de Nostredame quitte Avignon pour Narbonne puis Toulouse et Bordeaux, pour tenter de soigner les habitants. En 1528, tout le Midi est la proie d’une épidémie encore plus sévère que les précédentes, la famine et la guerre ajoutant à la désolation. Il décide à cette occasion d'approfondir l'étude des plantes et de la "pharmacaitrie". Ce qui lui permet de se faire connaître grâce aux remèdes qu’il a mis au point, dont les fameuses boules de senteur. Plus tard, Michel de Nostredame écrira un Traité sur la peste, lequel aura énormément de succès tant en France qu’en Angleterre.
En octobre 1529, il reprend à Montpellier ses études de médecine. Sa seconde inscription est retrouvée dans le "livre du procurateur" de l'époque, Guillaume Rondelet, et Antoine Romier où son passage est mentionné en latin (sous le nom de Micheletus de Nodta Domina). Sur les bancs de la faculté, il rencontre un certain Rabelais, attiré lui aussi par la renommée de cette université. Ses maîtres à penser sont Galien et Paracelse. Il y apprend également l'astrologie, en raison de l'influence supposée des planètes sur l'évolution des maladies. Brillamment reçu, et nanti de sa licence puis de son doctorat, le jeune médecin voyage à la rencontre des plantes et des maladies.
C'est de cette période que date la traduction française par Michel de Nostredame d’un opuscule de Galien qu’il publiera plus tard, en 1557, "La Paraphrase de C. Galen, sus l’exhortation de Menodote, aux études de bonnes Arts, mêmement Médicine" : il devait s'agir de son sujet de thèse principale pour l’obtention de son doctorat. […] Le "train royal" s'arrêta à Salon le 17 octobre 1564.
C'est donc Catherine de Médicis et sa Cour qui viennent rencontrer Nostradamus à Salon-de-Provence. Il est confirmé dans ses titres de médecin ordinaire et de conseiller du Roi. Le prophète prédit que le neveu de la reine, un certain Henri de Navarre, montera sur le trône de France ; Nostradamus a ainsi correctement prévu les règnes d’Henri IV, mais aussi ceux des trois fils de Catherine de Médicis : François II, Charles IX et Henri III […].
Il rédige son testament le 17 juin 1566. Le 2 Juillet 1566, la goutte a raison de la santé de Nostradamus, a 62 ans, 6 mois et 10 jours : il est retrouvé mort près de son lit et de son banc ... tel qu'il l'avait prédit dans un de ses quatrains.
Ses ossements sont d'abord ensevelis à Salon, dans l'église du couvent des Frères Mineurs dit Couvent des Cordeliers, comme il le souhaitait, où était gravée l’épitaphe : "Dieu très grand. Ici les os du très illustre Michel de Notre-Dame, estimé digne entre tous les mortels de décrire suivant le cours des astres et de l'univers tout entier, d'une plume presque divine, les événements de l'avenir. Il a vécu 62 ans, 6 mois, 10 jours, et mourut à Salon en 1566." […] Son œuvre s'agrémente d'un manuscrit découvert au XXe siècle et intitulé "Les hiéroglyphes de Horapollo" (interprétation des hiéroglyphes égyptiens), dédié à la princesse de Navarre.
Cet homme est avant tout un savant, un érudit. Il est le creuset dans lequel se subliment toutes les tendances venues de l'Antiquité pour exploser dans ce fabuleux XVIe siècle», http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/nostradamus.html.
Sulla famiglia di notabili e in particolare il fratello minore di questo personaggio, si veda il bellissimo studio di Jean-Yves Casanova, Historiographie et littérature au XVIe siècle en Provence. L'œuvre de Jean de Nostredame, Turnhout, Brepols, 2012.
21« Après quelques années d'étude à Bordeaux, Toulouse et Paris, le plus célèbre des étudiants de Montpellier vient passer son baccalauréat à la faculté de médecine en 1530-31. Il a donc déjà 40 ans. Le choix de cette Université tient sans doute à la liberté relative dont elle jouit puisqu'on pouvait y pratiquer des dissections sur les cadavres en toute légalité depuis 1340.
Il enseigna dans cette même faculté l'œuvre d'Hippocrate et de Galien durant quelques mois, en 1531. Fidèle à l'esprit humaniste, il le fit dans le texte original grec.
Son second séjour à Montpellier a lieu en 1537-38 : cette fois il obtient la licence puis le doctorat. Entre-temps, il a exercé la médecine à Lyon jusqu'en 1535, et publié Pantagruel (1532) et Gargantua (1534). Il retourne à Lyon de 1538 à 1543, toujours médecin. Le Tiers Livre paraît en 1546 et le Quart Livre en 1552. Le Cinquième Livre est posthume.
La bibliothèque conserve dans les archives de la Faculté son inscription autographe (17/9/1530), son inscription au baccalauréat (1/11/1530) et la mention de son doctorat (22/5/1537), un livre de Pietro Bembo lui ayant appartenu et plusieurs éditions de ses œuvres contemporaines. »
http://www.biu-montpellier.fr/ezpublish/index.php/fre/Patrimoine/Medecine2/Les-archives/Francois-Rabelais-1494-1553. «Si l'on voulait mettre en doute le sérieux de l'homme de science qu'il fut, il s'imposerait de lui-même à la lecture de cette phrase:
"Par fréquentes anatomies (dissections), acquiers-toi la parfaite cognoissance de l'autre monde qui est l'homme." Alors même que la dissection de cadavres humains exposait à de graves sanctions de la part des autorités tant civiles que religieuses», http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/rabelaisf.html.
R. Antonioli, Rabelais et la médecine, Etudes rabelaisiennes, t. XII, Genève, Droz, 1976.
Gargamelle, figlia del re dei Parpaglioni, entrata in travaglio per una spanciata di trippe, generò il gigante Gargantua da un orecchio, come si legge nel noto romanzo di Rabelais (I, cap. 3-4; 6).
23
Si vedano i capp. 13, 27, 37, 86. Sto programmando la traduzione anche dei capitoli della Cèrca che riguardano Rabelais. Michail Bachtin, L'opera di Rabelais e la cultura popolare. Riso, carnevale e festa nella tradizione medievale e rinascimentale, Torino, G. Einaudi, 1979.
24
Nella dedica della versione occitana si legge: «Per Felip Castan / mon amic, / dins la «Notomia» ; per questo medico e storico della medicina, si veda https://www.ac-sciences-lettres-montpellier.fr/academie/membres/biographie/641_Castan-Philippe. Philippe Castan, Naissance de la dissection anatomique. Deux siècles à l'apogée du Moyen-Age, autour d'Henri de Mondeville et Gui de Chauliac. Intérieur et extérieur du corps humain à l'apogée du Moyen-Age, essai, préface de Pierre Rabischong, collaboration iconographique de Mourad Chaabane, Montpellier, Sauramps médical, 1985. Per l’elenco delle sue pubblicazioni: https://www.idref.fr/026771187. In esordio, si omaggia infatti Henri de Mondeville (1260-1320): «Mondeville enseigna à Montpellier où il compta Guy de Chauliac parmi ses disciples, avant de devenir le chirurgien attitré de deux rois de France: Philippe le Bel et Louis le Hutin, ce qui l'aura amené à fréquenter de nombreux champs de bataille, et de ce fait, à être le premier à expliquer comment traiter des blessés en armure! Mondeville est également très connu pour son enseignement de l’anatomie à l’école de médecine de Montpellier. Il y aurait effectué une dissection publique en 1304, à la demande de quelques étudiants en médecine. Il considère l’anatomie comme indispensable pour exercer la chirurgie», http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/Medecins_Montpellier/mondeville_henri.htm. Marie-Christine Pouchelle, Corps et chirurgie à l'apogée du Moyen Age. Savoir et imaginaire du corps chez Henri de Mondeville, chirurgien de Philippe le Bel, Paris, Flammarion, 1983.
25
«Le principal obstacle tenait à la pénurie de sujets d’étude. Malgré la protection toujours fragile de quelques princes éclairés, les premiers anatomistes eurent à surmonter de grandes difficultés. Les amphithéâtres d’anatomie s’édifièrent lentement, à Padoue en 1490, à Leyde, à Bologne décidé en 1597 construit en 1637, à Montpellier en 1551 et Bâle en 1588, Paris en 1608. La dissection de cadavres humains exposait en effet à de graves sanctions de la part des autorités civiles et religieuses que hantaient, selon les cas, l’idée d’un meurtre camouflé ou la crainte d’une entreprise de sorcellerie», http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/divers_institutions/medecine_3_renaissance.html
26
Per un’epidemia di peste molto vicina nel tempo a questa di cui il libro di Rouquette parla, cfr. Louis Dulieu, La peste à Montpellier, 1579, «Etudes Heraultaises», 1984, nn.5-6, pp. 13-18: «Montpellier ne fut pas exempt de ces calamités et les chroniques nous font connaître un nombre impressionnant d’épidémies : 1287, 1315, 1348, 1358, 1361, 1374, 1375, 1384, 1391, 1395, 1407, 1481, 1498, 1502, 1506, 1510, 1515, 1522, 1530, 1533-34, 1541-42, 1564, 1579-81, 1588-89, 1629-30, 1640-41», adesso si veda il link https://www.etudesheraultaises.fr/publi/la-peste-a-montpellier/.
28
Philippe Gardy in : http://www.max-rouquette.org/oeuvre/oeuvre-prose/pendaries
29
«Mais moi, je suis médecin. Donc, cette consolation, il me la faut: savoir de quoi je meurs», p. 249.
30
«Mas tanben aquel Pendariès sembla Max Roqueta coma un fraire. La bolegadissa nècia dels òmes de son temps lo làguia. Alara sosca. Sap dire cossí bleuja es la beutat, cossí freule es lo bonur. Que, nos ditz Max, vivèm un sòmi totes tants que siam. Despartits de la realitat, flotejam dins lo pantais d'orguòlh dau mond qu'avèm fargat. E se barra lo libre sus un fuòc d'artifici de ravacion febrosa»), http://jfbrun.eu/lengadoc/pendari.htm.
31
La traduzione di questi passi è stata dotata di brevi didascalie per consentire una lettura più agevole dei vari motivi che afferiscono al grande tema della peste. Tendenzialmente, invece, si è conservata la punteggiatura d’autore, che definisce le pause del suo pensiero, anche quando sembrino creare incoerenza rispetto alle norme del periodare della prosa italiana.
32
«masca : sorcière. La Pèsta. Masca de la masqueta negra», LMR. In occitano c’è un evidente gioco di parole.
33
«rèba : épidémie. …una rèba que passa…(2) ; La reba : aquò vòl dire tant de malautiás que finís per ne sonar ges (10) ; Las rèbas que passan e que fan gibós lo cementèri.(4)», LMR.
36
sagatar : trancher, tuer. …cada pas que fai, cada picar dau còr sagata un flòc d’aquela vida…(28)
sagatat : massacré, égorgé. De tant qu’es bona, es de la mena das sagatats.(3)
37
«enfalenat : empesté. E lo buta, lo trai, l’escampa dins l’èr enfalenat de mòrt e de susor febrosa», LMR.
38
«apegar : appuyer. …una mena de tomba escura ont degús ausa pas pus apegar la man sus una
taula…», LMR.
39
«esperdigalhar (s’) : s’engaillardir. E los òmes s’esperdigalhan. An lèu fach de delembrar çò que li empacha lo bonur», LMR.
40
«gèrla : jarre. …las grandas gèrlas d’òli, tapadas d’un cabucèl de fusta, e las gèrlas d’olivas vèrdas.(1)», LMR.
43
«embolh : complication. Que serián destemporadas e desvariadas se las causas anavan sens ges
d’embolhs.(5)
embolh : embarras. … s’anava trobar dins un embolh sens nom.(10) ; ela que fai tant d’embolhs amb
aquel cadelàs (35)(Synge, Balarin III)», LMR.
44
«estamina : oriflamme, bannière, étendard ; …afustar l’aurelha a tota paraula que debanariá sas
estaminas per carrièira…(3) ; Amb sos drapèus e sas estaminas.(13)», LMR.
45
«gamat : gâté, pourri. … tot çò de gamat, de gastat, que pertot rebala…(33)
gamat : gâté, pourri. MR utilise au sens de : contaminé. …çò sol que demòra quand lo còs es
gamat…(10)», LMR.
48
«carbon : bubon, inflammation gangréneuse», LMR. Riferibile al carbonchio o antrace, e alle piaghe di colore nero.
50
«L’anatomie telle qu’elle avait été décrite par Galien, en se basant sur la structure du singe, comportait autant d’erreurs que de vérités. L’interdiction formelle de disséquer pendant mille ans - édictée aussi bien dans les pays chrétiens que dans ceux d’obédiance coranique - rendit impossible tout progrès de l’anatomie», http://www.medarus.org/Medecins/MedecinsTextes/divers_institutions/medecine_3_renaissance.html
51
«cachavièlha : cauchemar. …perduts en un mond parièr, de sòmi o de cachavièlha, mond al rebors, al rebors de l’autre (13)», LMR.
52
«campejar : poursuivre, courir après, traquer. Pòde pas campejar tota la nuòch aquel paure ! (21)», LMR.
53
«aigat : inondation. …an pas jamai vist venir lo mau, pas mai que la mala fam e los aigats grands», LMR.
55
«trevança : l’errance. La trevança i passa amb una espantosa libertat.(6) ; Caminament de glòria
desrabada au solelh a cada pas segur cap als orizonts de la trevança. (35)(Temple)», LMR.
«trevança : hantise, obsession, hallucination, vision. Una mena de trevança secreta, color de repentitge e gost de bonur... Coma dire ? Çò, dins l’èime, que te tòrna au moment qu’i penses lo mens. (13) ; Aquela trevança que despuòi la guèrra, arrèsta pas de me despertar dau sòmi desvelhat ont camine sens relambi.(13)», LMR.
56
«balarin : baladin.[…] Balarins de farcejada, desforviats dins lo grand mistèri de la mòrt.», LMR.
57
«becarda : bécasse. …becàs de becarda giganta que sa maire auriá fautat amb un corbàs.(10)
[…] Es un aucèl de fin dau temps… Sola vida de las combas sonantas, es l’aucèl de la soletat e de la malanconiá. (1)», LMR.
59
Marsiglia, grande porto di mare, conosce numerosissime epidemie, la più famosa delle quali sarà quella del maggio 1720.
60
Sulle varie attribuzioni della responsabilità della sifilide dilagata a Napoli, detta anche morbo gallico, si vedano gli studi in cui, per esempio, si distinse Girolamo Fracastoro (il poema Syphilis sive de Morbo gallico, Verona 1530 e il trattato De contagione et contagiosis morbis, Venezia 1546), http://www.treccani.it/enciclopedia/girolamo-fracastoro_%28Enciclopedia-Italiana%29/ .
61
«paur : peur. La paur que desrusca lo voler e que nega l’espèr. E fai lo lièch dau mau que puòi
s’esparsís…», LMR.
62
«esparsir (s’) : se répandre, s’épandre. …lo mau que puòi s’esparsís e corrís coma encendi d’agost», LMR.
63
«rafatum (lo) : les moins-que-rien, le rebut. …los remèdis los melhors a los que pòdon pagar, los traces au rafatum». LMR.
66
«pallevar : soulever. Un mond encotonat e pauruc que reten son alen, sembla, crenta de pallevar au sòu quauca nèbla malefica», LMR.
67
«penons (de) : prudemment, à petits pas. E quand, a la muda, se parlan, o fan de penons…(10)», LMR.
71
«apostèma : purulence, pus, abcès. Un entristesiment de lònga que pren las colors de l’apostèma», LMR.
73
«laudano Preparato di oppio con vino o alcol e correttivi coadiuvanti vari. Deriva da una formula proposta da T. Sydenham (1624-1689) che ebbe vastissima diffusione e subì varie modificazioni. Secondo la farmacopea italiana si prepara facendo macerare per una settimana oppio in polvere (15 parti), zafferano (5), cannella (1), garofani (1) in acqua (70) e alcol a 60° (70), e poi filtrando. È un liquido bruno che contiene circa l’1% di morfina e che ha le proprietà antispastiche e antidolorifiche dell’oppio», http://www.treccani.it/enciclopedia/laudano/.
74
Strumento musicale : « tarabastèla : crécelle, tintamarre. …la tarabastèla de las musicas de fièira…(8) ; … la coa de la sèrp. Lo verin es passat que la coa rebala encara sa menuda tarabastèla», LMR (figurato per i “sonagli” della coda del serpente)
75
«encapar : accepter, supporter. Aquí çò que lo jove qu’èra o podiá pas encapar.(10)
encapar : admettre, accepter», LMR.
76
«fòrt e mòrt : à tout prix (5) ; De toutes mes forces : L’ai volgut, fòrt e mòrt, ieu, tanben (34) ; aquí l’escach que caliá per s’agromelar, fòrt e mòrt, alentorn dau secret», LMR.
77
«agandir : arriver, atteindre. …aviá lèu fach d’agandir fins a l’espatla. (1). …agandir au vilatge =arriver au village. (1).», LMR.
79
Muso (immusonito) «lo morre d’un ase…(12) […] morre de leu : face difforme, laide. Lo miralh es pas jamai l’encausa d’un morre de leu… (34)
morrut : renfrogné. (33)
morrut : à grosses lèvres, comme un muffle. Qu’es demorat, de milenaris, emmargat dins las
semblanças de las bèstias, peludas, morrudas e de front bas.(13)», LMR.
82
«capejar : hocher la tête. …non jamai finissiá de capejar coma un ase quand vòu pas tirar (2). Capejave, ieu, l’èr entendut.(10)», LMR.
84
«pesuc, -ga : pesant, -ante. (MR écrit au féminin pesuca pour pesuga). …l’èime d’aqueles que la vida de cada jorn, sempre parièra, i veniá pesuca, assucanta, a la fin, de lònga laguianta (13)», LMR.
88
« malaiga : décomposition des eaux des étangs l’été, par manque d’oxygène (eutrophisation). …la malaiga, qu’es poiriment de las aigas palustras», LMR.
92
«ridèla : ridelle, barrière sur les còtés d’une charrette ou d’un camion pour contenir ce qui est sur le plateau. …jos la ridèla de la parpèla…», LMR (trad. rideau).
94
«estremar : mettre en sûreté, enfermer, cacher. Davant de m’anar estremar dins lo sòm.(10)
estremar : ranger, mettre à l’abri. (2) Lo Monge estrema de fielats dins un canton, jos la banqueta de la barca (34)», LMR.
98
«desmargat : détraqué. … a bufar coma de desmargats dins una cana de ferre per coflar de
flascons.(13) ; A despart que siague desmargat de l’esperit, coma se ne vei tant (13)
desmargat : disloqué, démantibulé. …un còs desmargat e tot ensagnosit», LMR.
101
«simbèl : automate, impassible, immobile comme un appelant de bois. Fau, coma un simbèl, çò de prescrich», LMR.
androna : fond de boutique. …dins l’androna d’un boquinista, empudentida d’un fum, de lònga, de
tabac, que n’èra a vos levar l’alen (13)
androna : réduit, cachot. Mas presonièr que delembra, fin finala, la sarralha e la clau que ten pas e finís per cantar dins sa trista androna (5).
androna : repaire. Mas i bastariá de tancar la pòrta de son androna…(5) ; bauge, tanière. Lo vièlh lobàs finís que sortís de l’androna. (28)
androna : MR traduit souvent par bouge, taverne. Batián las egas, e coma fasián aval dins las andronas das pòrts, jogavan de sòus. (3) … andronas que remandavan a l’èr clar sa sauvagina escura…(5) . … de las andronas ont se delembra la nuòch. (4). E somiam de serenas. Coma se ne mancavan dins las andronas dau pòrt.(34)
androna : abîme (fig.). …o la mar, amb sas andronas, sas baumas d’infèrn e sos Dracs. (34)
anequelit : épuisé … lo lum anequelit das ciris das repausadors abandonats.(4) ; …la bèstia magra, anequelida.(2)», LMR.
108
«meridiana : sieste. … la meridiana qu’en aquel temps de l’estiu èra una costuma necessària.(4)», LMR.
111
engenh : génie. …coma trevat d’una mena d’engenh que lo tresmudava.(8) ; A despart que me desfaute l’engenh creator, qu’es el, vertat, pastat de la carn metèissa de l’amor.(13)
engenh : talent, adresse, ingéniosité. Era tot enfant qu’aviá pres l’engenh de bufar dins l’autbòi de son paire.(1)», LMR.
112
«gaudre : torrent (5) ; …daisses pas ton dire t’enrebalar dins son gaudre… (34) ; S’en vai, de còps coma gaudre, de còps coma grand flume alentit dins sa passejada per las planas. (13)», LMR.
115
refastinhós : repoussant, rébarbatif. … l’encens refastinhós dau sofre… ; Las taulas refastinhosas de laLei. (4) ; Aquel èr un pauc secarós e refastinhós que teniá de la frequentacion de las chifras (13) refastinhós : rebelle», LMR.
116
desvari : destruction. …la carn, un còp l’arma envolada, es liurada a son desvari.(10)
desvari : extravagance, délire, dérangement, égarement. L’òme es drech, l’espaurugal es enemic de la
verticala. Son mond natural es aquel dau desvari. (4)
desvari : trouble, désarroi, détresse. (5) ; E puòi cresètz qu’es pas trist de tornar s’en anar, s’enmascar
tot sol a cercar dels uòlhs las femnas e las filhas coma las armas perdudas en desvari espian lo Sénher
Dieu ? (35)(Synge, Balarin II) ; I a res bailat dau pauc d’amistat, de calor, de man sarrada, dau flòc de
pan, dau veire de vin que los aurián benleu, au mens per un jorn, sauvats dau desvari.(13)», LMR.
119
«enveirent : invisible. Ce mot a surpris quelques philologues, parce que, inconnu des dictionnaires, il serait non conforme à la construction normale de l’occitan. Mais la langue populaire ne respecte pas toujours des règles analysées à postériori par les grammaticiens. Voici la citation d’un poèma grivois : Lo Bòn Remèdi, de 1891, du Félibre Henri Montabré, médecin né en 1830 à Clermont-l’Hérault et mort en1895 à Montpellier (Texte photocopié d’un manuscrit transmis par Christian Gayraud).( Le félibre signait : Uzèna ) :
… çò que sentissiá quand l’enflura
veniá tornar veirenta e dura
vite au remèdi corrissiá. (1)
MR a dû entendre ce mot, soit à Argelliers, soit auprès de ses patients quand il était médecin de campagne à Aniane et dans les villages voisins. Le mot est présent dans toute l’oeuvre. MR lui était très attaché. …sa sentida d’escampat. D’escampat de tota vida, remandat a son canton, enveirent e present coma lo can a son ostalet. (13) ; E coma veire al travèrs de la ridèla escura coma suja de nuòch, dins lo voide enveirent de l’avenidor ? (13) ; e lo seguit sens fin dels empachs de tota auçada que finisson per vos aclapar, vos gastar, vos mudar en peteta, desmenada de tota man, coma las que se vei dins lo teatre per manidets, e qu’un quauqu’un d’enveirent fai dançar amb de cordilhs.(13)», LMR.
124
rispa : bise (vent). (2) ; …lo planhum jamai agotat de la rispa dins la rama orfanèla de l’ivèrn. (13) ;
Sola, sola encara, sola au mond, acotissent au vent dels jorns los recòrds coma tant de fuòlhas secas,escobadas per la rispa d’ivèrn. (28)», LMR.
125
«deslargat : laissé tomber, relâché. … aviái bravament deslargat.(13)
deslargat : lâche, mal assuré, relâché. …per tant que son amistat me semblava pasmens de tròp
deslargada per poder recaptar quauqua secreta sonada. (13)», LMR.
126
«tampona (faire) : s’empiffrer. …s’ataulèron a faire tampona de tota la carn estendilhada de pertot», LMR.
132
Geneviève Dumas, La fenêtre en temps d’épidémie: air et miasmes à Montpellier aux XIVe et XVe siècles, Actes du colloque du CUER MA, Par la fenêtre ; études de littérature et de civilisations médiévales, février 2002, «Senefiance», vol. 49, 2003, pp. 157-165.
133
alibofier : styrax. ; …son nom en occitan, plan bèl, pasmens, e que, dins tot èime d’òc fai espelir lo rire : « l’aubre als alibòfis ». Aquel nom, tant bèl, e que fai tindar tant clarament sos rasics de la lenga araba, es plan conoscut, tot de long de la miègterrana, es qu’es lo, mai bèl de totes, d’aquel parelh tant present dins l’èime de tot òme, coma dins l’ombra de sas cauças. E que la frucha dau styrax i sembla tant.(13)», LMR.
141
«enfalenar : empester, puer. … fum que tot o enfalena (2). ; L’ostau enfalenava d’aquelas òudors de misèria (5). ; …son alen qu’enfalena.(26)», LMR.
143
«Tant val Martin coma son can». Il detto non compare nella versione francese. Martin è, secondo il Tresor, 20286, un nome che si dà all’orso. Ringrazio Jean-Guilhem Rouquette che mi ha spiegato il senso del detto :« Quau amo Martín / amo soun chín» Tresor, 20287: «Il significato del proverbio potrebbe essere questo : come il padrone dell'orso e del cane non sceglie di amare l'orso piu del cane, la morte non sceglie come colpire».
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